Raggi di sole

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di Irene Auletta

Devo ringraziare Luisa, una collega, perchè ancora una volta, parlando con lei ho potuto rimettere in forma, e in forza, pensieri che da anni provo a condividere con molti genitori e operatori.  Poi, evidentemente, le similitudini si cercano e ritrovano in molti echi e, proprio pochi giorni fa, ho utilizzato in un contesto formativo un video di una madre che, dopo aver incontrato la disabilità del proprio figlio, ha introdotto nuovi colori, sfumature e significati nella sua vita. 

Con questa testimonianza, sin dalla prima visione di alcuni anni fa, ho sentito forti sintonie su tanti passaggi ma, il suo manifesto del Diritto alla Bellezza, mi ha definitivamente conquistata.

Mi sono ritrovata tanto nelle sue parole che narrano di una bellezza lasciata sovente fuori dalla porta dei luoghi educativi che accolgono persone con disabilità. La bellezza a volte rimane anche fuori dalla porta delle proprie vite, oltre che delle vite dei servizi e continuare a tematizzarlo può essere un modo per non arrendersi al cupo, al grigio e a una visione con possibilità poco vivaci.

Come operatori, chiedersi cosa sta a cuore del proprio lavoro e nutrire la consapevolezza di quel sottile dialogo quotidiano che si istaura tra lo sguardo delle persone con disabilità, ma anche dei bambini, dei ragazzi, degli anziani, e quanto li circonda negli spazi dove trascorrono tante ore della loro giornata, mi sembra un punto fondamentale da non smarrire.

Le anime risuonano di ciò che lo sguardo riesce a trattenere e, proprio nelle situazioni che accolgono persone con fragilità, la bellezza non può e non dovrebbe essere un optional.

Nel suo testo La via della bellezza, Vito Mancuso traccia un percorso che va oltre la pura dissertazione estetica per diventare una sorta di storia poetica del sentimento del bello. “Una riflessione che diventa un’avventura alla ricerca delle sorgenti della bellezza, per poter riconoscere la bellezza stessa in tutte le sue più svariate epifanie, per gustarla appieno, per farne un nutrimento dell’anima e del pensiero”. 

Io quel bello, figlia mia, non smetterò mai di nutrirlo e la mia forza è tutta lì, nel vederlo risplendere nei tuoi occhi e nel tuo sorriso.

Speriamo di essere contagiose.

Slogan o nuovi orizzonti?

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di Irene Auletta

Mamma ma quella è disabile? A dirlo è una bambina di circa sette, otto anni che viene velocemente rimbrottata e azzittita dalla madre come se io e te non le fossimo di fronte, a meno di un metro di distanza.

Per un’interessante associazione di idee penso al cartello visto di recente alla Città dei Robot, mostra‑evento milanese con show e animazioni interattive, dove siamo stati a curiosare. Affissa in bellavista alla biglietteria,  una comunicazione rivolta al pubblico anticipava in modo assai autorevole che gli addetti alla mostra si riservavano di mandare via i bambini maleducati. Si, proprio così, virgola più, virgola meno.

Ma che fine hanno fatto gli adulti? Una comunicazione di questo genere sembra ignorare completamente la presenza di quegli accompagnatori indispensabili per accedere a un contesto di questo genere. Ma del comportamento dei bambini non dovrebbero essere responsabili i genitori o chi, al loro posto, li accompagna?

Allo stesso modo, ho pensato all’occasione persa da quella mamma che ha ignorato la domanda della figlia quasi sicuramente inconsapevole dei suoi insegnamenti. Uno, che non si può domandare di fronte all’evidente diversità. Due, che nel tentativo di evitare un’offesa, e lo dico nella migliore delle ipotesi e con un atteggiamento positivo, le persone coinvolte, io e mia figlia, possono essere totalmente ignorate.

Anche in questo caso l’adulto che figura ci ha fatto? Quella madre ha perso davvero la possibilità di rivolgersi a noi con rispetto e attenzione, magari chiedendoci di aiutarla nella risposta e offrendo a sua figlia un buon esempio di quell’inclusione tanto nominata ma ancora altrettanto difficile anche solo da intravedere. Peccato per loro.

In questi giorni si stanno rincorrendo sul social media post che riportano la frase scritta su una sedia donata da un Centro per disabili al Presidente della Repubblica. “Quando perdiamo il diritto di essere differenti perdiamo il privilegio di essere liberi”.  

Noi adulti però lo sappiamo bene che la parola libertà lasciata lì da sola, rischia di sfiorire in un attimo. E’ solo l’abbraccio con la responsabilità che può restituirgli nuove ali e, in questa direzione, genitori, educatori e insegnanti, spero proprio che riescano a individuare nuovi orizzonti e che quella frase piena di like non diventi ben presto solo un slogan privo di senso.

Includiamoci per mano

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di Irene Auletta

Ho sempre pensato che la storia dei figli condizioni fortemente il modo di essere genitori e in questi giorni, proprio la ripresa delle scuole, sembra sottolineare quella linea di demarcazione che sovente crea un abisso fra le differenti realtà.

Se da una parte, la ripresa delle esperienze anche nei passaggi fra i vari ordini di scuola sancisce la crescita, il cambiamento e le evoluzioni offerte dalle nuove possibilità, dall’altra la parola inclusione arriva come un macete.

Certo ci sono anche tante esperienze positive e molto ricche che è importante non smettere mai di raccontare e riconoscere, ma purtroppo, forse la maggioranza dei genitori si misura ancora con i mille problemi legati all’inserimento di bambini o ragazzi con disabilità.

Negli anni mi è parso di osservare un cambiamento importante di fronte a disabilità meno complesse che, paradossalmente e in modo assurdo, segna un ulteriore e beffarda differenza anche tra chi vive allo stesso modo una condizione di disabilità. 

Ascoltando commenti di tanti genitori, in questi giorni mi raggiungono sgomento, fatica, frustrazione e rabbia. Chi deve attendere l’arrivo dell’insegnate di sostegno, chi deve rimanere nei paraggi della scuola per prendersi cura del figlio in caso di bisogno, come ad esempio cambiare il pannolino o portarlo in bagno, chi la scuola può guardarla solo da lontano perchè per il proprio figlio, in barba a tutti i diritti allo studio, non c’è posto.

Come direbbe la mia maestra Feldenkrais, non dimentichiamoci di respirare.

Proprio a quei genitori che in questi giorni stanno attraversando strade piene di sassi vorrei dedicare queste mie parole e l’invito a non smettere di respirare. Seguire figli disabili a volte è una bella sorpresa, a volte è difficile, a volte difficilissimo.

Non soccombere alla fatica e al senso di isolamento, reale e culturale, è una sfida quotidiana che negli anni si può imparare a “perfezionare” per non ammalarsi, non inacidirsi e per non escludersi dal mondo. Tra genitori che vivono le medesime esperienze ci si può sostenere, confortare e consolare anche ricordandosi di brindare in occasione delle tante storie positive.

Forse nella scuola il progetto di inclusione ha ancora tanta strada da fare ma, sul fronte dei genitori, ritrovo sovente una grande solidarietà che mi auguro possa aumentare sempre di più medicando la dannosa naturale tendenza al desolato sconforto, figlio di tanta rabbia e dolore, e nutrendo con cura strategie per rivendicare diritti e possibilità di vita migliore.

Meglio il fastidio

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meglio il fastidio

 

di Irene Auletta

Tutti i giorni, più o meno, lo stesso rituale. Varchiamo la soglia del nostro portone e invece di dirigerti verso l’ascensore tenti il passaggio furtivo verso uno scaffale pieno di volantini e giornaletti pubblicitari. La carta in mano, il suo rumore, i suoi colori sono un po’ un gioco e un po’ una stereotipia e quindi non sempre è facile capire il punto del limite, da ridefinire ogni volta.

Dai Luna lascia stare queste carte, te lo dico ogni giorno e poi guarda quelle che hai buttato a terra e che ora dovremo raccogliere! La nuova sostituta della custode che mostra già di averti ben identificata, mi conferma che passare inosservati è praticamente impossibile. Non si preoccupi signora lasci stare che ci penso io, dice con estrema (e per me eccessiva) gentilezza.

Potrei lasciar correre, come faccio tante volte, ma oggi no. Mia figlia ha fatto questo pasticcio e lei lo sistema, ribatto cercando di non apparire ostile alla sua cordialità e al suo sincero dispiacere per l’ingrato compito a cui sto sottoponendo la “povera” fanciulla.

Mi torna in mente quanto accaduto qualche giorno fa con un tuo compagno del Centro. Di fronte al suo tentativo di avvicinarsi per abbracciarmi ho allungato la mano dicendogli che lui è un ragazzo grande  e io una signora e quindi ci si saluta così. Ho aggiunto che lo dico sempre anche a te quando ti accade di non rispettare quel confine fisico importante per definire gli incontri e le relazioni.

L’educatore mi sorride a distanza con un cenno di approvazione che parla di tutte le volte che probabilmente si sente dire non si preoccupi, non mi da fastidio! Ecco, appunto. A parte che questa frase anche risentita a distanza è davvero bruttina, forse bisogna proprio imparare a dire che non è questo il problema. Il messaggio non piacevole da ricevere, ogni santa volta, è la negazione della possibilità di imparare e, soprattutto, il diritto di farlo.

Io, cara figlia, continuo ad insistere per questo, per sostenere il tuo diritto di imparare seppur con i tuoi tempi a volte anche per me indecifrabili. Raccogliamo le carte sparse sul pavimento e alla fine facciamo il patto che una sola puoi tenerla.

In ascensore ti faccio una delle nostre espressioni buffe per scherzare su quanto accaduto poco prima e tu, guardandomi dritto negli occhi, mi restituisci il giornale che hai in mano.

Ecco.

Scarpe rosse

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di Irene Auletta

Da bambina mi sono sempre piaciute e da adulta, appena ne trovo un paio giuste per me, fatico a non cedere alla tentazione. Si sa che le donne hanno con le scarpe un rapporto tutto loro! Le scarpe rosse poi, al di là della moda del momento, sono sempre state una mia passione, come quella di tante altre donne.

Mia madre e altre sue coetanee, raccontano di come anni fa, questo colore veniva sovente associato a donne “leggere” al punto che acquistare un paio di scarpe rosse poteva configurarsi come un atto di vera e propria trasgressione.

Oggi, per fortuna, non è più così. I colori hanno invaso alla pari tutti i capi di abbigliamento senza alcuna distinzione e di certo non è strano e neppure originale indossare scarpe dei colori più svariati.

Ma le scarpe rosse rimangono peculiari al punto che negli ultimi anni sono divenute simbolo e icona della campagna mondiale contro la violenza sulle donne, quasi a sottolineare quel confine fragile e da proteggere sempre, tra il piacere e la violenza, il dominio e la libertà, la gioia e il dolore.

Penso a cosa possano condividere in proposito molte madri con figlie adolescenti e quanto ancora l’educazione debba necessariamente riprendersi in mano per andare oltre gli slogan e raggiungere i bambini e i ragazzi che stanno crescendo e ricercando significati, proprio sui temi dell’uguaglianza e della violenza.

Ho raccontato recentemente durante un incontro di formazione che un’assessore di un piccolo comune, di fronte al mio parlare di inserimento dei disabili nel mondo della scuola, ha tenuto a sottolineare con un sorrisino per me indecifrabile, che il termine moderno oggi è inclusione.

Cosa c’entra? Io sono un po’ stufa delle parole che continuano a cambiare e dei significati che non solo rimangono sempre uguali ma a volte tendono anche ad involvere. La violenza, l’emarginazione, le disuguaglianze, l’ignoranza, vanno nominate e affrontate come tali, senza perdere l’occasione per farlo, ogni giorno.

Ogni volta che sentiamo parlare “di donne leggere”, “che se le vanno a cercare”, “che le meritano”, guardiamo dritto negli occhi il nostro interlocutore e non lasciamo alcun dubbio circa il nostro dissenso. Anche questo vuol dire fare educazione e insistere a chiamare le cose con il loro nome.

Non quello più alla moda, ma quello che nel suo dirsi non ne tradisce i significati, indipendentemente dai colori che indossano.

Diritti e cittadinanza nella scuola – Bassano del Grappa 2009

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Trascrizione dell’intervento che ho fatto nell’ambito di un convegno su disabilità e diritti nella scuola, in occasione del ventennale della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, organizzato dalla Cooperativa Adelante di Bassano del Grappa. La foto è della copertina dell’opuscolo realizzato dalla cooperativa dopo il convegno. Il testo è stato qui ampiamente rimaneggiato, pur mantenendo lo stile originario.
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Il lusso non è un diritto

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“L’equità, prima di essere un fatto morale, è una questione di desideri.
Se tutti desideriamo tutto, legittimiamo quei pochi che l’ottengono”

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