Insegnare e lasciare il segno
10 febbraio 2014
Uncategorized Educare, Insegnare, istruire, lasciare il segno, Responsabilità, scuola Lascia un commento
L’era dell’iperbole
8 luglio 2013
Cronache Pedagogiche, Irene Auletta Educare, educazione, genitori, incoraggiare, insegnanti, iperbole, superlativi assoluti 5 commenti
“Il bambino ha un’accentuata balbuzie e, avendo escluso origini patologiche, i genitori hanno raccontato le loro strategie per incoraggiare il figlio. In realtà quello più coinvolto sembra essere il padre che di fronte alle difficoltà lo sostiene dicendogli ripetutamente che lui è il massimo, che è il numero uno”.
Inizia così il racconto di un’insegnante di scuola per l’infanzia in un recente incontro di formazione che prova a mettere a tema alcune difficoltà nel rapporto con le famiglie e in particolare, con quelle famiglie che si trovano ad affrontare qualche disagio, piccolo o grande, che riguarda il loro bambino e il suo sviluppo.
Cambiano le agenzie educative, i territori di riferimento, gli operatori, ma ci sono episodi che ricorrono con una precisione impressionante sia nelle narrazioni degli operatori, che nelle strategie ricorrenti attivate dai genitori. Quando metto l’accento su questioni più specificamente pedagogiche guidando fuori da pantani psicologici che a volte intrappolano le insegnanti in interrogativi infiniti, ritrovo sguardi perplessi. In particolare, a suscitare dubbi e stupore, sembra essere il mio riferimento alla nostra epoca e all’invasione dei superlativi assoluti in gran parte degli scambi educativi che riguardano bambini al di sotto dei dieci anni. O perlomeno, fino a quest’età mi pare che l’eccesso riguardi un’enfasi su caratteri positivi, dopo ho l’impressione che si assista ad un’inversione di rotta e allo snodarsi di una storia assai differente.
Un’insegnante tra le esperte prende la parola. Ma se la mia generazione è cresciuta con pochissime gratificazioni, una spinta continua verso il senso dovere, un’avarizia di gratificazioni, non è giusto invece riconoscere e premiare per sostenere ed incoraggiare?
Interessante quesito che spalanca porte semantiche. Da quando per incoraggiare l’unica via sembra quella di fare indigestione di “complimenti”? Gli eccessi di ciò che è considerato buono, possono anche far molto male e, paradossalmente, produrre proprio l’effetto contrario di quanto invece sta nelle intenzioni di chi li attraversa. Soprattutto, mi pare che sia importante ritornare alla sostanza, all’essenza e riconoscere senza timori quell’apparenza che getta ombre e fumo nello sguardo di molti adulti, genitori e insegnanti.
Se ad esempio, un bambino esprime insicurezza , bisogno continuo di rassicurazione e incoraggiamento, forse non lo aiutiamo solo rinforzandolo con i vari bravissimo, sei un genio, sei il numero uno. Anzi, personalmente ho parecchie perplessità.
Un po’ nostalgicamente, io sono legata anche ad altre vie e mi piace suggerire differenti percorsi paralleli. Mi piace pensare l’adulto che, da persona grande, consola invitando il bambino a non preoccuparsi e garantendo con forza il suo aiuto. L’adulto che sospende il torrente di parole per far parlare un silenzio affettuoso che stringe fra le braccia e impara a recuperare il valore di tutto ciò che sembra sempre una mancanza.
Educare può essere davvero una meravigliosa avventura ma, per viverla, mi pare giunto il momento di fare parecchia pulizia.
Nella scuola che ho conosciuto
12 aprile 2011
Cronache Pedagogiche Educare, educare e istruire, educazione, istruzione, scuola pubblica 1 commento
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Nadia Ferrari per la giornata di blogging sulla Scuola.
Ho sostenuto con piacere l’invito a parlare di scuola senza immaginare, per me, insegnate di scuola dell’infanzia statale da 35 anni (in via di dipartita) quanto risultasse difficile parlarne. Poi ho compreso che la mia difficoltà in parte stava nel dover parlare della scuola generalizzando… questo mi riesce impossibile.
Tuttavia la mia riflessione si è messa irrimediabilmente in moto e la complessità seppure con paura mi è sempre apparsa come una sfida da raccogliere.
A tutt’oggi la scuola ancora somiglia ad una “scatola nera” entro la quale si sa cosa c’è stato e cosa c’è, e non si sa cosa ci dovrebbe essere.
In altre parole il terreno scolastico è ancora indefinito, indefiniti i tratti distintivi e le pertinenze che la distinguono da altre agenzie educative similari.
Nella scuola imperano come legati da un inesorabile destino due termini “educazione e insegnamento”, che coincidono e nelle stesso tempo si differenziano, dividendola spesso nella disputa su a chi consegnare il trono.
Disputa antica ma sempre presente che informa la scuola marcando idee, pratiche, metodi e progetti. Due essenziali registri mentali, due essenziali sensibilità: DUE SGUARDI.
Il primo, curioso di novità, di desideri, di emozioni, di fantasie, genesi di profonde soddisfazioni e domande ma anche luogo di passioni, di paure, di dolore. Uno sguardo a cui rivolgersi e allo stesso tempo averne paura, un modo diretto di sentire la realtà, pensarla, toccarla, apprenderla. Uno sguardo che ha permesso di descrivere e di spiegare il mondo attraverso molteplici narrazioni mitologiche. Lo sguardo del racconto che nasce quando si incontra il profondo, che richiama la fabulazione per quello che la mente non sa spiegare, sciogliere, elaborare: E’ l’universo delle emozioni, degli affetti, dei sentimenti.
Il secondo: è la ragione, sguardo sul mondo meno diretto, meno primario, uno sguardo forse meno libero, uno sguardo filtrante che fa passare non ciò che la nostra mente vede e sente, ma ciò che la ragione conferma.
Uno sguardo che smonta il complesso per cercare di capire, divide e analizza la realtà per leggerne le basi costitutive, i legami, le leggi che la regolano. Uno sguardo più attento e critico ma anche più difeso.
Si manifesta così uno dei grandi miti della conoscenza moderna: la separazione nella natura umana di ciò che è primario e di ciò che è secondario: la ragione dalla passione. Per molti questo sguardo ha illuso di conoscere e dominare il mondo, le paure, le fantasie. Sapere è potere. Ma poi al crescere delle certezze scientifiche, sono progredite le incertezze, si sono manifestate nuove ignoranze: si è perduto il trono della sicurezza che poneva l’uomo al centro del mondo e da dominatore del mondo passa all’abitante di un sole dell’hinterland, ai margini di una galassia mille volte più misteriosa di quanto la mente poteva immaginare.
Chi propende per la scuola dell’educazione allora vede e vuole una scuola attenta alla passione, chi si schiera per la scuola dell’insegnamento, vede e vuole una scuola rigorosa, soprattutto nella programmazione, nell’apparato concettuale e nozionistico, attenta alle conoscenze nel senso più restrittivo del termine, intendendo spesso solo la dimensione della ragione.
Mi è capitato di trovare nell’opinione pubblica questa stessa differenza tra chi si è trovato a scegliere tra scuola pubblica o privata che nel simbolico senso comune ripropone spesso la dicotomia sopra enunciata, velatamente a scapito della pubblica. Così dalla dualità generatrice discende la figure professionale che legittima il ruolo dell’insegnante: è meglio che approcci il sapere in modo freddo, razionale, sterile, “scolastico”, oppure deve e può “appassionarsi” ed essere pronta ad affrontare ogni situazione divenendo all’occasione un po’ mamma, un po’ psicologa, un po’ amica, un po’ prete… permettendo alla vita di mischiarsi alla scuola? Messa così la problematica è mal posta perché ripropone una dualità che nella realtà non esiste.
Palare di scuola è difficile? Perché la Scuola nell’astratto non esiste. Esistono stratificate nel tempo e nelle persone le sue diverse anime, che si affidano a tanti e diversi modelli d’intendere l’educazione e che su quei modelli si organizzano. Spesso nella scuola italiana ci si ritrova con modelli diversi anche tra le diverse classi e scendendo ancora di più nel parziale anche tra insegnate e insegnate.
Esistono tante e diverse Scuole fatte dalla gente che dentro ci lavora e dagli utenti che le frequentano sia nella pubblica che nella privata. Nella mia esperienza ho visto tantissimi insegnanti appassionarsi, lavorare con impegno, tentare di dare soluzioni possibili a problemi a volte impossibili, così come ho visto insegnanti chiuse, sfiduciate, gettare la spugna e arrendersi, arroccarsi dietro a programmi calcoli e grammatiche. Ho visto, purtroppo, insegnanti ammalarsi gravemente e impazzire.
Questo è l’esistente. Nonostante la normativa, con dei programmi assai innovativi “le nuove indicazioni” che come dice il termine dovrebbero appunto dare indicazioni sulla configurazione della scuola italiana, almeno in teoria.
Quello che con semplicità definiamo “Scuola” è il paesaggio che ognuno di noi da allievi o genitori o insegnanti si è trovato ad attraversare, un paesaggio, percorso da vie infinite, a tratti pianeggiante e facile da percorrere, a tratti tortuoso e aspro con salite che mettono alla prova la resistenza di tutti, in cui ogni anfratto dischiude e narra una storia particolare… unica nel bene e nel male.
Parti che spesso faticano a sentirsi collegate tra loro in un tutto, parti che forse hanno perso il desiderio di cercare il nesso che può fare da struttura che connette. Per comprendere il pluriverso scuola diviene necessario passare dal locale al globale attraversando ponti semantici così ampi per dimensioni e qualità nei quali è molto difficile incontrarsi.
Non mi rimane che parlare di me nella scuola, della mia esperienza e dell’amore che verso di essa ho imparato a nutrire.
La scuola come la conosco io, è ed è stata, una scuola abitata da padri o madri pedagogici importanti: Hoven, Froebel, Agazzi e Montessori, e poi nel 2000 i costruttivisti Bateson. Maturana, Varela, Morin, Gardner. Ognuno di loro con la loro “genitorialità” ha lasciato la rappresentazione di un bambino e di conseguenza un modo per educarlo. L’eredità è grande e la scuola che ho conosciuto io è una scuola che ha raccolto delle sfide.
Nella scuola che ho conosciuto io, sopravvive l’idea di un lavoro non prendibile con le sole tecniche, a me come insegnante non è servito imparare la tecnica per parlare in modo assertivo, o imparare la tecnica per gestire i conflitti, quando mi ci sono trovata in mezzo ho dovuto cercare di coniugare la mia relazione con il conflitto e il senso che avremmo potuto io e i miei allievi in quel momento attribuire.
Facilmente si possono addestrare venditori di un azienda a presentare un volto presentabile… perché il volto che si presenta è anche quello dell’azienda, come dire “se il segreto del successo professionale è quello dell’autenticità non dev’essere difficile fingerla” (Cerioli).
Nella scuola che ho conosciuto io, le tecniche funzionano quando funzionano le persone, quando le persone sanno riconoscersi problematizzando il senso del loro fare quotidiano e della loro fatica.
Nella scuola che ho conosciuto io spesso un lavoro si fa e si distrugge, si crea, si perde… quotidianamente si cerca, si cerca condividere.
Nella scuola che ho conosciuto l’incontro con l’incompiutezza dell’insegnante ha cavalcato con l’inconsistenza di chi al posto di dotarsi a dare risposte si da come persona che cerca domande.
Nella scuola che ho conosciuto io, come ci ha ricordato Morin “gli insegnanti non assomigliano a quei lupi che marcano il loro territorio con l’urina e mordono quelli che lo violano. Ciò che è più temibile per loro è la mancanza di eros che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi”.
Il gesto educativo a volte incanta, forse spaventa. Igor Salomone ci insegna si sente il bisogno di qualcosa che ancora non siamo pronti a scorgere, a capire ed ad amare: in-segnare.
L’insegnare nella sua dimensione squisitamente costitutiva di “lasciare un segno” di sé nell’incontro con gli allievi attraverso la conoscenza.
E quando si pensa a questo modo di essere dalla scuola non si può che riferirsi alla scuola pubblica, perché quando l’extracomunitario, lo zingaro, il giostraio, il disabile domandano il loro diritto di educazione ed istruzione così come è previsto dalla nostra Costituzione, è nella scuola pubblica che devono trovare ospitalità.
Nella privata, possono non esserci le risorse necessarie, posti disponibili o dato che sceglie delle tendenze, orientamenti pedagogici o religiosi non condivisibili. La scuola privata, nello Stato italiano può esistere e deve fare la sua offerta formativa alternativa, di indirizzo, ma è quella pubblica è la scuola di tutti.
Che tutti come cittadini abbiamo il diritto di chiedere, di avere e abbiamo il dovere di migliorare… al di là delle nostre scelte da individui.
La scuola pubblica è una delle più grandi ricchezze che abbiamo.
Nadia Ferrari
Torturatori virtuali. Imbecilli reali.
23 aprile 2009
book, Cronache Pedagogiche "Zone extrème", deviante, Educare, finzione, maggioranza, obbedienza, obbedire, pubblico, reale, reality, sperimentazione Lascia un commento
Zone extrème, del regista francese Christophe Nick. “Torturatori da realtiy, un film choc dalla Francia”, titolo di giornale, 34esima pagina, data odierna. Foto di una sedia elettrica. Il fatto: un registra francese gira un film ispirandosi a una ricerca americana degli anni ’60. leggersi Stanley Milgram, Obbedienza all’autorità. Là svariate decine di volontari partecipavano a un test nel quale dei ricercatori chiedevano loro di “punire” altri volontari con scosse elettriche sempre più violente. Naturalmente le “vittime” sono attori, le urla e le scosse sono finte. Ma l’obbedienza dei volontari vera. E ad altissima percentuale. Chi si rifiuta di infliggere scosse è una ristretta minoranza. La maggioranza obbedisce.
Ricordo ancora quella lettura. Rimasi sconvolto e dissi fra me e me, con una supponenza della quale ancora non sospettavo la portata, quanto fossero imbecilli gli americani, soprattutto quelli della classe media e degli anni ’60.
Oggi, giornale, notizia, non più un esperimento scientifico, ma la finzione di girare un reality. Non negli States dei sessanta, ma nell’Europa del duemila. Stesso risultato. La maggioranza dei partecipanti al finto reality, su stimolo del conduttore comminano scosse da paura ai “concorrenti”. Ci stanno, insomma. Tranne poche eccezioni. Cosa è cambiato? Nulla. E tutto.
La lettura dei dati forniti dal discusso esperimento di Milgram negli Usa del secolo scorso, parlava di cosa sia in grado di fare il conformismo. Non si trattava infatti di semplice obbedienza all’autorità. Si trattava di conformarsi a quello che stavano facendo anche tutti gli altri, come i ricercatori non mancavano di sottolineare. Non si può capire l’impulso a obbedire se non se ne coglie la motivazione profonda a non essere diverso, deviante, marginalizzato.
Dopo quasi mezzo secolo, nella civilissima Europa, siamo allo stesso punto. No. Molto peggio. L’ideologia sulla quale poggiava il conformismo nell’America degli anni ’60, era quella scientista: se lo chiedono gli scienziati e se è per il bene della Scienza, si deve fare. Un motivo per tutto questo ci sarà e chi sono io per metterlo in discussione. Dunque, se mi dicono di girare una manopola che scaricherà 400 e passa volt addosso a un essere umano, lo faccio. Tanto più se lo fanno anche tutti gli altri. In Francia, oggi, l’ideologia è un’altra e non si presenta neppure come tale. Sono in tv, questo è quello che conta e per esserci faccio tutto quello che mi chiedono. Tutto. Vogliamo scommettere cosa succederebbe da noi? Preferivo gli stolidi rappresentanti della middle class bianca, protestante, in camicia bianca e cravattino sottile degli Usa negli anni del boom.
Là eravamo in presenza di un mondo che doveva rappresentarsi ordinato, pulito, giusto, uguale. E qualsiasi cosa servisse a educare questa prospettiva, andava bene. Qua, siamo in presenza di un mondo che ama presentarsi brutto, sporco e cattivo, purchè possa rappresentarlo davanti al grande pubblico. Come è possibile tutto questo?
La risposta è nel film, non so se consapevole. Parlare di “finto reality” è già un ossimoro, una torsione del senso che smarrisce ogni riferimento. Un “reality” è per definizione uno spettacolo che finge una realtà, mimandola. Se è così, cosa è un “finto” reality? Un finto spettacolo che finge una vera realtà? Oppure una realtà vera che finge di essere una finzione facendosi spettacolo? Non se ne esce più. E questo infilarsi in un labirinto nel quale non è più dato sapere cosa sia “vero” e cosa no, è quello che legittima alla fine l’atto di tortura nei confronti dell’altro. In fondo, non è vero. E’ solo un reality. Siamo in onda, tutto è finzione. Compresa la convinzione di essere nella vita vera.
Temo ci sia una sola soluzione a tutto ciò. Che arrivi prima o poi un Morpheus a proporci di scegliere tra la pillola rossa e quella blu.