La sala professori – Ep 1

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Di Igor Salomone

(Occhio, il post è pieno di SPOILER. Se avete intenzione di andare a vedere il film senza i miei commenti in testa, fermatevi qui. Altrimenti, buona lettura)

Non riesco da anni a vedere un film o una serie senza leggerli in salsa pedagogica. Figuriamoci se il film o la serie sono esplicitamente focalizzati su temi educativi. Per questo ho avvertito una certa resistenza nell’infilarmi al cinema per vedere “La sala professori”. Niente da fare, soffro di una vera e propria compulsione che mi ha costretto ad analizzarne le dinamiche educative.

Ovvio, direte voi, il set è una scuola, media suppongo, e i personaggi sono professori, presidi, personale, studenti, genitori. Cos’altro avrei mai dovuto vederci? Ma la vicenda può essere narrata in modo molto standard, tipo: i rapporti difficili tra un’insegnante di matematica e la sua classe e i dilemmi educativi che sorgono quando l’insegnante tenta di scagionare i ragazzi dalle accuse implicite di essere gli autori di alcuni furti avvenuti a scuola. I furti sembrano compiuti nella sala professori e l’insegnante cerca di verificare chi può essere stato scegliendo una tattica inaudita: gira un video con il computer che sembra tirare in causa la segretaria della scuola. Da qui le cose precipitano e inizia un tutti contro tutti: alunni contro alunni, preside contro insegnanti, genitori contro insegnanti e, sopratutto, tutti contro l’insegnante di matematica. In ballo ci sono il rispetto dell’Autorità versus il rispetto dei ragazzi che i ragazzi stessi rivendicano. Per non parlare del conflitto feroce scoppiato tra l’insegnante protagonista e la segretaria presunta colpevole. Conflitto che scatena in parallelo un conflitto ancor più pesante con il figlio della segretaria, alunno dell’insegnante di matematica.

Insomma, un casino. Ma la ciccia pedagogica dov’è? Sì certo, il gioco dei valori, il rispetto di ognuno per tutti contrapposto alla “tolleranza zero” sostenuta dalla Preside. Una lettura standard del fenomeno educativo, appunto. E anche piuttosto noiosa, di quelle viste e straviste in mille narrazioni simili. Alla fine si riduce tutto a un gioco di relazioni che conduce a imbuto alla centralità della relazione educativa tra l’insegnante protagonista e il suo alunno, figlio della presunta ladra. Per dirla con i più, la relazione educativa fondata sull’ascolto e l’empatia alla fine vince in un tripudio di emozioni, con la ricollocazione al centro della vicenda del ragazzo-alunno-figlio, portato in trionfo nella scena finale su una sedia sostenuta a spalle da due poliziotti.

Rrronffff…

(Nel secondo episodio: perchè il titolo è fuorviante, che struttura emerge in filigrana dalla vicenda, cosa sceneggiatori e regista hanno raccontato veramente, probabilmente senza neppure saperlo, ma sarebbe interessante chiederglielo)

Lanterne pedagogiche

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di Irene Auletta

In questi giorni sto pensando al convegno che ci sarà domani sui temi scuola, educazione e inclusione. Ogni volta per me è importante separare le esperienze di genitore e professionista per averne chiari i confini e facilitarne un dialogo capace di non confondere luoghi e contesti, pur nutrendosi della reciproca contaminazione.

Con il tema dell’inclusione scolastica mi ci sono scontrata parecchi anni fa con una neuropsichiatra che mi trattò quasi come una demente di fronte alla mia scelta, dichiarata e convinta, della scuola speciale. Se solo mi avesse fatto una domanda le avrei potuto parlare della sofferenza, dell’ambivalenza che mi aveva divorata per mesi, delle tensioni con tuo padre che non voleva cedere e dell’incontro con la dirigente scolastica che aveva consacrato l’unica scelta possibile.

Vedete, mi sento in dovere di essere onesta con voi e dirvi che, con una disabilità grave come quella di vostra figlia, il suo destino a scuola è quello di stare in classe pochissimo e di passare gran parte del suo tempo in bidelleria.

Si poteva aggiungere altro?

In realtà ho raccontato spesso anche del mio primo incontro con la scuola speciale, dove, per la prima volta, sono andata da sola per visitare la struttura accolta da gentilissime insegnanti. Non so cosa avranno visto anche loro, perchè non siamo così bravi come spesso crediamo a nascondere i nostri tormenti, ma ricordo ancora bene, dopo quasi vent’anni, il mio gironzolare nel quartiere piangendo e cercando la mia auto che, dopo la visita, non ricordavo assolutamente dove fosse posteggiata. 

Così sconsolata mi ero fermata, seduta su una panchina, e finite le lacrime mi ero detta che proprio quello era il posto giusto per te. Poi, mi sono ricordata del luogo del posteggio ed è iniziata una nuova e ricchissima avventura che oggi, risceglierei ancora e ancora, anche grazie all’incontro con le straordinarie insegnanti di Luna che sempre ho nella mente e nel cuore.

E allora, potreste dire, cosa centra questo racconto con il tema dell’inclusione scolastica?

Da quel giorno, al di là della mia scelta di genitore, non ho mai smesso di occuparmene proprio perchè credo fortemente che il futuro possibile non può coincidere o confondersi solo con quello che ci riguarda o che ci è toccato in sorte. Credo che la tutela di un diritto debba avere un respiro ampio e collettivo e siccome io l’ho sperimentata forte, proprio in un luogo spesso carico di pregiudizi come la scuola speciale, non ho mai spesso di parlarne e di occuparmene.

Come pedagogista in questi anni ho incontrato tante esperienze virtuose ma ancora moltissimi scogli culturali assai appuntiti che chiedono idee, forza e volontà condivise. E allora, mentre il mio intervento sta prendendo forma e direzione, penso alle tante storie incontrate, ai tanti racconti dei genitori, alle parole di educatori e coordinatori che seguono i progetti nelle scuole e da qui parto, con la fiducia che la ricerca educativa ogni giorno illumini un nuovo pezzetto del cammino. 

Di tutti noi.

Pedagogia digitale

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di Igor Salomone

Per fortuna questo è un problema che non ho, che non ho avuto e che non potrei avere. Però mi chiedo come avrei reagito se mia figlia fosse uno degli studenti del liceo di Piacenza che si è recentemente dichiarato Smartphone free zone.  

Male, probabilmente.

Riassumo per chi non avesse ancora incrociato la news. Nel liceo in questione, i cellulari sono stati messi al bando. Poiché però sarebbe complicato e anche legalmente discutibile ritirare tutti i telefonini a inizio lezione e custodirli in modo precario da qualche parte, il collegio docenti ha pensato bene di utilizzare un sistema già in uso negli Stati Uniti (dai, ma guarda un po’…): ogni singolo cellulare viene messo in una custodia che non può essere aperta e riconsegnato al legittimo proprietario. In pratica, ti tieni il tuo aggeggio ma non puoi usarlo. Geniale.

So che sto per dire cose impopolari. Il clima generale è di tipo normativo-repressivo, quindi saranno in molti a plaudire questa simpatica iniziativa piacentina. Ma la faccenda mi ha infastidito sin dal suo annuncio, quindi salterò le analisi e andrò subito al sodo dei problemi pedagogici connessi con questa strategia.
Vado per punti, tanto per offrire argomentazioni distinte e numerabili.
  1. Il proibizionismo non funziona mai. MAI. Non mi addentro nelle spiegazioni sociopolitiche e storiche di questo dato di fatto, non è di mia competenza. Ma che il proibizionismo non abbia mai funzionato è un fatto. Riproporlo significa non aver imparato nulla dalle esperienze passate. Vietare l’uso di qualcosa qui e ora, produce inevitabilmente l’effetto di intensificarne l’uso da qualche altra parte. Oppure sempre qui e ora ma in forme clandestine. Sai che ci vuole ai ragazzi per portarsi dietro due cellulari…
  2. Ma davvero siamo ancora al buon vecchio sistema di vietare qualcosa a tutti per colpa di qualcuno? E’ questo il messaggio educativo che dovrebbe arrivare a mia figlia? metti che lei sia una di quelle che si è autodisciplinata da tempo, che utilizza il suo iPhone con criterio e senza abusarne. Come pensate si possa sentire nell’essere trattata come i suoi compagni compulsivi, incollati allo schermo h24?
  3. La scuola ha il compito di aiutare i ragazzi a fare crescere il loro rapporto con il mondo così com’è, oppure quello di tenere fuori le parti “cattive” che disturbano? Intendiamoci, anche il secondo è un modello pedagogico conosciuto, e dalle radici piuttosto antiche del resto, però allora bisogna dichiararlo. Spacciare per progressiva e innovativa una scelta che ricalca la buona vecchia pedagogia dell’evitamento, non è corretto. Se l’idea è che la scuola deve essere un posto bonificato dal quale i mali del mondo dovrebbero essere esclusi, basta dirlo. Almeno potrei portare mia figlia da qualche altra parte.
  4. Siamo tutti abituati ormai a muoverci ovunque con lo smartphone in tasca. O in mano. Dovrebbe essere ormai chiaro che l’era del “telefonino” è finita da un bel po’. Quello che oggi ci accompagna fedelmente è un terminale collegato alla Rete che ci connette con il mondo. Che senso ha vietare agli studenti di restare collegati con il mondo, mentre fanno scuola? Qual è il messaggio? Che il vero sapere è quello veicolato dai loro insegnanti, mentre tutto il resto è solo svago e svacco al quale facciano il piacere di dedicarsi in altri momenti? Li prepariamo così alla nuova realtà emergente? E perchè mai mia figlia non dovrebbe poter controllare se quello che sta dicendo il professore è corretto? O fornire materiale utile alla lezione in corso? O anche chiedere agli amici qualcosa che l’aiuti a tollerare un momento di noia mortale?
  5. Non credo che avere con sè il cellulare sia un diritto dei ragazzi e delle ragazze, come sosteneva lo psicologo convocato a Uno Mattina per commentare la notizia proveniente dal liceo piacentino (chissà poi perchè insistono a convocare sempre e solo psicologi e affini per commentare fatti di questo tipo, costringendoli poi a lanciarsi spericolatamente in territori educativi con scarsissima competenza). Credo piuttosto che imparare a utilizzare in modo complesso e non banalizzato gli strumenti che abbiamo a disposizione, sia un compito di apprendimento fondamentale per tutti noi. E come tale andrebbe trattato, invece di nascondere lo strumento per evitare il rischio di un cattivo uso o di un abuso.
Quindi, per favore, se mia figlia potesse e se fosse a scuola da voi, fatemi il piacere di tener giù le mani dal suo smartphone. Vivrà un mondo che neanche riusciamo a immaginarci ma del quale vediamo nettamente le avvisaglie. Se proprio dobbiamo evitare qualcosa, proviamo a evitare di farci ridere dietro fra dieci o quindici anni, quando avremo connesso tutto – auto, riscaldamento domestico, frigorifero, zaini, skateboard, roller, vestiti, libri –  il terminale sarà direttamente inserito sotto pelle e lo schermo proiettato a mezz’aria.

Includiamoci per mano

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di Irene Auletta

Ho sempre pensato che la storia dei figli condizioni fortemente il modo di essere genitori e in questi giorni, proprio la ripresa delle scuole, sembra sottolineare quella linea di demarcazione che sovente crea un abisso fra le differenti realtà.

Se da una parte, la ripresa delle esperienze anche nei passaggi fra i vari ordini di scuola sancisce la crescita, il cambiamento e le evoluzioni offerte dalle nuove possibilità, dall’altra la parola inclusione arriva come un macete.

Certo ci sono anche tante esperienze positive e molto ricche che è importante non smettere mai di raccontare e riconoscere, ma purtroppo, forse la maggioranza dei genitori si misura ancora con i mille problemi legati all’inserimento di bambini o ragazzi con disabilità.

Negli anni mi è parso di osservare un cambiamento importante di fronte a disabilità meno complesse che, paradossalmente e in modo assurdo, segna un ulteriore e beffarda differenza anche tra chi vive allo stesso modo una condizione di disabilità. 

Ascoltando commenti di tanti genitori, in questi giorni mi raggiungono sgomento, fatica, frustrazione e rabbia. Chi deve attendere l’arrivo dell’insegnate di sostegno, chi deve rimanere nei paraggi della scuola per prendersi cura del figlio in caso di bisogno, come ad esempio cambiare il pannolino o portarlo in bagno, chi la scuola può guardarla solo da lontano perchè per il proprio figlio, in barba a tutti i diritti allo studio, non c’è posto.

Come direbbe la mia maestra Feldenkrais, non dimentichiamoci di respirare.

Proprio a quei genitori che in questi giorni stanno attraversando strade piene di sassi vorrei dedicare queste mie parole e l’invito a non smettere di respirare. Seguire figli disabili a volte è una bella sorpresa, a volte è difficile, a volte difficilissimo.

Non soccombere alla fatica e al senso di isolamento, reale e culturale, è una sfida quotidiana che negli anni si può imparare a “perfezionare” per non ammalarsi, non inacidirsi e per non escludersi dal mondo. Tra genitori che vivono le medesime esperienze ci si può sostenere, confortare e consolare anche ricordandosi di brindare in occasione delle tante storie positive.

Forse nella scuola il progetto di inclusione ha ancora tanta strada da fare ma, sul fronte dei genitori, ritrovo sovente una grande solidarietà che mi auguro possa aumentare sempre di più medicando la dannosa naturale tendenza al desolato sconforto, figlio di tanta rabbia e dolore, e nutrendo con cura strategie per rivendicare diritti e possibilità di vita migliore.

Sordità oppositiva

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di Irene Auletta

Ne parlavo ieri con una giovane collega e in questi ultimi anni mi ritrovo a farlo spesso, proprio nel tentativo di capire. Valanghe di diagnosi stanno invadendo la scuola. Dislessia, disortografia, discalculia, disturbo dell’attenzione, disturbo oppositivo provocatorio. Sicuramente ce ne sono altri che dimentico ma il piatto mi pare già sufficientemente ricco.

Non entro assolutamente nel merito delle valutazioni fatte dagli specialisti ma, come pedagogista, non posso non interrogare il fenomeno (ormai viste le dimensioni, di questo si parla!) e chiedermi quale contributo posso portare insieme a chi, come me, attraversa luoghi e incontri educativi.

Quando poi alcuni linguaggi e definizioni ricorrono anche in ambienti assai differenti, come ad esempio quelli che riguardano l’area della disabilità, infantile e adulta, il sospetto che ci sia qualcosa da riguardare nell’educazione mi raggiunge in modo abbastanza significativo e pungente.

Per essere ancora più chiara, ho come la sensazione che quello che valutiamo come disturbo possa essere solo un possibile punto di partenza per ripercorrere una strada a ritroso alla ricerca di ciò che lo ha provocato, insomma, farsi una domanda che vada ad osservare ciò che accade in quell’incontro, in quello scambio, in quella relazione.

Stamane, come sovente accade quando sono io ad accompagnarti a prendere il pulmino che passa a prenderti sotto casa, fai resistenza e dici no nell’unico modo in cui puoi farlo, utilizzando il corpo. Ti impunti, resisti e fai forza per tentare di contrastare l’indicazione di andare in quella direzione.

Ma mi trovi preparata e con un atteggiamento che un po’ ti spiazza. Ti ricordi cosa ha detto ieri la nonna quando hai tentato di fare così anche con lei? Ti aspetto amore, perchè non si tirano neppure i ciucci! Sembra che la nonna abbia dato voce ai miei pensieri quando, non di rado, vedo educatori comportarsi esattamente così.

Lo dico con un po’ di enfasi per sdrammatizzare e non pormi in nessun modo in contrasto. Scoppi a ridere mentre l’assistente “sorda” a quello che sta accadendo continua ad invitarti a salire definendoti “bravissima e leggera come una piuma, quando non ti opponi”.

Respiro, respiro, respiro e provo a diventare sorda anch’io. Mentre ci abbracciamo per l’ultima volta ti bisbiglio nell’orecchio i nostri segreti per un’ultima risata di buona giornata.

Siamo proprio sicuri che la creatività che costringe alcune relazioni a interrogarsi, ogni giorno, per sostenere l’amore e l’educazione, non possa diventare esempio, contagio e possibilità per tutte quelle altre situazioni che rischiano di soffocare nella loro stessa definizione di normalità?

Difendere le relazioni

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Laboratorio di Sintesi Educativa

un’idea di Igor Salomone
Approfondisci il tema di questo post seguendo il progetto in progress sulla pagina del sito igorsalomone.it

Leggevo l’altro giorno su Repubblica questo articolo, annunciato con un occhiello sul fondo della prima pagina. Il titolo è un programma: Studenti contro Prof. Così le nostre classi diventano un ring. Inquietante. Apre scenari destinati a mandare in soffitta tutto un genere cinematografico, da La scuola della violenza, con Sidney Poitier a Meri per sempre con Michele Placido, passando per tutti gli epigoni dell’uno e dell’altro. Almeno lì i “prof” non le prendono. L’articolo invece racconta che le prendono, eccome.

Mi chiedono sempre più spesso cosa mai sia “Difesa relazionale”. Quella che vado proponendo ormai da una decina d’anni nelle situazioni più svariate e che d’acchito appare incomprensibile nel nome stesso. Ecco, una difesa relazionale è esattamente ciò di cui ci sarebbe bisogno nelle situazioni raccontate in quell’articolo.

Nella maggior parte dei corsi di difesa personale, insegnano ad affrontare situazioni di pericolo con un obiettivo unico: portare a casa la pelle. Ammesso e non concesso sia possibile obbligare tutti gli insegnanti “a rischio” a un corso di quel tipo, che se ne farebbero? Nessuna delle aggressioni raccontate mette nelle condizioni di doversi salvare la pelle. Un calcio nel sedere, uno schiaffo, delle spinte, degli strattoni, delle ingiurie urlate a un dito dalla faccia, mettono a rischio la tua dignità se le prendi e la tua libertà se le dai. Dunque saper atterrare o mettere fuori combattimento un minore che ti sbeffeggia non serve a nulla, anzi potrebbe essere pericoloso. Cosa serve allora?

Serve innanzitutto avere coscienza delle proprie reazioni di fronte a un atto aggressivo. Ho visto decine di operatori rispondere a un gesto percepito come violento o anche solo invasivo con l’intero repertorio delle cose che non andrebbero fatte. Tipo irrigidirsi, alzare la voce, alzare il corpo, gonfiare il torace, smanacciare cercando di afferrare le braccia del proprio presunto aggressore e simili. Diciamo che un po’ di consapevolezza, non guasterebbe, perchè non è mai dato sapere se un gesto aggressivo è gratuito, oppure se è una risposta al nostro maldestro modo di difenderci.

In secondo luogo serve chiedersi da dove viene ciò che ci sta accadendo quando l’altro ci mette le mani addosso. I problemi non cadono dal cielo, e se un ragazzo arriva a prendere a calci un professore, quell’atto va letto come l’ultimo di una catena di fatti non governati in precedenza. Esistono le violenze “da strada”, come usa dire, perpetrate da sconosciuti in luoghi sconosciuti per motivi sconosciuti. Ma sono casi estremi. Ciò che mostra l’articolo di Zunnino è quello che sappiamo tutti da tempo ma non ci decidiamo ad accettare: chi ci aggredisce nella maggior parte dei casi è una persona conosciuta, con la quale addirittura abbiamo una qualche relazione se non addirittura una reponsabilità di ruolo. Dunque qualsiasi nostra reazione avrà conseguenze su quella relazione in futuro, e non possiamo escludere che l’attacco subito oggi non sia la conseguenza di qualcosa che abbiamo fatto ieri.

In terzo luogo, ma è il fattore probabilmente più importante, la violenza non va considerata come una qualità del nostro aggressore, ma come una condizione generata dal contesto della nostra relazione. I rapporti di potere (come quello tra insegnante e studente), il sovraffollamento dei corpi, la costrizione fisica e la promiscuità prolungata, sono generatori di stress che possono sprigionare aggressività con esiti anche violenti. Occorre dunque fare un intenso lavoro di prevenzione sia lavorando sulla scena educativa per tentare di renderla meno pericolosa, perchè ogni scena educativa è pericolosa e bisogna imparare a vederlo, sia imparando ad ascoltare come il proprio corpo l’attraversa per poterlo mettere in sicurezza relativa.

Ecco, questo è “difesa relazionale”. E riguarda tutti: insegnanti, educatori, operatori sociali, genitori, donne. Non solo quindi per pochi patiti di sport da combattimento disposti a sudare tre quattro volte alla settimana in una palestra per dieci o vent’anni, ma per chiunque viva contesti relazionali intensi nei quali possa prodursi un conflitto che possa sfociare in uno scontro anche violento. 

Nel Laboratorio di Sintesi Educativa, quando ci sarà e avrà avviato le sue attività, sarò felice di accogliere tutte quelle persone per cercare assieme la via di un’autodifesa etica e consapevole. Che miri a difendere la relazione con l’altro, anche quando ci aggredisce. Che abbia in conto la protezione di entrambi. Che sappia creare le condizioni per evitare l’escalation. Che metta in sicurezza i luoghi dell’incontro.

Ero buono per l'istituto tecnico

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Uno scritto fortunato questo. Lo composi nel 2008 in occasione di un convegno organizzato dalla cooperativa Galdus di Milano sul tema dell’orientamento scolastico. Sapevo che avrei avuto davanti una platea di ragazzi, oltre ai loro insegnanti, per parlare di orientamento. Sapevo anche che erano tanti, il luogo era addirittura un teatro, e riuscire a farmi ascoltare certamente non un’impresa facile. Scelsi così un taglio autobiografico, come il titolo fa ben presagire, scrissi queste pagine che poi feci consegnare e parlai a braccio mentre una persona, sul palco con me, inframezzava il mio discorso con letture di brani scelti di questo scritto. Funzionò. E da allora Ero buono per l’istituto tecnico mi segue ogni volta che devo trattare argomenti simili anche se con pubblci differenti. Penso sarà anche un buon contributo al lavoro che mi accompagna da molti anni sull’eredità paterna.
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Con l’educazione fra le nuvole

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Su indicazione di un amico feisbucchino, Demetrio Conte, ho seguito con attenzione questa TED conference. Fortunatamente sottotitolata nell’unica lingua che conosco. Adoro le persone che sanno raccontare in quel modo cose così complesse, vale la pena, lo riconosco.
Nel merito gli esperimenti di Sugata Mitra sono davvero affascinanti. E si deve anche essere divertito parecchio.
Tuttavia l’idea di far fare un passo indietro all’insegnamento per organizzare processi di autoapprendimento collaborativo non è affatto nuova. E’ un’idea che precede di decenni l’esplosione del web e della conoscenza depositata in Rete.
Che poi la scuola sia ancora lì con la centralità dei processi di insegnamento e che lo sia in tutto il mondo, è un dato di fatto.
C’è una questione che il discorso di Sugata lascia però in sospeso, una questione in sospeso da decenni: riorganizzare l’insegnamento richiede ripensare le forme dell’insegnamento.
Non basta indicare come potrebbero apprendere per conto loro i bambini. E tutto quello che riesce a dire la conferenza è che chi insegna, a scuola, in famiglia e in ogni luogo, dovrebbe porre domande e poi tirarsi indietro e stupirsi delle risposte.
Sarebbe già una grande rivoluzione se tutti gli insegnanti imparassero a fare ciò, questo è certo. Ma se tutti gli insegnanti dovessero capire di colpo che devono imparare a fare ciò e lo facessero, non avremmo affatto quel mondo di bambini avanti di dieci anni che preconizza Sugata. Perchè il compito educativo si deve nutrire di domande e di stupore, è necessario riscoprire questa verità, ma non può limitarsi a questo.
Le domanda da porsi non è: come facciamo a far sì che chi apprende, apprenda seguendo i propri processi di apprendimento? ma piuttosto: quali sono i compiti di chi educa verso chi appende? Perchè questa funzione si trasforma, ma non viene meno neppure nella prospettiva proposta da Mitra.
Va notato che nella conferenza di Sugata Mitra ci sono tre elementi che fanno da ordito al suo discorso e che rischiano di restare sottortraccia, mettendo in primo piano essenzialmente la capacità esplorativa e creativa dei bambini.

Il primo è che i bambini imparano insieme.
E’ la scoperta collettiva che funziona, non l’onanismo cognitivo. Dunque i bambini devono imparare due cose contemporaneamente: qualcosa sulle conoscenze che stanno indagando e la capacità di farlo assieme. Considerare questi due livelli di conoscenza come equivalenti è un errore madornale. Del resto non è un caso che lo speaker, non a caso un informatico, parli essenzialmente di conoscenze fisiche, chimiche e matematiche. Non si impara a lavorare assieme con quel tipo di conoscenze. Il meno che possa capitare in un processo di apprendimento collaborativo non tutelato, è che qualcuno impari molto e qualcuna altro molto poco e solo di riflesso. Se è vero che i processi cognitivi sono diversi per ognuno, in un gruppo di apprendimento è facile che chi ha più forza, imponga i propri processi di apprendimento agli altri. Sapere e potere vanno sempre di pari passo e pensare che l’arretrare del potere dell’insegnante azzeri la dinamica del potere nell’apprendimento è pia illusione.

Il secondo è l’elemento motivazionale.
Metti un aggeggio strano e affascinante nelle mani di chi non l’aveva mai neppure visto e i bambini iniziano a giocarci. Facile. Ma ci giocano perchè sono interessati ai contenuti offerti, o usano i contenuti offerti per poterci giocare? Chissenefrega, si potrebbe dire. Sino a un certo punto. Perchè se la motivazione fondamentale è l’interesse al gioco è l’enigma costituito dal funzionamento di un oggetto, una volta svelato l’enigma il gioco non è più divertente. Inoltre il processo di apprendimento non può essere spacciato a lungo per un divertimento. Imparare costa fatica, comunque, anche se è divertente e anche se impariamo cose che vogliamo nel modo in cui vogliamo. Dunque è anche questo che i bambini devono imparare, oppure al primo ostacolo e alla prima noia, potrebbero abbandonare il campo.

Il terzo elemento è che i bambini imparano insegnandosi tra loro.
Questo fatto, lungi dal rendere marginale l’insegnamento, non fa che evidenziare come insegnare sia il modo migliore per imparare. Insegnando si impara, e questo dà senso fra l’altro all’apprendimento collaborativo, dunque occorre rafforzare, trasformandola radicalmente, la struttura dell’insegnamento, non ridurla a una sorta di distributore più o meno intelligente di input seguiti da “ohhh” i stupore per quello che poi accade…

Detto questo, possiamo anche buttare a mare la scuola così com’è. Molto di ciò che dice Mitra è corretto sul piano storico. Ma gettar via una struttura pedagogica obsoleta non significa disfarsi dell’educazione fantasticando che i bambini, senza questo vecchio arnese, se la caverebbero meglio da soli.

Insegnare e lasciare il segno

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Ero tentato di non datare questo scritto. Appartiene alle mie pagine dal sapore diciamo così più visionario. Mi piace ogni tanto assumere toni profetico-messianici. Mi diverto un sacco. E rileggendolo, mi sconcerta come alcuni riferimenti appaiano fatalmente datati, mentre certe considerazioni credo siano ancora assolutamente attuali. E aggiungo purtroppo…
Comunque, erano gli inizi degli anni ’90. Redassi queste pagine in vista di una serie di incontri con le scuole e gli insegnanti nell’ambito di un megaprogetto sull’educazione alla salute condotto per conto dell’Iref Lombardia (attuale Eupolis). Fu un progetto epico. Forse per questo il tono… Non so più quante centinaia di operatori, della sanità e della scuola, ho incontrato in giro per tutta la Lombardia.
Il tema caldo era quello dell’Aids, e la sua prevenzione la strada maestra per veicolare soldi e progetti.
Il problema da affrontare era la percezione che gli insegnanti avevano del loro ruolo educativo in proposito, da non ridurre a una questione di informazioni sanitarie facilmente delegabili agli “esperti” del sistema sanitario. Per questo mi è venuto fuori un cipiglio del genere…
Fatta la tara del tono ed epurato dei riferimenti troppo contestualizzati, mi pare che questo breve documento, possa fornire spunti di riflessione ancora (maledettamente) attuali

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Gocce di felicità

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gocce di felicitàdi Irene Auletta

Piove. La primavera tarda ad arrivare e anche stamane ci accoglie una giornata uggiosa.

Mentre ci prepariamo per l’avvio della nostra giornata, una serie di imprevisti si pongono sulla nostra via con l’intenzione di farci venire il malumore. Ma noi resistiamo.

Riusciamo a recuperare il ritardo accumulato e scendiamo in anticipo, senza correre. Incrociamo diverse persone del nostro palazzo.

Anche stamane piove, non se ne può più. Questo umido ci sta entrando nelle ossa, ma quando arriveranno le giornate di sole? A guardare fuori dalla finestra viene voglia di rimanere chiusi in casa, altro che andare a lavorare!

Frasi rubate qua è la mentre attendiamo il pulmino che passa tutte le mattine per accompagnarti a scuola. Io le ascolto come sottofondo, tu sei altrove e, di certo, di queste affermazioni non te ne importa nulla.

Vuoi passeggiare da sola sotto la pioggia e allora facciamo un patto.

Lo puoi fare a condizione che sopporti il cappuccio, altrimenti devi stare vicino alla mamma sotto l’ombrello.

Accetti e resiti. Tenere in testa qualcosa per te è una vera tortura, ma la voglia di passeggiare sotto la pioggia vince la lotta. Prima il gioco riguarda le mani e le dita, che cercano di afferrare le gocce che ti circondano. Poi, quasi per caso alzi la testa e mentre ridi, una goccia ti finisce sulla lingua e così inizia la seconda parte del gioco e tu cammini con la bocca aperta nel tentativo di far posare nuove gocce sulla lingua. Come sempre ridi, felice della scoperta e della sorpresa curiosa.

Passa una vicina di casa e correndo via ci dice ma come fate ad essere così dì buon umore con questo tempaccio?

Ti guardo e penso che tu sei proprio così, sempre alla ricerca dell’eccezionale e stamane la mia giornata inizia felice, grazie a te.

Lei, non può capire.

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