Camminare schivando

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di Igor Salomone

Camminare schivando. Stamattina sono uscito per una puntata furtiva sino alla farmacia più vicina e mi sono ritrovato a camminare schivando. Non di quello schivare i corpi per evitare di sbatterci contro come ho sempre fatto sino a un paio di settimane fa. No. Disegnavo sul terreno una traiettoria improbabile per cercare di passare tangente alle traiettorie altrui a distanza di almeno un metro o anche più, se era possibile. 

Mi sono più volte fermato per lasciare il cammino al mio prossimo non per cortesia, ma per tenere la distanza. Sono sceso dal marciapiede, tanto di auto non ce n’erano, per non passare tra due pedoni già troppo vicini. Al semaforo meno male che eravamo in pochi altrimenti avrei dovuto mettermi in fila all’incrocio precedente. Insomma, una bruttissima sensazione. 

Per non parlare degli sguardi. Di solito per strada non ci si guarda negli occhi e se accade il contatto non supera il mezzo secondo. Ma stamattina di sguardi non ne ho incrociato neppure uno. Testa bassa, bavero alzato, non ti curar di loro ma guarda e passa. Anzi, non guardare proprio.  Bruttissima sensazione.  La fiducia reciproca è il cemento della coesione sociale, che ne sarà quando ci saremo liberati dal virus?

Ho visto però persone, che probabilmente non si erano mai parlate in vita loro, discorrere amichevolmente da un balcone all’altro. A Milano. Non nei quartieri spagnoli di Napoli. E nella stessa Milano ho visto centinaia di persone che dal balcone cantavano, applaudivano tutte assieme, agitavano luci di vario tipo. C’ero anch’io.  E’ facile guardare con supponenza a queste manifestazioni emotive. Però dopo che stamattina ho camminato schivando, ne ho capito il senso. Affacciarsi al balcone o alla finestra di casa propria, il punto di maggior contatto con il mondo lì fuori, è come se volessimo dirci: guardate che non siamo quelli lì che si incontrano evitandosi per strada, o per lo meno non solo quelli. Siamo ancora noi e abbiamo ancora voglia di sentirci insieme. Anzi di più.  

Mi sono chiesto cosa avrei detto a un figlio bambino se mi fossi trovato per strada a camminare schivando insieme a lui. L’avessi fatto insieme a lui avrei sentito tutta la responsabilità del messaggio che stava raccogliendo.  Dunque qual è il messaggio che potrebbe raccogliere? che gli altri sono pericolosi, ovvio, e quindi dobbiamo tenerci alla larga. Un messaggio così vale per sempre, come lo facciamo decadere dopo i tempi del virus?

Ho pensato però, anzi sentito nel corpo, che c’era dell’altro. Cedere il passo, scendere dal marciapiede, tenere le distanze non sono solo un modo per proteggersi dall’altro, sono anche un modo per proteggere l’altro da noi. Perchè  siamo tutti in questo momento reciprocamente pericolosi, e ci tocca proteggerci a vicenda.

Quindi probabilmente direi questo a mio figlio bambino se ne avessi uno. Ma per poterlo fare occorre crederci e per crederci occorre sentirlo nel corpo mentre si cammina schivando.  Alla prima necessità uscirò di nuovo per esercitarmi. 

Gente così

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di Irene Auletta

In alcuni periodi la cura costante, unita ai tanti e vari impegni, occupa tutto lo spazio e proprio mentre penso che non scrivo da parecchio, Anna Maria rilancia un mio post di qualche mese fa.

Già stamattina leggendola sulla sua pagina Facebook pensavo a quante risonanze ritrovo ogni volta nelle nostre parole e, guarda caso, proprio oggi il tema della rabbia torna a bussare alle porte della nostra vita.

Penso a tante situazioni difficili che ci troviamo ad affrontare e che condividiamo e, ogni volta, rimango più muta di mia figlia. A questo pensavo qualche giorno fa, in seguito al bel ritrovo organizzato tra famiglie, grazie alla disponibilità di genitori stupendi, in occasione della giornata mondiale della sindrome di Angelman e spesso, dopo questi incontri, rimango per giorni in balia di malinconiche onde emotive.

Il dolore acuto dei primi anni ha lasciato posto a questi sentimenti più quieti. Il bello di ritrovarsi con tanti altri genitori, insieme ai loro figli, mi suscita sempre reazioni alternate. In situazione, provo un grande piacere e una spinta d’affetto e vicinanza assai speciale. A distanza mi sento travolta dai riflessi.

Per me Luna e’ mia figlia ed e’ talmente tanto lei da farmi lasciare sovente sullo sfondo tutto ciò che la attraversa e la circonda. Ma quando incontro gli sguardi, i gesti, i comportamenti, degli altri bambini e ragazzi, scoccano frecce di tanti colori, anche un po’ all’impazzata, che svelano, rivelano e ricordano.

Mi sento così anche leggendo le parole e i pensieri di madri e padri che, forse come me, sperimentano attraverso la scrittura una continua ricerca di senso e di strategie possibili per far fronte all’impossibile.

E se penso ad Anna Maria sapete cosa emerge sempre per prima cosa? La sua inconfondibile e contagiosa risata e il nostro dire va tuttobene, tuttobene! Si, compagna di bizzarre avventure, proviamoci sempre e, appena riusciamo, raccontiamocelo, per noi tutti che attraversiamo storie simili.

Anche solo per starci un po’ vicino.

Il bello che c’è

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“Kintsugi, letteralmente riparare con l’oro, è una tecnica giapponese per aggiustare oggetti in ceramica. Le linee di rottura sono lasciate visibili, anzi evidenziate con polvere d’oro, così da creare un nuovo oggetto, un’opera d’arte.” (nella foto)

 

di Irene Auletta

Ieri alla stazione centrale di Milano, dieci minuti prima della partenza, mi hanno rubato il cellulare. Dopo un attimo di allerta e incertezza, verificata la presenza del computer e la complessità di rinviare l’ultima supervisione prima della pausa estiva, ho deciso di partire. E’ pazzesco come in questi casi ci si renda conto delle nostre nuove forme di dipendenza e, al contempo, delle vulnerabilità emergenti di fronte ad un imprevisto.

Senza cellulare è stato impossibile connettersi sul Freccia Rossa e, di conseguenza, fare la denuncia o raccogliere gli elementi importanti per capire gli step urgenti da attivare in situazioni analoghe. Allo stesso tempo, è stato impossibile avvisare la persona che mi aspettava, anche di eventuali ritardi o cambi di orario. Per un attimo ci si guarda, sentendosi smarriti.

Poi, il signore di fronte a me, sentita la richiesta fatta al capotreno, mette a mia disposizione la connessione dal suo cellulare e mi permette, quasi insistendo, di avvisare la collega che mi attende. Giunta a Vicenza, persa la coincidenza per ritardo della Freccia, mi ritrovo nel bar della stazione e di fronte alla richiesta di fare una telefonata, anche pagando, la cassiera mi offre senza indugio il suo cellulare personale. Allo stesso modo la polizia ferroviaria, pur non potendo accogliere la denuncia per assenza dell’ufficiale preposto, mi mette a disposizione il telefono per le necessarie chiamate. Insomma, mi accoglie un mondo di persone disponibili e solidali.

Questa è l’Italia che mi capita di incontrare spesso e che rischia di rimanere all’ombra delle volgarità e aggressività che, prepotentemente appunto, occupano sovente la scena odierna. Ma, di fronte ad un disagio, io ho incontrato queste persone. Tra gentilezze inattese, aiuti spontanei e sorrisi cordiali.

Nel viaggio di ritorno sto ripensando alle peripezie del giorno prima e ai relativi disagi, quando si siede di fronte a me una giovanissima ragazza evidentemente provata da cure di chemioterapia o cose analoghe. Senza capelli, con mascherina, sguardo sofferente laddove avrebbe dovuto spadroneggiare il beffardo e vivace sguardo adolescenziale. 

No, non mi è successo proprio nulla. Queste sono davvero cavolate e la ragazza di fronte, me lo ricorda ad ogni respiro.

Includiamoci per mano

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di Irene Auletta

Ho sempre pensato che la storia dei figli condizioni fortemente il modo di essere genitori e in questi giorni, proprio la ripresa delle scuole, sembra sottolineare quella linea di demarcazione che sovente crea un abisso fra le differenti realtà.

Se da una parte, la ripresa delle esperienze anche nei passaggi fra i vari ordini di scuola sancisce la crescita, il cambiamento e le evoluzioni offerte dalle nuove possibilità, dall’altra la parola inclusione arriva come un macete.

Certo ci sono anche tante esperienze positive e molto ricche che è importante non smettere mai di raccontare e riconoscere, ma purtroppo, forse la maggioranza dei genitori si misura ancora con i mille problemi legati all’inserimento di bambini o ragazzi con disabilità.

Negli anni mi è parso di osservare un cambiamento importante di fronte a disabilità meno complesse che, paradossalmente e in modo assurdo, segna un ulteriore e beffarda differenza anche tra chi vive allo stesso modo una condizione di disabilità. 

Ascoltando commenti di tanti genitori, in questi giorni mi raggiungono sgomento, fatica, frustrazione e rabbia. Chi deve attendere l’arrivo dell’insegnate di sostegno, chi deve rimanere nei paraggi della scuola per prendersi cura del figlio in caso di bisogno, come ad esempio cambiare il pannolino o portarlo in bagno, chi la scuola può guardarla solo da lontano perchè per il proprio figlio, in barba a tutti i diritti allo studio, non c’è posto.

Come direbbe la mia maestra Feldenkrais, non dimentichiamoci di respirare.

Proprio a quei genitori che in questi giorni stanno attraversando strade piene di sassi vorrei dedicare queste mie parole e l’invito a non smettere di respirare. Seguire figli disabili a volte è una bella sorpresa, a volte è difficile, a volte difficilissimo.

Non soccombere alla fatica e al senso di isolamento, reale e culturale, è una sfida quotidiana che negli anni si può imparare a “perfezionare” per non ammalarsi, non inacidirsi e per non escludersi dal mondo. Tra genitori che vivono le medesime esperienze ci si può sostenere, confortare e consolare anche ricordandosi di brindare in occasione delle tante storie positive.

Forse nella scuola il progetto di inclusione ha ancora tanta strada da fare ma, sul fronte dei genitori, ritrovo sovente una grande solidarietà che mi auguro possa aumentare sempre di più medicando la dannosa naturale tendenza al desolato sconforto, figlio di tanta rabbia e dolore, e nutrendo con cura strategie per rivendicare diritti e possibilità di vita migliore.

Benedizioni gratuite

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di Irene Auletta

Tornare in luoghi familiari vuol dire anche incrociare sguardi affettuosi che, più o meno da vicino, ci seguono da anni.

Stamane siamo in acqua, tu che giochi sperimentando sempre con maggiore sicurezza nuove prove di nuoto e io che rimango a distanza di sicurezza, per farti sentire libera ma al tempo stesso per intervenire subito in caso di necessità.

Un paio di signore ci incrociano e subito si complimentano per i tuoi progressi. Ci tengono a dirci che ci vedono da anni su questa stessa spiaggia e che tu, ogni anno, riservi sorprese e miglioramenti.

Poco dopo durante il secondo bagno, mentre ti allontani da riva con tuo padre, una coppia di nonni con nipotino a seguito mi sorride con calore. Che bello vederla così felice, Dio la benedica, ripete più volte la signora che non manca di dirmi che si ricorda di te anni fa, in momenti decisamente meno floridi e sereni.

Mentre la ringrazio, osservo che ti segue con il sorriso a distanza e salutandomi con la mano rinnova benedizioni, per lei e per noi.

Ci sono forme di solidarietà inattese che riescono a portare una brezza leggera che profuma di bellezza e di mare. A volte basta così poco e per oggi abbiamo fatto la nostra scorta di incontri belli. Gli occhi addosso ce li abbiamo quasi sempre ma mentre spesso risultano fastidiosi come una pesante zavorra, oggi sono come queste onde che ti cullano. Fresche, leggere e morbide.

Effetto benedizioni?

Echi

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di Irene Auletta

Quando diversi anni fa ho iniziato a scrivere post su questo Blog e a rendere pubbliche, anche attraverso altri scritti, alcune peculiari dimensioni riguardanti la mia genitorialità e il rapporto con mia figlia Luna, non avrei mai immaginato di raccogliere nel tempo echi tanto forti e significativi.

Così ieri, nel corso dell’iniziativa realizzata in occasione dell’International Angelman Day, ancora una volta mi hanno sorpreso gli affettuosi saluti e i riferimenti alle parole raccolte attraverso i miei racconti. Chi ha riferito di un’emozione, chi di un particolare riconoscimento, chi di un senso di condivisione profonda.

Torno a casa con il cuore che trattiene memoria di una giornata che negli anni si è confermata sempre ricca, calda, emozionante. Anzi, ogni anno di più, proprio perché si intensificano le relazioni, si intrecciano le storie e si sostengono quegli sguardi che devono fare un pezzetto di strada prima di potersi incontrare.

L’impatto per me non è mai facile e sovente mi chiedo se dietro a quei tanti sorrisi apparentemente sereni battono cuori che, come il mio, ogni tanto perdono qualche colpo. La normalizzazione delle situazioni, che da una parte rende tollerabili relazioni assai complesse e faticose, dall’altra rischia di produrre un’effetto anestesia che, se non consapevole, può trascinare in un’eterna superficie.

Certo sono autentiche le gioie, alcuni momenti di quiete e un respiro che si fa più leggero nella condivisione ma, al tempo stesso, si amplificano anche le tracce di tante storie che, insieme alla mia, percorrono vie tortuose. E proprio queste riconosco mentre incrocio qualche racconto di vita quotidiana raccogliendo occhi pieni di tante emozioni differenti che, ogni giorno, devono trovare il loro equilibrio possibile per attraversare la vita, accettando sempre di sentirsi un po’ in bilico.

Di normale non c’è nulla e di facile neppure ma, se chiudo gli occhi e ripenso a tanti visi, sento che anche tra le onde  ci si può tenere per mano e che il contagio della vicinanza può arrivare come una brezza tiepida, proprio quando ne abbiamo più bisogno.

Storie di primavera

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Bmw-F800GT-352di Irene Auletta

Solita storia, uguale da anni. Arriviamo verso casa, tu sei stanca, protesti puntualmente appena riconosci le vie che indicano la vicinanza della nostra abitazione e il nostro posto riservato, per disabili, è occupato.

A questo punto sono certa che tutti i lettori che si riconosceranno nella scena non potranno fare a meno di essere travolti da un respiro liberatorio oppure da una smorfia di solidarietà.

Gli ostacoli che mi impediscono di posteggiare sono due ma, in realtà, quella più fastidiosa è una moto di grossa cilindrata, parecchio invadente, piazzata di traverso proprio al centro del posteggio.

Inizia il rituale.

Il fiorista del negozio sotto casa, senza dirmi nulla, chiede in automatico ai vari negozianti circostanti se l’intruso è qualche cliente del loro negozio ma stavolta la sua opera di sostegno e di aiuto non va a buon fine. In genere la scena, vista dall’esterno con occhi assai cinici, potrebbe essere pure divertente perché, mentre io cerco di capire come fare a risolvere il problema del posteggio, spesso non manca qualche automobilista che mi prende pure a maleparole perché sto rallentando e intralciando il traffico nella via.

Altro che respirare.

Oggi, mentre cerco di capire come organizzarmi, si avvicina un signore attirato dal movimento intorno alla mia auto e guardandomi complice si propone, con scarsi risultati, di provare a spostare la moto che pare incatenata all’asfalto. In un attimo, mi immagino la moto che travolge il buon samaritano e io che, oltre a rassicurare mia figlia attenta a non perdersi neppure una virgola di quello che sta accadendo, mi ritrovo costretta a chiamare un’ambulanza.

La ringrazio molto per il tentativo e la buona volontà, ma la prego di lasciar perdere perché non vorrei si facesse male, dico non troppo timidamente, mentre vedo il colosso rosso, cioè la moto in questione, vacillare in modo significativo durante il tentativo di spostarla di qualche centimetro.

Il tizio appare realmente dispiaciuto. Mi scusi tanto, dice mentre inizia ad allontanarsi. Ci mancherebbe, lei cosa centra? replico colpita dalla sua affermazione. Di fronte a certi comportamenti, prosegue il signore, non posso fare a meno di scusarmi anche se non sono direttamente coinvolto, perché mi pare il meno da fare per lei e per quella simpatica ragazzina che continua a guardarmi attraverso il finestrino.

La primavera è arrivata. Negli incontri, nei cuori e in quello scambio di sorrisi tra estranei giunti al momento giusto come quelle carezze che, ogni tanto, ci vogliono proprio!

Al tepore dei pensieri

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PENSIERI in cittàdi Irene Auletta

E’ sera tardi, di ritorno dalla mia lezione Feldenkrais mi sto pregustando il ritorno a casa dopo una giornata molto intensa e sono in attesa dell’ascensore. Vedo al cancello un giovane uomo che so abitare nel mio stesso palazzo e gli apro dall’interno. Mi ringrazia sottovoce. E’ una persona molto riservata che evidentemente fa qualche fatica a entrare in relazione con il mondo e, anche lui, sembra impegnato a vedersela con i suoi demoni.

Entriamo nella nostra piccola ascensore e, sempre guardando il pavimento, sento che mi chiede “ma è tua figlia?”. Al momento, essendo lì da sola, non capisco e mi accorgo che ho paura di metterlo a disagio. Immagino il pensiero completo che l’ha portato a quella domanda e quindi dico che se si riferisce alla ragazzina che vede spesso in mia compagnia, sì, è proprio mia figlia. E lui? Lui è tuo marito?

Rispondo e sempre molto sottovoce lui inizia a ripetere che è assurdo, veramente assurdo. Pochi scambi, lui arriva al suo piano e ci salutiamo cordialmente.

Ripenso all’intensità del suo commento, alla fatica fatta per entrare in relazione con me, alla voglia di condividere un pensiero colorato di una peculiare sfumatura di solidarietà. Di solito le domande dirette su mia figlia e sulla mia famiglia mi colgono abbastanza sulla difensiva grazie alla mia natura un po’ orsa ma quest’incontro mi lascia una piacevole sensazione.

Ieri ci stiamo concedendo una pausa. Godendoci il tepore del sole del tardo pomeriggio, siamo di fronte all’aperitivo mentre nostra figlia guarda piccoli video sull’Iphone sperimentando nuove tecniche per far scorrere le foto.

Mara, la signora che insieme alla sua famiglia gestisce il bar sotto casa, viene a salutarmi e, chiedendomi come sto, sottolinea che non mi vede da tanti giorni. Le dico che sono stata un po’ presa, perchè mia figlia non è stata molto bene. Sorride comprensiva quando il mio compagno di aperitivo non perde l’occasione di sottolineare che quando la nostra ragazzina ha qualche difficoltà, io prendo distanza dal resto del mondo e vado solo in un’unica direzione. Quando ci salutiamo la ringrazio per il pensiero e lei con leggerezza mi dice che domattina mi aspetta per il caffè. Avvicinandosi con la cautela e il rispetto che in tutti questi anni le ho visto esibire nei nostri confronti, non perde l’occasione di dirmi che mi pensa sempre e se per qualche giorno non mi vede passare per il caffè di rito si chiede subito se c’è qualcosa che non va.

Spesso gli sguardi altrui sono molto pesanti e faticosi da sostenere. Pensando a questi due recenti scambi ne gusto la delicata leggerezza e penso che ci sono incontri belli che vanno proprio raccontati per trattenerli.

Mi sono persa via scrivendo e mi accorgo che è ora di iniziare a organizzarsi per affrontare questa nuova giornata. Stamane non posso mancare ad un appuntamento.

Mi aspetta un profumatissimo caffè.

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