Caino non praticava Mma

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di Igor Salomone

Tutti siamo in grado di uccidere un nostro simile. Una buona dose di rabbia e un bastone, un cacciavite, un coltello da cucina, se proprio non ci sentiamo in grado di farlo a mani nude, sono più che sufficienti.  Non c’è alcun bisogno di allenarsi per anni negli sport di combattimento o nelle arti marziali. Quindi, buona parte del dibattito su violenza e Mma (Mixed martial art) seguito all’uccisione di Willy Monteiro Duarte da parte di un gruppo di criminali, è totalmente privo di senso.

Mi pare del resto priva di senso anche la risposta standard del mondo delle arti marziali. In un dojo, si dice, un maestro degno di questo nome insegna prima di tutto il rispetto per l’avversario. Nel nostro immaginario collettivo, l’arte marziale è quella che insegna il buon maestro Miyagi, non quell’orco a capo del Cobra Kai, e va bene, anche se il mondo delle arti marziali è complesso ed è pieno di sfumature che coprono tutti i gradi intermedi tra il mite vecchietto di Okinawa e il feroce picchiatore che addestrava picchiatori. 

Ma il rispetto dell’avversario non è un esclusiva della pedagogia marziale, lo insegnano, o dovrebbero farlo, tutti gli istruttori, i coach, gli allenatori di qualsiasi disciplina sportiva, è alla base dello spirito olimpico e persino dell’arte delle guerra, per lo meno come l’aveva descritta Sun Tzu.

Quindi, di che stiamo parlando mentre un giovane uomo, per giunta dal nome straniero, muore per la furia assassina di altri giovani come lui?

Forse dobbiamo parlare del senso dell’arte marziale, comprendendo sotto questo nome qualsiasi pratica insegni ad affrontare lo scontro con il corpo dell’altro. Se tutti siamo in grado di uccidere il nostro prossimo, a cosa serve sudare innumerevoli magliette per una quantità improbabile di anni, immaginando di doversi difendere da un aggressore? 

È semplice, serve a evitare di uccidere, o anche di ferire gravemente e, se è per quello, di umiliare, offendere, sopraffare chi ci aggredisce. Serve cioè a condizionare mente e spirito (per usare due categorie care alla tradizione delle arti marziali orientali) allo scopo di tenersi lontani dai comportamenti istintivi, ferini, violenti, quelli dettati dalla parte più primitiva del nostro cervello, quelli per intenderci “uccidi e scappa”. 

L’arte marziale insegna, o dovrebbe insegnare, a non esacerbare i conflitti, ad attraversarli senza creare vincitori, che creano vinti destinati a diventare nemici in cerca di vendetta. Insegna cioè, o dovrebbe insegnare, qualcosa che serve in ogni angolo della vita ed è per questo, solo per questo, che sudore e anni acquistano un senso.

Evidentemente a quel gruppo di sciagurati non è stato insegnato nulla di tutto ciò o, per lo meno, non lo hanno imparato. Hanno imparato invece che un conflitto si regola con la violenza e se qualcuno si mette in mezzo peggio per lui. Non so se glielo abbiano insegnato, forse non hanno fatto nulla per evitarlo.

25 novembre, sempre

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di Irene Auletta

“Le parole a volte si ingolfano, altre si consumano. Altre volte ancora arrivano in ritardo e non servono più a dire quel che volevano.”  (Mi sa che fuori è primavera di Concita De Gregorio)

Ieri ho ascoltato, quasi in religioso silenzio, i vari interventi che si sono alternati nella seduta straordinaria di Montecitorio, nel rispetto delle testimonianze portate da ciascuna donna.

Mentre mi è parso quasi naturale che le voci plurali comprendessero interventi politici o di specialiste impegnate a vario titolo intorno al tema, Contro la violenza sulle donne, ho trovato interessante la scelta di dare la parola anche ad altre donne, esse stesse vittime di violenza. In particolare, ancora una volta, mi hanno colpito i dati snocciolati con attenzione puntuale e le forme crudeli con cui la violenza e’ stata nominata e identificata. Violenza domestica, vendette “amorose”, stalking, omicidi.

Al femminicidio ha fatto eco il figlicidio, anche qui dati inquietanti, come modo di fare violenza alla donna uccidendo il figlio. Quindi uomini che accecati dalla violenza, dimenticano il loro essere padri o comunque, lo fanno passare quasi in secondo piano, uccidendo il proprio figlio per punire la donna. E come madre, rimango in silenzio, immaginando il dolore.

Per me, di fronte ad alcune enormità, è sempre molto difficile esprimere di getto valutazioni e sicuramente, con il passare degli anni, mi sento molto distante da chi sembra avere subito le idee chiare su tutto e un giudizio in punta di lingua pronto per essere espresso.

Dal mio osservatorio di donna e di professionista impegnata in relazioni di aiuto, so bene che le sfumature dell’umano ci costringono ad avvicinarci a pensieri e azioni a volte impossibili anche solo a dirsi. Trovo tuttavia che sia un dato di civiltà e maturità smetterla di utilizzare come lente di comprensione degli eventi complessi e gravi “la caccia al colpevole” e spostare lo sguardo verso la ricerca di responsabilità. Individuali, sociali e culturali.

Oltre ogni ragione ci sono persone, mondi e storie. Provare ad accoglierle e ascoltarle, in tutte le loro sfumature, senza l’urgenza di aggiungere la nostra personale sentenza, può essere un modo per fare cultura, provando a capire e soprattutto, ad assumersi ciascuno la propria responsabilità. Come donne, uomini, professionisti e, soprattutto, adulti.

La violenza sui più deboli e’ ahimè storia assai antica dell’umanità, ma mai come oggi gli adulti sono in scacco rispetto alla loro assunzione di responsabilità. Potremmo partire proprio da qui, per leggere con lenti multifocali la complessità delle storie e degli eventi?

Punti ciechi

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di Igor Salomone

Se qualcuno tocca mio figlio, lo ammazzo. Quante volte l’ho pensato? Quante volte l’abbiamo pensato. Chi non l’ha mai fatto, chi non è mai stato sfiorato da questo moto di rabbia interiore? Se c’è scagli la prima pietra. Nessuno? eppure di pietre ne stanno volando parecchie in queste ore, in questi giorni. Succede sempre così.

Violenza genera violenza. E, di solito, in quantità maggiore. Alcune persone di una determinata categoria compiono atti tremendi, tutte le persone di quella categoria vanno controllate perché potenzialmente pericolose. E’ normale, lo so. Ci vuole un attimo a scatenare in ognuno gli istinti più primordiali, me compreso. Ho fantasticato più volte di avere per le mani un ipotetico aggressore di mia figlia, almeno cinque minuti, prima di doverlo consegnare alla polizia. Mi sono sorpreso molte volte a sentire dentro di me il germe di una violenza inaudita. Non credo di essere sbagliato, è un istinto primario, è l’altra faccia della cura che non è fatta solo di gesti dolci, morbidi, accoglienti. E’ fatta anche di denti digrignati, urla, morsi indirizzati a chiunque si permettesse di maltrattare chi amiamo.

E’ l’istinto.
Per questo occorre metterci di mezzo la testa. Anche perché, una volta sfoderati, denti, unghie e pugni non si sa mai contro chi se la prenderanno.

Ci vuole un attimo per rendersi conto, usando la testa, che la conseguenza della nostra rabbia va contro i nostri stessi desideri. Ci sono rimedi peggiori del male perché contribuiscono a farlo crescere. E’ già accaduto con il DDT prima e con gli antibiotici poi: abbiamo scoperto a nostre spese che più aumentavamo gli uni e gli altri per sconfiggere zanzare e batteri, più zanzare e batteri si facevano furbi mentre noi ci indebolivamo. Perché con le telecamere da Grande Fratello orwelliano dovrebbe essere diverso? Più ne mettiamo, più la violenza si fa furba, modifica le proprie strategie, impara a muoversi nascondendosi, sviluppa la capacità di esprimersi in forme meno o per nulla riconoscibili.

Girano filmati terribili sulle violenze in alcune scuole dell’infanzia e in alcuni centri per disabili o pazienti psichiatrici. Tutti quelli che chiedono a gran voce, e ne comprendo profondamente i sentimenti, di mettere telecamere ovunque, dimenticano che quei video sono stati possibili perché nessuno sapeva delle telecamere. Ma alla lunga non puoi nascondere ai batteri che fai uso di dosi sempre più massicce di antibiotici…
Vogliamo prevenire le violenze oppure che i violenti imparino a esserlo in modo più sottile?

Non firmerò nessuna petizione, quindi. Credo che le videoriprese debbano restare strumenti nelle mani degli inquirenti da attivare su precise segnalazioni. Altrimenti il prossimo passo sarà chiedere di installare webcam anche nelle abitazioni private. Dopotutto è un dato ormai acquisito che il luogo nel quale si consumano le peggiori violenze contro minori, disabili, anziani, persone mentalmente disturbate (e donne), sono le mura familiari. A meno di non credere che noi siamo gli unici ad avere il diritto di maltrattare i nostri cari.

Per il resto occorre cambiare sguardo e riconoscere che aver cura di qualcuno produce in egual misura empatia e aggressività. Lo sappiamo tutti, dobbiamo solo smettere di negarlo continuando a fantasticare un mondo buono come Il Mulino Bianco. Buttiamo nella spazzatura, magari nell’umido perché si può certamente riciclare, l’ideologia del buon cuore e dei buoni sentimenti e ammettiamo che l’altro, quando ha bisogno di aiuto, spesso fa incazzare. E’ il primo passo per imparare a tenere sotto controllo la propria ira che, come tutti i vizi capitali, è sempre il prodotto di un eccesso di virtù.
Ed è anche il primo passo per chiedere che chi di cura si occupa per mestiere, venga formato a proteggere l’altro anche dai propri eccessi, imparando a controllare l’invadenza dei propri gesti, a chiedere aiuto al collega o a fornirglielo se è il momento di fermarsi o fermarlo, a fare un passo indietro quando è necessario.

Certo, per tutto questo occorre tempo e denaro. Ma probabilmente meno di quanto ne occorrerebbe per trasformare ogni luogo della cura nella peggior edizione del Big Brother sia mai andata in onda.

Scarpe rosse

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di Irene Auletta

Da bambina mi sono sempre piaciute e da adulta, appena ne trovo un paio giuste per me, fatico a non cedere alla tentazione. Si sa che le donne hanno con le scarpe un rapporto tutto loro! Le scarpe rosse poi, al di là della moda del momento, sono sempre state una mia passione, come quella di tante altre donne.

Mia madre e altre sue coetanee, raccontano di come anni fa, questo colore veniva sovente associato a donne “leggere” al punto che acquistare un paio di scarpe rosse poteva configurarsi come un atto di vera e propria trasgressione.

Oggi, per fortuna, non è più così. I colori hanno invaso alla pari tutti i capi di abbigliamento senza alcuna distinzione e di certo non è strano e neppure originale indossare scarpe dei colori più svariati.

Ma le scarpe rosse rimangono peculiari al punto che negli ultimi anni sono divenute simbolo e icona della campagna mondiale contro la violenza sulle donne, quasi a sottolineare quel confine fragile e da proteggere sempre, tra il piacere e la violenza, il dominio e la libertà, la gioia e il dolore.

Penso a cosa possano condividere in proposito molte madri con figlie adolescenti e quanto ancora l’educazione debba necessariamente riprendersi in mano per andare oltre gli slogan e raggiungere i bambini e i ragazzi che stanno crescendo e ricercando significati, proprio sui temi dell’uguaglianza e della violenza.

Ho raccontato recentemente durante un incontro di formazione che un’assessore di un piccolo comune, di fronte al mio parlare di inserimento dei disabili nel mondo della scuola, ha tenuto a sottolineare con un sorrisino per me indecifrabile, che il termine moderno oggi è inclusione.

Cosa c’entra? Io sono un po’ stufa delle parole che continuano a cambiare e dei significati che non solo rimangono sempre uguali ma a volte tendono anche ad involvere. La violenza, l’emarginazione, le disuguaglianze, l’ignoranza, vanno nominate e affrontate come tali, senza perdere l’occasione per farlo, ogni giorno.

Ogni volta che sentiamo parlare “di donne leggere”, “che se le vanno a cercare”, “che le meritano”, guardiamo dritto negli occhi il nostro interlocutore e non lasciamo alcun dubbio circa il nostro dissenso. Anche questo vuol dire fare educazione e insistere a chiamare le cose con il loro nome.

Non quello più alla moda, ma quello che nel suo dirsi non ne tradisce i significati, indipendentemente dai colori che indossano.

Fermarsi. Fermare.

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orco

Palpeggia bimba a Napoli, rischia il linciaggio

 

Intendiamoci, se vedessi un orco molestare mia figlia probabilmente gli salterei addosso. Anzi no, sicuramente. Probabile anche che gli farei molto male. E che se nessuno mi fermasse, forse, lo ucciderei.

C’è qualcosa di primitivo nell’ira e nella violenza che coltiva nell’animo. Lo so bene. L’Ira è, dei sette vizi capitali, quello che mi corrisponde di più. E’ un nemico pericoloso, sempre in cerca di alleati che la giustifichino. Vuoi mettere? un orco che molesta tua figlia? se lo uccidi chi potrebbe darti torto?

Ma non potrei tollerare che qualcun altro mi affiancasse per darmi una mano. Che cazzo centri tu? l’ira è la mia, solo io posso decidere di valicare il limite e trasfigurarmi nell’orco che sto tentando di ammazzare. Tu, semmai, dovresti fermarmi. Ecco quello che dovresti fare: aiutarmi a non valicare quel limite. Fermami, bloccami, tirami una secchiata d’acqua, urlami nelle orecchie, insomma, impediscimi di fare quello che sto facendo. Altro che darmi una mano.

O magari no. Magari se qualcun altro tentasse di mettere le mani addosso all’orco insieme a me, trasformando il mio gesto in un linciaggio, mi troverei spinto a mollare l’orco e a mettere le mani addosso all’aggressore, per fermarlo io, visto che non è riuscito a fermarmi lui. Ecco, fermare il linciaggio. Questo potrebbe essere un modo per riorientare dentro di me l’energia che rischia di esplodere in violenza.

Ed è triste invece vedere che dei linciaggi, quelli veri, le cronache riportano solo tre protagonisti: il linciato, quelli che partecipano al linciaggio e quelli che assistono senza prendervi parte. Ogni violenza di massa, ogni progrom, ogni pulizia etnica, in fondo, poggiano sull’assenza di questa reazione: provare a fermarle.

Storie di ordinaria cattiveria

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ombredi Irene Auletta

E’ successo ancora. Video che gira in rete urlando indignazione, rabbia, sconforto, paura. La ripresa si sofferma impietosamente su maltrattamenti, verbali e fisici, inflitti ad un ragazzino disabile. Non vi sembra la stessa scena che non molti mesi fa riprendeva una badante che malmenava una signora anziana oppure quella di una madre decisamente poco amorevole con il proprio bambino di qualche mese di vita?

Da anni vado nominando soggetti e categorie a rischio di violenza che, non a caso, sono riconoscibili nei bambini piccoli, nei disabili e negli anziani. Soggetti che faticano a raccontare e, soprattutto, a difendersi. Provate a immaginare la stessa scena con adolescenti senza problemi e vi accorgerete che a rischio, potrebbero essere in questo caso gli adulti. Allargando il campo e la visuale, dentro e fuori i confini del nostro paese, a rinforzare le fila dei fragili, non mancano neppure le donne, sempre alla ribalta nelle scene di cronaca come vittime di una violenza che sovente non lascia scampo.

Eppure ogni volta sembra la prima volta e lo scandalo sembra raggiungere lo stupore di quanti immagino con la bocca spalancata a dire, davvero? ma come è possibile che accadano cose del genere? Gli stessi che magari hanno commentato tramite web o negli scambi di persona, esibendo un livello di aggressività altrettanto preoccupante e comunque non originale. Immaginatevi la mia faccia quando in un intervista ad una nota psicoterapeuta l’ho sentita affermare, quasi fosse il pensiero più intelligente dell’anno, che il problema riguarda la selezione del personale delle strutture educative. Ma dai. Piantiamola con le fesserie e per favore parliamo di cose serie.

Sicuramente sono stati offerti su tematiche analoghe, commenti e riflessioni assai autorevoli. Io mi sento di guardare un po’ da vicino un antico dibattito tra viscere, testa e cuore. Le viscere, di genitore o di adulto sano, non possono che gridare vendetta, con quella voglia di avere tra le mani i violenti e, come si dice dalle mie parti, fargli passare un guaio. Il cuore batte forte e perde colpi, pensandosi la madre di quel ragazzo o di quel bambino, oppure la figlia di quell’anziano, oppure ancora quella donna maltrattata dal suo compagno presa a chiedersi dov’è l’amore.

La testa, almeno la mia, ingaggia una sfida con la professionista che sono, presa a interrogare il senso di talune vicende e la necessità di abbandonare codici buonisti per guardare con coraggio le parti dell’animo umano, tra cui la cattiveria ha sovente un posto d’onore. Ce lo confermano secoli di storia, se solo alziamo il nostro sguardo da terra e tratteniamo la nostra rabbia o la voglia di non sapere.

E allora che si fa? Me lo sono chiesta tante volte, negli anni, di fronte a racconti di violenza o di fronte a fessure che mi hanno lasciato immaginare e intravere comportamenti aggressivi di genitori e di operatori. Non ho alcuna risposta magica, nè una ricetta miracolosa che trasformi i cattivi in buoni.

So però che mi ha aiutato riconoscere la cattiveria come parte dell’umano, guardarla in faccia senza troppi timori, non abbassare gli occhi per il dolore. Mi ha aiutato chiedere alle persone di parlarne, senza erigermi a giudice, ma provando a capire come evitarne il ripetersi. Vicende analoghe sono sempre accadute, accadono oggi e accadranno ancora. Ognuno di noi, come singolo cittadino  o come professionista, può chiedersi come mettere a disposizione la sua intelligenza e il suo cuore per affrontarle, sperando di prevenirle. Ognuno di noi, parte di una testa e un cuore collettivo, dovrebbe mettersi gli occhiali del disincanto e da lì partire, per cercare vie percorribili e possibili per non attendere inerme, il prossimo scandalo.

Fragilmente

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fragilmentedi Irene Auletta

Da mesi siamo tutti rincorsi e raggiunti dalle ininterrotte notizie che pongono al centro del loro interesse la violenza rivolta alle donne, in tutte le sue molteplici forme e sfumature.

Oggi, mentre facevo supervisione ad un equipe di educatori, nella presentazione della situazione da discutere il tema si ripresenta in tutta la sua crudezza e di fronte alla descrizione di alcuni aspetti il clima si fa attento e serio, il silenzio pesante.

Colgo gli sguardi e le parole.

Ma com’è possibile? Come mai nessuno riesce ad intervenire? Noi che incontriamo professionalmente queste situazioni cosa possiamo fare?

Alcuni clichè si ripetono senza sosta. Giovani donne che sembrano “scegliere” uomini violenti e picchiatori, che si allontanano per ritornare come attratte da una trappola alla quale è impossibile sfuggire, vite spaventose che, viste da vicino fanno percepire sulla pelle la tragedia dello squallore e dell’impotenza.

Gli adulti, professionisti e familiari, sembrano dividersi in due categorie. Quelli complici, arresi, spaventati, disorientati che tanto non c’è niente da fare … se le vanno pure a cercare. Quelli tenaci che perseverano nella ricerca di senso e di azioni possibili, decisi a non farsi sopraffare dall’assuefazione di queste storie terribili.

A parte la presenza dei professionisti, spesso mi chiedo dove sono i genitori, i fratelli, le sorelle, gli amici? Quale morbo culturale ha contagiato tutti rendendoli omertosi e sfiduciati?

Penso alla donna di cui stiamo parlando, a quello che sopporta da anni, alla sua incapacità di scegliere altro. Se non cucino come vuole mi prende a schiaffi e spesso anche a calci. Chissà cosa racconta a chi la incontra del braccio o della gamba ingessati, dell’occhio nero, dei lividi sulle braccia e sulle gambe. Chissà cosa pensano quei medici che se la ritrovano più volte al pronto soccorso credendo alle sue spiegazioni.

Questa situazione mi suscita una grande tristezza e un forte senso di impotenza. L’educatore che si esprime è un giovane uomo che sembra chiedersi come guarderebbe “il tipo” di cui stiamo parlando, se dovesse incontrarlo di persona.

Storia antica quella della violenza rivolta alle donne, ai bambini, agli anziani, insomma, alle persone percepite o realmente più fragili.

Continuiamo a parlarne, scriverne, discuterne. Ognuno di noi può fare qualcosa. Alzare gli occhi da terra mi pare già un buon inizio.

Chi è nudo?

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chi è nudo

Gran dibattito oggi su Fb a proposito di quello che è successo al seggio dove ha votato Berlusconi tra le tre donne a torso nudo che hanno inscenato una protesta e le forze dell’ordine. Mi ha aiutato a chiarirmi le idee per poi parlarne qui nella prospettiva della Difesa relazionale.

Tralascio dunque i discorsi sulla presunta messa in scena, o quelli sulle regole di ingaggio che costringerebbero i poliziotti a fare quello che hanno fatto. Non mi interessano. Il punto, come sempre, non è neppure giudicare chi ha torto o chi ha ragione, ma cosa può insegnarci quell’episodio sulla difesa e sulla violenza.

Per questo occorre tornare ai fondamentali della difesa.

Primo: difendere qualcosa a costo di mettere in pericolo o distruggere quello che si sta difendendo, non ha alcun senso

Cosa stavano difendendo i poliziotti presenti al seggio? L’ordine pubblico verrebbe da dire. Ora, tre donne che strepitano a torso nudo fanno più “disordine” pubblico di un tot di uomini in divisa che le afferrano (malamente), le strattonano, le trascinano via, le sbattono a terra? non credo. L’intervento della Polizia ha creato molto più caos di quanto non ne creassero le tre manifestanti. E questo è un fatto.Altri potrebbero sostenere che il poliziotti erano lì per difendere il politico importante presente e che è sempre a rischio sicurezza. Bene.

E se le tre signore fossero state un diversivo? Chiunque avrebbe potuto approfittare del caos creato dal corpo a corpo ingaggiato dagli agenti per attentare alla sicurezza dell’importante politico presente. E questo è un altro fatto.

A voler essere sofisticati, occorrerebbe ricordare che le Forze dell’Ordine, hanno il compito istituzionale di difendere sempre e comunque non qualsiasi tipo di “ordine”, ma l’ordine democratico. E difendere l’ordine democratico pestando di santa ragione chi protesta, sia pure in modo improprio, non mi pare aiuti a difendere l’ordine democratico. E questo è un principio. Di quelli a cui far riferimento sempre.

Quindi, a prescindere dal fatto che la responsabilità sia di poliziotti incapaci o mal addestrati oppure da strategie operative evidentemente discutibili, resta che quell’episodio fa mostra di una “difesa” pericolosa che mette a rischio invece che mettere in sicurezza.

Secondo: non si può immettere in una situazione di violenza, una quota di violenza superiore a quella che c’è

Per lo meno non dovrebbero farlo le forze cui è stata delegato il monopolio dell’uso della violenza al solo scopo di assicurare la difesa collettiva.

E’ del tutto evidente che i comportamenti dei poliziotti sono stati di gran lunga più violenti della pur sostenuta violenza verbale delle manifestanti. In questo modo si rischia di produrre un’escalation. Se intorno a quel seggio ci fossero stati gruppi di attivisti inclini all’uso della forza, sarebbe scoppiato un tumulto. Questo non è il modo di mantenere l’ordine pubblico.

Naturalmente nella difesa occorre anche tener conto delle minacce potenziali, non solo della violenza espressa in modo manifesto. Per questo ingaggiare un corpo a corpo con quelle donne è stato un errore: ha distolto risorse e attenzione al dovere di mettere in sicurezza la situazione nel suo complesso. Che pericoli potevano nascondere quelle manifestanti a torso nudo? Evidentemente nessuno. Dunque la reazione è stata sproporzionata, ha alzato la quota di violenza e ha messo a repentaglio tutti i presenti.

Terzo: ogni atto di difesa va compiuto nel tentativo di non trasformare l’avversario in un nemico
Fossi una di quelle donne, ora avrei voglia di urlare basta Polizia oltreché basta Berlusconi. Le Forze dell’ordine, in un paese democratico, devono essere rispettate. Ma sapere che se la fai appena fuori dal vaso vicino a qualche potente rischi di essere malmenato, portato in questura e accusato, per giunta, di resistenza a pubblico ufficiale, non contribuisce ad aumentare il gradimento nei confronti dei tutori dell’ordine.

In quella situazione, per come è stata gestita, il nemico erano le tre manifestanti e quello da difendere Berlusconi. Con questa mentalità non andiamo lontano.

In quella situazione andava difeso Berlusconi dal rischio che una delle tre manifestanti gli arrivasse addosso. Era sufficiente tenerle lontane e far uscire Berlusconi. Ma andava anche difeso il seggio che è un luogo sacro per la democrazia, tenendo il più basso possibile lo scontro. E, infine, andavano difese le tre signore che hanno usato il proprio corpo per protestare, mentre l’averlo colpito e umiliato, quel corpo, finisce con il ricordare a tutti noi che corriamo lo stesso rischio.

Difendere è giusto, ma occorre farlo nel modo giusto. Difendere a qualunque costo, invece, significa accettare a priori la possibilità di farlo nel modo sbagliato

Quindi se qualcuno, a maggior ragione se è un pubblico ufficiale, pensa di dovermi difendere a qualunque costo, sappia che non sono d’accordo e mi difenderò dalla sua pericolosa protezione.

La rabbia e il gesto

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Rabbia, conosco la rabbia. L’ho portata con me per molto tempo, o forse è stata lei a portami, a trascinarmi con sè. Ho le mie ragioni, del resto chi non ne ha? anche chi non ne avrebbe, comunque, riesce a inventarsele. Con estrema facilità. Nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, oso affermare che le mie ragioni sono più valide di altre e riesco anche a comprendermi. L’ho fatto, voglio dire, mi sono compreso un bel po’. Eccheccavolo! avrò diritto o no di essere incazzato? No. I sentimenti non sono terra di diritti, semmai lo è la loro espressione. Bene, allora la questione è che ho diritto a esprimere la mia rabbia e che le anime belle se ne facciano una ragione, anche se le può destabilizzare urtandone la delicata suscettibilità. Perchè, però, quando l’ho fatto mi sono sentito un imbecille?

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“Volevo solo spegnere l’incendio”

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C’è solo una cosa peggiore della violenza. L’assoluta mancanza di dignità dei violenti

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