Difendere le relazioni

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Laboratorio di Sintesi Educativa

un’idea di Igor Salomone
Approfondisci il tema di questo post seguendo il progetto in progress sulla pagina del sito igorsalomone.it

Leggevo l’altro giorno su Repubblica questo articolo, annunciato con un occhiello sul fondo della prima pagina. Il titolo è un programma: Studenti contro Prof. Così le nostre classi diventano un ring. Inquietante. Apre scenari destinati a mandare in soffitta tutto un genere cinematografico, da La scuola della violenza, con Sidney Poitier a Meri per sempre con Michele Placido, passando per tutti gli epigoni dell’uno e dell’altro. Almeno lì i “prof” non le prendono. L’articolo invece racconta che le prendono, eccome.

Mi chiedono sempre più spesso cosa mai sia “Difesa relazionale”. Quella che vado proponendo ormai da una decina d’anni nelle situazioni più svariate e che d’acchito appare incomprensibile nel nome stesso. Ecco, una difesa relazionale è esattamente ciò di cui ci sarebbe bisogno nelle situazioni raccontate in quell’articolo.

Nella maggior parte dei corsi di difesa personale, insegnano ad affrontare situazioni di pericolo con un obiettivo unico: portare a casa la pelle. Ammesso e non concesso sia possibile obbligare tutti gli insegnanti “a rischio” a un corso di quel tipo, che se ne farebbero? Nessuna delle aggressioni raccontate mette nelle condizioni di doversi salvare la pelle. Un calcio nel sedere, uno schiaffo, delle spinte, degli strattoni, delle ingiurie urlate a un dito dalla faccia, mettono a rischio la tua dignità se le prendi e la tua libertà se le dai. Dunque saper atterrare o mettere fuori combattimento un minore che ti sbeffeggia non serve a nulla, anzi potrebbe essere pericoloso. Cosa serve allora?

Serve innanzitutto avere coscienza delle proprie reazioni di fronte a un atto aggressivo. Ho visto decine di operatori rispondere a un gesto percepito come violento o anche solo invasivo con l’intero repertorio delle cose che non andrebbero fatte. Tipo irrigidirsi, alzare la voce, alzare il corpo, gonfiare il torace, smanacciare cercando di afferrare le braccia del proprio presunto aggressore e simili. Diciamo che un po’ di consapevolezza, non guasterebbe, perchè non è mai dato sapere se un gesto aggressivo è gratuito, oppure se è una risposta al nostro maldestro modo di difenderci.

In secondo luogo serve chiedersi da dove viene ciò che ci sta accadendo quando l’altro ci mette le mani addosso. I problemi non cadono dal cielo, e se un ragazzo arriva a prendere a calci un professore, quell’atto va letto come l’ultimo di una catena di fatti non governati in precedenza. Esistono le violenze “da strada”, come usa dire, perpetrate da sconosciuti in luoghi sconosciuti per motivi sconosciuti. Ma sono casi estremi. Ciò che mostra l’articolo di Zunnino è quello che sappiamo tutti da tempo ma non ci decidiamo ad accettare: chi ci aggredisce nella maggior parte dei casi è una persona conosciuta, con la quale addirittura abbiamo una qualche relazione se non addirittura una reponsabilità di ruolo. Dunque qualsiasi nostra reazione avrà conseguenze su quella relazione in futuro, e non possiamo escludere che l’attacco subito oggi non sia la conseguenza di qualcosa che abbiamo fatto ieri.

In terzo luogo, ma è il fattore probabilmente più importante, la violenza non va considerata come una qualità del nostro aggressore, ma come una condizione generata dal contesto della nostra relazione. I rapporti di potere (come quello tra insegnante e studente), il sovraffollamento dei corpi, la costrizione fisica e la promiscuità prolungata, sono generatori di stress che possono sprigionare aggressività con esiti anche violenti. Occorre dunque fare un intenso lavoro di prevenzione sia lavorando sulla scena educativa per tentare di renderla meno pericolosa, perchè ogni scena educativa è pericolosa e bisogna imparare a vederlo, sia imparando ad ascoltare come il proprio corpo l’attraversa per poterlo mettere in sicurezza relativa.

Ecco, questo è “difesa relazionale”. E riguarda tutti: insegnanti, educatori, operatori sociali, genitori, donne. Non solo quindi per pochi patiti di sport da combattimento disposti a sudare tre quattro volte alla settimana in una palestra per dieci o vent’anni, ma per chiunque viva contesti relazionali intensi nei quali possa prodursi un conflitto che possa sfociare in uno scontro anche violento. 

Nel Laboratorio di Sintesi Educativa, quando ci sarà e avrà avviato le sue attività, sarò felice di accogliere tutte quelle persone per cercare assieme la via di un’autodifesa etica e consapevole. Che miri a difendere la relazione con l’altro, anche quando ci aggredisce. Che abbia in conto la protezione di entrambi. Che sappia creare le condizioni per evitare l’escalation. Che metta in sicurezza i luoghi dell’incontro.

Vincere il terrore

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charlie-hebdo
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Sei in giro per la strada. Magari su una bici, di servizio perché sei un poliziotto di quartiere. Ti imbatti in due criminali feroci armati di Kalashnikov che prima ti feriscono e poi ti freddano. Che fai? Muori.
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Sei in riunione con i tuoi colleghi di una vita. Stai per definire la strategia per la prossima settimana. Due criminali feroci armati di Kalashnikov prima sparano bucando la porta, poi entrano, ammazzano il poliziotto presente per proteggerti, poi falciano una decina di persone, senza alcuna pietà. Che fai? Muori.
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Lo stesso ti accade se sei un ragazzo in vacanza su un’isola vicino a Oslo, Norvegia, uno studente di una scuola superiore a Columbine, Denver, Colorado, un giornalista rapito in medioriente, alla mercè di assassini armati di mitra o di coltellacci da macellaio: muori.
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Che senso ha parlare ancora di difesa? davvero, in questi giorni surreali di immagini televisive che ti si piantano nel cranio e nella pelle, che senso ha? Come ci si potrà mai difendere da una spietatezza, una determinazione, una freddezza assassina di quella portata? Non ci si difende, non ci si può difendere. Si può solo sperare di non soccombere, di scamparla in qualche modo. E di venirne fuori il meno peggio possibile. O di morire in fretta.
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Ci si poteva preparare forse?  e come? girando a nostra volta con un mitra in spalla? un mitra appresso prendendo il caffè o sfogliando un giornale? oppure blindando ogni ufficio, ogni locale, ogni casa circondandoli di filo spinato e casematte? e a che pro? un attacco di sorpresa è sempre un attacco di sorpresa. Anche se hai in mano un cannone. Al massimo puoi sperare di vendere cara la pelle. Nulla più. Ma questo non è difendersi, è morire con le armi in pugno.
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I fatti di Parigi sembrano recitare il requiem per ogni velleità di difesa individuale. Ci sbattono in faccia la condizione di esseri inermi, esposti alla follia di chiunque. Dunque, che si fa, ci si arrende? oppure ci si arma diventando simili agli assassini dai quali vogliamo difenderci? Non credo.
E’ proprio in questi momenti che sapersi difendere diventa un imperativo etico.
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Anche di fronte al mattatoio di Utoya, mi ero posto questa domanda. L’avevo lasciata in sospeso in un post che poi non ho pubblicato. E’ ora di provarci.
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Dobbiamo innanzitutto combattere la nostra paura. Che è il vero nemico e ce lo portiamo appresso, sempre. La paura uccide la nostra vitalità molto prima di toglierci la vita. Di fronte ai pericoli più bastardi, impensabili e insostenibili, occorre coltivare il coraggio di vivere una vita normale, quotidiana, mediamente sicura, anche se potrebbe essere squarciata dal piombo o da un filo di lama. Le probabilità di essere massacrati da un pazzo con un mitra sono una su un milione, anche i pericoli più “normali” come essere rapinati, malmenati per strada, stuprati in un vicolo, sono una su centomila. Difendersi dal rischio di vivere nel terrore, non è già un buon motivo per imparare a difendersi?
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La paura è una sensazione, dunque è un fatto corporeo. Combatterla, significa disciplinare il proprio corpo, mantenerlo reattivo, acuirne la sensibilità ambientale, padroneggiarne il movimento. Si difende l’incolumità del corpo, ma è con il corpo che ci si può difendere. Anche quando si tratti di scappare o nascondersi, strategia difensiva sempre possibile e talvolta l’unica disponibile. Ma bisogna saperlo fare, dunque e possibile imparare a farlo.
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Ascoltare il proprio corpo mette a contatto con la nostra vulnerabilità. Siamo vulnerabili, dunque possiamo subire un danno, in qualsiasi momento, per incidente o volontà. Ma non siamo necessariamente fragili. Non è detto che un danno, un qualsiasi danno, ci mandi in frantumi. Anzi: un danno che non ci fa a pezzi, è manifestazione della nostra forza e della nostra resistenza e coltivare forza e resistenza, alza la nostra soglia di tolleranza al rischio, facendoci sentire più sicuri e meno esposti ai pericoli.
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In che modo tutto questo ci difende dalle pallottole dei pazzi criminali armati di Kalashnikov? in nessun modo. Ma ci può difendere dal terrore che quei pazzi criminali vogliono imprimerci nella mente e nel cuore. Perché le vittime dei terroristi non sono solo quelle uccise nell’azione terroristica, siamo tutti noi. E difendersi significa non soccombere, non farci pietrificare dalla paura, non sviluppare paranoie, fobie, isterie nei confronti dell’Altro come fonte di pericolo da evitare, allontanare e, prima o poi, annientare. Perché questo è il loro vero obiettivo. E per farlo dobbiamo riappropriarci del nostro corpo e della sua possibilità di proteggersi e proteggere, rispettando la vulnerabilità altrui.
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Ecco perché i fatti di Parigi mi convincono, contro ogni apparente logica e ogni criterio di efficacia, che sapersi difendere è un imperativo etico
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Botte da orbi

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Spettacolo in prima fila qualche giorno fa. Stavo lavorando sui testi per la promo del corso di arti marziali, che coincidenze a volte, quando sento un vociare acceso che proveniva dalla strada sette piani più sotto. Sembrava gente molto incazzata. Mollo il portatile, mi alzo, mi precipito in balcone, mi affaccio. E mi sono goduto la più archetipica scazzottata tra due automobilisti, nel bel mezzo di corso XXII marzo, Milano, ovvero uno dei luoghi più trafficati della metropoli.
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Che dire? la gente non sa fare a botte, se volevo una conferma di questa verità, l’ho avuta. Tre round, dico tre, di gran sventoloni, ed erano ancora tutti e due in piedi. Un graffio sulla pelata e un po’ di sangue sulle labbra (sì ho un binocolo potente) per uno dei due, il più giovane e rabbioso fra l’altro. Tutto qui. E giuro che si sono menati di brutto: pugni, calci, strangolamenti. Mancava solo l’alabarda spaziale. Ci sono quasi rimasto male.
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Delle due l’una, o tutto quello che mi hanno raccontato in decenni di pratica marziale è una bufala e tirar giù un tizio di un’ottantina di chili è tutt’altro che facile, oppure quelli non sono riusciti a mettere a segno neppure un pugno decente (sui calci stendiamo un velo pietoso), e in questo caso tutto quello che mi hanno raccontato nei decenni di cui sopra, è tutto vero.
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Ma andiamo per ordine. Quando mi sono affacciato, un furgoncino bianco e una Ypsilon cremisi erano fianco a fianco e, dai finestrini, i conducenti se ne stavano dicendo di tutti i colori. Tipico. Intanto inizia  a formarsi la coda dietro i due litiganti, a dimostrare che non sempre il terzo gode. Spinti dai clacson, le due auto ripartono. E’ finita qui, penso. Ma da un certo modo di muoversi e poi fermarsi dopo pochi metri, capisco che non è così. Di nuovo affiancati, hanno solo cambiato lato, ricominciano gli insulti reciproci. Una portiera si apre. Un tizio esce dal furgoncino, lato passeggero, fa il giro e si piazza davanti al lato conducente del nemico. Forse i contendenti sono più di due.  Ancora urla e insulti. Poi, d’improvviso e con uno scatto felino, il tizio in piedi afferra la maniglia, apre la portiera della Ypsilon, afferra l’avversario, lo trascina fuori e ha inizio il parapiglia.
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Tra pugni, grida e botte, mancavano solo gli spari, sembrava una canzone di Jannacci. Prima si accapigliano in due, poi arriva un terzo a dar man forte al compagno, poi uno dei tre sparisce e restano in due a darsele. Nel frattempo vengono separati da qualche passante volenteroso che rischia di prenderle per giocare al peacekeeper, si riappiccicano nuovamente, si separano, si riappiccicano. Tutt’intorno si raduna il pubblico delle occasioni, mentre dietro la fila di auto bloccate nel bel mezzo del viale, si allunga. Arriva la polizia, in cinque minuti, velocissima, finiscono le botte, ma i due eroi vanno avanti a insultarsi per un quarto d’ora, minacciando in continuazione di venire ancora alle mani, mentre due agenti tentano in modo decisamente maldestro di impedirlo. Fine dello spettacolo, rientro in casa.
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Con una bruttissima sensazione nel corpo.
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Cosa avrei fatto, io, se mi fossi trovato in quella situazione? Immagino sia una domanda che si farebbe chiunque in quelle circostanze. Per lo meno chiunque di sesso maschile. In ogni caso è una domanda inevitabile per uno che pratica arti marziali da quasi trent’anni. E la risposta, sconceratante, è sempre la stessa: non ne avevo la più pallida idea. Sono decenni che incrocio braccia e gambe con i miei compagni, in palestra. Ho preso anche la mia brava dose di pugni, calci, leve, cadute. Ma il mio corpo mi dice che i due pirla per strada avevano appena vissuto un’esperienza completamente differente, che io non ho mai vissuto, nonostante o forse  proprio in grazia dei miei decenni di marzialità.
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Forse l’avrei fatto la prima volta, per certo non mi sarei fermato la seconda in mezzo alla via a urlare e insultare il mio prossimo. Lo so perché questo sì mi è capitato, e ho scelto di andarmene. Non sarei sceso dall’auto per andare a insultare dal finestrino il mio avversario, né tanto meno l’avrei tirato fuori dalla sua auto con la forza. E se mi fossi trovato nei suoi panni, non mi sarei fatto trascinare fuori, avrei bloccato le porte e sarei ripartito appena possibile. Oppure, forse, sarei sceso non appena avessi visto che faceva la stessa cosa anche l’altro, cercando di evitare il contatto, tenendo una distanza di sicurezza. Ma qui entriamo già nella speculazione pura.
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“E se l’altro…?”. E’ la domanda che ci poniamo tutti, noi marzialisti, almeno alle prime armi. Poi, smettiamo di formularla prima e anche di pensarla poi. Tanto è chiaro che non esiste nessuna pratica in grado di fornirti risposte preconfezionate buone per ogni possibile aggressione che “l’altro” può imbastire nei tuoi confronti. E’ uno degli insegnamenti più preziosi che l’arte marziale può fornire in una valuta spendibile in ogni circostanza della vita quotidiana.
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Il filmato, uno dei tanti che è possibile recuperare in Rete, mostra una situazione possibile, abbastanza tipica forse. L’aggredito sembra conoscere gli aggressori, è lì con la sua ragazza e viene impietosamente provocato e picchiato da più persone, persino da chi a tutta prima sembra arrivare in suo soccorso. Nel frattempo sullo sfondo si vede di tutto: passanti che passano, signore che escono di casa cariche di non si sa cosa, spettatori che si fermano e si godono la scena. Nessuno, comunque, interviene. MI chiedo: cosa avrebbe dovuto fare l’aggredito? probabilmente quello che ha fatto: limitare i danni. Forse poteva far allontanare subito la sua ragazza, prima che ci andasse di mezzo, ma per il resto si è protetto e non ha reagito. Aveva una sola alternativa. Scappare non di certo, perché l’avrebbero inseguito e avrebbe lasciato lì da sola la ragazza. L’alternativa vera sarebbe stata alzarsi e aver ragione dei suoi aggressori.
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Dunque la domanda è: sei in grado di mandare a terra due o tre persone in quelle condizioni? Se la risposta è no, quello che ha fatto lo sfortunato ragazzo aggredito in quel modo era probabilmente quello che doveva fare. Si noti che non ha alcun atteggiamento aggressivo, restando seduto si protegge la schiena, si ripara come può con braccia e gambe senza accennare il minimo gesto offensivo. E se la cava con un po’ di sangue dal naso e l’orgoglio ferito. Avrà tempo dopo per formulare delle risposte, se lo vorrà, perché la difesa da un’aggressione non si risolve necessariamente, e forse nella maggior parte dei casi, con una controaggressione più forte ed efficace.
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E questo valga per tutte le situazioni nelle quali ognuno di noi si trovi nella circostanza di sentirsi aggredito. Che siano pugni e schiaffi, oppure urla o anche più semplicemente parole e atteggiamenti che ci feriscono.
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Botte da orbi, letteralmente, significa menar le mani alla cieca, o quasi. Saper combattere, invece, significa usare l’intelligenza, anche a costo di lasciar perdere e andarsene, oppure prenderle, quando non c’è altro da fare e prenderle è sostenibile.

Chi è nudo?

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chi è nudo

Gran dibattito oggi su Fb a proposito di quello che è successo al seggio dove ha votato Berlusconi tra le tre donne a torso nudo che hanno inscenato una protesta e le forze dell’ordine. Mi ha aiutato a chiarirmi le idee per poi parlarne qui nella prospettiva della Difesa relazionale.

Tralascio dunque i discorsi sulla presunta messa in scena, o quelli sulle regole di ingaggio che costringerebbero i poliziotti a fare quello che hanno fatto. Non mi interessano. Il punto, come sempre, non è neppure giudicare chi ha torto o chi ha ragione, ma cosa può insegnarci quell’episodio sulla difesa e sulla violenza.

Per questo occorre tornare ai fondamentali della difesa.

Primo: difendere qualcosa a costo di mettere in pericolo o distruggere quello che si sta difendendo, non ha alcun senso

Cosa stavano difendendo i poliziotti presenti al seggio? L’ordine pubblico verrebbe da dire. Ora, tre donne che strepitano a torso nudo fanno più “disordine” pubblico di un tot di uomini in divisa che le afferrano (malamente), le strattonano, le trascinano via, le sbattono a terra? non credo. L’intervento della Polizia ha creato molto più caos di quanto non ne creassero le tre manifestanti. E questo è un fatto.Altri potrebbero sostenere che il poliziotti erano lì per difendere il politico importante presente e che è sempre a rischio sicurezza. Bene.

E se le tre signore fossero state un diversivo? Chiunque avrebbe potuto approfittare del caos creato dal corpo a corpo ingaggiato dagli agenti per attentare alla sicurezza dell’importante politico presente. E questo è un altro fatto.

A voler essere sofisticati, occorrerebbe ricordare che le Forze dell’Ordine, hanno il compito istituzionale di difendere sempre e comunque non qualsiasi tipo di “ordine”, ma l’ordine democratico. E difendere l’ordine democratico pestando di santa ragione chi protesta, sia pure in modo improprio, non mi pare aiuti a difendere l’ordine democratico. E questo è un principio. Di quelli a cui far riferimento sempre.

Quindi, a prescindere dal fatto che la responsabilità sia di poliziotti incapaci o mal addestrati oppure da strategie operative evidentemente discutibili, resta che quell’episodio fa mostra di una “difesa” pericolosa che mette a rischio invece che mettere in sicurezza.

Secondo: non si può immettere in una situazione di violenza, una quota di violenza superiore a quella che c’è

Per lo meno non dovrebbero farlo le forze cui è stata delegato il monopolio dell’uso della violenza al solo scopo di assicurare la difesa collettiva.

E’ del tutto evidente che i comportamenti dei poliziotti sono stati di gran lunga più violenti della pur sostenuta violenza verbale delle manifestanti. In questo modo si rischia di produrre un’escalation. Se intorno a quel seggio ci fossero stati gruppi di attivisti inclini all’uso della forza, sarebbe scoppiato un tumulto. Questo non è il modo di mantenere l’ordine pubblico.

Naturalmente nella difesa occorre anche tener conto delle minacce potenziali, non solo della violenza espressa in modo manifesto. Per questo ingaggiare un corpo a corpo con quelle donne è stato un errore: ha distolto risorse e attenzione al dovere di mettere in sicurezza la situazione nel suo complesso. Che pericoli potevano nascondere quelle manifestanti a torso nudo? Evidentemente nessuno. Dunque la reazione è stata sproporzionata, ha alzato la quota di violenza e ha messo a repentaglio tutti i presenti.

Terzo: ogni atto di difesa va compiuto nel tentativo di non trasformare l’avversario in un nemico
Fossi una di quelle donne, ora avrei voglia di urlare basta Polizia oltreché basta Berlusconi. Le Forze dell’ordine, in un paese democratico, devono essere rispettate. Ma sapere che se la fai appena fuori dal vaso vicino a qualche potente rischi di essere malmenato, portato in questura e accusato, per giunta, di resistenza a pubblico ufficiale, non contribuisce ad aumentare il gradimento nei confronti dei tutori dell’ordine.

In quella situazione, per come è stata gestita, il nemico erano le tre manifestanti e quello da difendere Berlusconi. Con questa mentalità non andiamo lontano.

In quella situazione andava difeso Berlusconi dal rischio che una delle tre manifestanti gli arrivasse addosso. Era sufficiente tenerle lontane e far uscire Berlusconi. Ma andava anche difeso il seggio che è un luogo sacro per la democrazia, tenendo il più basso possibile lo scontro. E, infine, andavano difese le tre signore che hanno usato il proprio corpo per protestare, mentre l’averlo colpito e umiliato, quel corpo, finisce con il ricordare a tutti noi che corriamo lo stesso rischio.

Difendere è giusto, ma occorre farlo nel modo giusto. Difendere a qualunque costo, invece, significa accettare a priori la possibilità di farlo nel modo sbagliato

Quindi se qualcuno, a maggior ragione se è un pubblico ufficiale, pensa di dovermi difendere a qualunque costo, sappia che non sono d’accordo e mi difenderò dalla sua pericolosa protezione.

La vita non è un ring

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Lottare, affrontare le avversità, sopportare il dolore, rimarginare le ferite, vincere, essere sconfitti, rialzarsi, trionfare, arrendersi, soccombere, sopraffare. Le metafore guerriere pervadono il nostro linguaggio in lungo e in largo. Le utilizziamo abbondantemente per parlare della vita, delle sue difficoltà, dell’impegno che ci chiede tutti i giorni. Ma sono quasi tutte sbagliate.

Vero, le metafore non possono essere sbagliate, al massimo usate in modo improprio. Ma fa lo stesso. Il punto è l’indeterminatezza della loro origine: la figura del “guerriero” e la mitologia della “battaglia”.

E’ un quarto di secolo che pratico arti marziali e che mi chiedo cosa accidenti sia un guerriero. Diciamo che è un archetipo, che con un po’ di psicoanalisi junghiana da bricolage ce la si cava sempre. Chiamiamo “guerriero” un’immagine, un’idea in senso platonico che ognuno ha interiorizzato per chissà quale percorso cognitivo, alla quale rinviano una montagna di discorsi, offrendosi come pietra di paragone. Il punto però è che qualsiasi cosa sia ciò che definiamo “guerriero” non c’entra un tubo con la nostra vita di tutti i giorni.

Un guerriero, soldato in trincea o samurai che sia, si muove in un campo d’azione molto determinato: le regole sono chiare per quanto crude ovvero, come dice De Andrè, uccidi prima di essere ucciso. Tutto il resto si dissolve all’orizzonte. Ciò che permette a un guerriero di essere tale, è la semplificazione assoluta del campo esistenziale. Il contrario esatto dell’esperienza che viviamo tutti noi, ogni giorno. Se c’è qualcosa che dobbiamo affrontare, sopportare, per la quale dobbiamo lottare, rischiare ferite, decidere se vincere o lasciarsi sconfiggere, è proprio la complessità del mondo che non permette neppure di capire se c’è un nemico da combattere. Del resto è proprio per questo motivo che ogni tanto qualcuno trova un mitra e spara all’impazzata, decidendo che i nemici sono tutti gli altri e semplificandosi finalmente la vita, anche a costo di perderla.

Modellati su questa figura archetipica, invece, tutti quanti sognamo un ring. Che diamine, vuoi mettere? ok, puoi prenderle di santa ragione, però hai la soddisfazione di sapere da chi le avrai prese, che è più o meno della tua stessa misura e livello di preparazione, di affrontarlo faccia a faccia e senza terzi che vengano a scombinare le carte, con regole precise cui attenersi e un arbitro che le faccia rispettare. E poi c’è sempre il gong che potrebbe salvarti all’ultimo secondo. Bene, la cattiva notizia è questa: nella vita non succede MAI.

Eppure le palestre si riempiono di persone che sudano anni, nel migliore dei casi, per prepararsi a lottare, affrontare le avversità, sopportare il dolore eccetera eccetera, su un qualche tipo di ring. Ogni gesto, ogni tecnica, ogni esercizio, puntano a perfezionare le abilità necessarie a combattere entro un determinato sistema di regole. Il più delle volte è sufficiente una piccola differenza in quel sistema di regole e tutto quello che hai imparato non serve più a nulla. Tipo, pratichi a mani nude e i tuoi movimenti sono piccoli, minimi, veloci ed efficaci a contatto con le braccia dell’avversario. Se sul ring ti fanno mettere i guantoni sei finito. Oppure, passi anni ad allenare pugni e calci, poi finisci a combattere con le regole della lotta libera e ti annodano oltre ogni decenza.

Ma questo non sarebbe un problema. Dopotutto se hai imparato ad arrampicare ottavi gradi, nessuno ti obbliga alle gare di triathlon. Stai nel tuo e continuerai a raccogliere soddisfazioni per tutto il sudore che hai versato. Il problema insorge quando sapendo destreggiarti lungo una parete liscia e verticale, pensi di poter fare altrettanto scalando la tua carriera lavorativa o, peggio, superando con agilità i passaggi estremi della vita tipo un licenziamento, un matrimonio che fallisce, una malattia invalidante o un figlio che muore. Non funziona così. Purtroppo, o per fortuna, non funziona così.

A parte quelli che ognuno di noi si va a cercare per godere di qualche ora di semplificazione esistenziale, nella vita i ring non esistono. Si combatte senza regole, senza arbitri, senza gong finale e neppure d’inizio, spesso senza neppure sapere che stai per combattere fino a quando non ti ci ritrovi in mezzo, o addirittura quando sei a terra rantolante. Di più. Ogni giorno può essere che la scelta migliore sia evitare un combattimento che quasi certamente non sai contro quanti e quali avversari dovresti ingaggiare, con quali disparità di forze, con quali rischi non solo per te ma anche per quelli che ti stanno vicino. Senza contare che nella vita reale, prendere un paio di sberloni e chiuderla lì, invece di rischiare una coltellata o peggio, può essere l’opzione migliore.

Questo mondo così complesso e difficile anche solo da intuire, richiede per essere attraversato grandi capacità di autodifesa. Ma per coltivarle, non bisogna illudersi che sia sufficiente imparare qualche tecnica sofisticata efficace solo nelle particolarissime condizioni per le quali è stata pensata. Nessun corso, nessuno stile, nessun sistema di combattimento, nessuna pratica agonistica, ci può sollevare dalla fatica di inventarci le mille e mille strategie necessarie per affrontare il mondo totalmente diverso e infinitamente più difficile che è là ad attenderci, appena fuori dal quadrato.

Esercizio e ripetizione

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Il post La saggezza nel salir le scale, ha suscitato questo scambio su Facebook con una mia amica. Ho pensato di farne un post…

    • Cinzia Bettinaglio Quindi l’esercizio e la ripetizione non aiutono l’arte di vivere nel mondo…?…

    • Igor Salomone non ho detto questo, pensa a quante volte saliamo delle scale…

    • Igor Salomone battute a parte, credo che l’esercizio e la ripetizione allenino l’esercizio e la ripetizione. Non sto scherzando. Dunque il punto è che cosa esercito e cosa ripeto. E di solito si ripetono e si esercitano dei gesti. Dunque si tratta di capire in che misura i gesti che esercitiamo restituiscono un nesso con i nostri gesti quotidiani

    • Cinzia Bettinaglio è anche il concetto di antropotecnica che propone Sloterdijk…mi sto cimentando con il suo libro Devi cambiare la tua vita… Anche se mi lascia perplessa che il significato “verticale e ascendente” della vita sia prodotto dalla ripetizione dei gesti, anche quotidani….
    • Igor Salomone Non conosco… Interessante però. Cos’è il significato verticale e ascendente della vita? Ad ogni modo, non è la ripetizione dei gesti in sè il succo. Quello produce solo automatismi. È il loro ascolto nella ripetizione. E l’ascolto di se stessi nel gesto ripetuto. Questo, per lo meno, l’ho imparato in tanti anni di pratica marziale…

    • Igor Salomone A te cosa lascia perplessa?

    • Cinzia Bettinaglio siccome sono pigra, mi piace di più pensare che alcune “elevazioni” si producano per salti evolutivi…insomma “illuminazioni” meno faticose della continua autoriflessività…

    • Igor Salomone Ah, ma io sono pienamente d’accordo! La ripetizione del gesto peró, non è semplice accumulo di conoscenza. È produzione di uno stato mentale che produce illuminazione. Ovvero conoscenza immediata, ad ampio raggio e in discontinuità con la conoscenza precedente. Non si impara a poco a poco come muoversi, ma d’un colpo. Il resto è una messa a punto

La saggezza nel salir le scale

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Dunque vediamo, nei decenni ho incrociato parecchie arti marziali: Karate Shotokan, Kung fu Hung Gar, Shao Lin, Tan lang, Choy Lee Fut, Win Tzun e Tai Chi Chuan. Una collezione ormai comune tra i praticanti visto che i monocolori sono passati di moda. Fatevi un giretto su Google per credere. Bene. Tutti, dico tutti, sostengono di insegnare il modo “giusto” di muoversi. E il bello è che tutti, dico tutti, hanno ragione.

In fondo come si definisce il modo “giusto” di muoversi? In base a un unico criterio universalmente condiviso nell’ambiente: l’efficacia. E quando un movimento è efficace? quando, date determinate condizioni, raggiunge l’obiettivo. Per questo hanno tutti ragione: tutti stabiliscono condizioni e obiettivi per i quali il modo di muoversi che insegnano è quello efficace.

Non è solo questione di furbizia, si chiama “specializzazione”. Supponiamo che le condizioni siano: un solo avversario, davanti a te, chiara intenzione di attaccarti facendoti del male, nessuna possibilità di fuga o di aiuto, non previsto il disimpegno, niente armi e mani nude, terreno piano e privo di ostacoli, corporatura di entrambi nella norma, condizioni di salute normali. Obiettivo: fargli male prima che lo faccia a te. Con queste coordinate i movimenti “efficaci” si riducono enormemente. E l’insegnante ha buon gioco nel trattenerti per degli anni nell’affinarli oltre ogni grado di sofisticazione.

Oggi, mentre salgo le scale, mi accorgo che il mio bacino per muovermi deve fare cose che su un terreno piano non ha bisogno di fare. Bene. E perchè mai se occorre difendersi devo supporre che il terreno sia sempre piano? o che chi minaccia sia solo? o che io sia già sicuro che vuole farmi del male? o che io non preferisca prendere un paio di sberle e mollarla lì piuttosto che finire con un buco nella pancia? o che non sia meglio darsela a gambe? o che io debba difendere la pelle di mia figlia a costo di rischiare la mia?

Insomma, la vita non è il ring e nessuna forma di combattimento creata e praticata nelle palestre ha qualcosa a che vedere con la capacità di difendersi dai pericoli che il mondo ti mette davanti quando meno te l’aspetti, quando non sei in condizioni ottimali per affrontarli, quando pensi che il pericolo che si presenta non sia affatto un pericolo, quando pensi che ciò che ti si presenta sia un pericolo e invece non lo è per nulla, quando in pericolo non sei solo tu ma anche chi ti sta vicino, quando sei tu a mettere in pericolo l’altro, quando il pericolo sta nel modo in cui ti difendi dal pericolo.

Allora il movimento. Quando è efficace un movimento? Quando mi permette di muovermi in ogni condizione. E a prescindere da un obiettivo prestabilito. I movimenti specializzati sono utilissimi per svolgere compiti specializzati. Sapersi difendere, al contrario, non è una competenza specialistica. Come non lo sono tutte le capacità che hanno a che fare con la saggezza dello stare al mondo.

Funzionare è bello!

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Insomma, avete presente quando uno dice che il motore funziona? Sali sull’auto, giri la chiave, il motore parte e si assesta velocemente al minimo mentre tieni la frizione schiacciata, oppure sei in folle. Nessun rumorino fastidioso, il tono è quello giusto, i giri anche, così non si imballa e non urla. Poi parti, prima-seconda-terza…cambio e movimento sono scorrevoli, niente salti, strattoni, borbottii o comunque cose sinistre di varia natura. La marcia procede liscia e provi il sottile piacere delle cose che funzionano. Funzionano, appunto. E basta.

Niente di prestazionale in tutto ciò. L’accellerazione da fermo? chissenefrega. Velocità massima? altrettanto. Spunto in sorpasso, ok serve, ma se tutto funziona come deve, l’avrai. Anche se non ti riuscirà di spettinare il malcapitato che stai superando.
La differenza tra una prestazione e il funzionamento è che della prima ti accorgi generalmente quando l’ottieni, del secondo quando non c’è. Ma se ci fai attenzione, “sentire” il funzionamento di qualcosa dà un piacere sottile e intenso. Corpo compreso. Anzi di più perchè quando il corpo funziona senti due cose: che funziona e il piacere per il fatto che funziona.
Invece nelle palestre l’orizzonte fondamentale è la performance. Il risultato. Magari ottenuto addirittura a discapito del buon funzionamento, magari ottenuto portandolo a livelli estremi, che di solito preludono al malfunzionamento successivo. Bene, si tratta solo di capire se in circolazione ci sia una domanda di “buon” funzionamento invece che di prestazioni. Perchè se c’è e riesco a intercettarla, riempio la mia di palestra…

Imparare dalla violenza

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In Rete si trova di tutto, dopo il maledetto 15 ottobre romano. Moltissimi insulti di tutti contro tutti, i più surreali sono di quelli che condannano i violenti sui siti dei violenti con una violenza inaudita. Niente di nuovo del resto. L’escalation è consustanziale a ogni gesto violento. In risposta alla marea di insulti, mi sono imbattuto in questa nota postata su un sito di anarchici che si definiscono Antifascismo Militante. Di estremo interesse per ragionare di violenza e di difesa. La posto perchè tutti possano farlo per conto proprio. Io, naturalmente, non mi sottraggo e ne approfitto per qualche considerazione di fondo, come nota a margine delle affermazioni che potete leggere seguendo il link.

Prima tesi: la violenza è diversa se considerata un mezzo e non un fine. Questa tesi potrebbe esercitare un certo fascino e spesso l’ha fatto, producendo tragedie immani. Credere che i mezzi utilizzati non condizionino i  fini è un’ingenuità psicologica e una superficialità concettuale. Chi scrive sostiene che Black Block e gli altri manifestanti hanno gli stessi fini ma si servono di mezzi diversi, senza argomentare per nulla questa affermazione ma assumendola come verità. Sul piano pedagogico non ho mai creduto che la violenza vada semplicemente condannata senza se e senza ma. Va innanzitutto capita e non per giustificare nessuno: per imparare dalla violenza il senso della violenza, senza di che non la si può affrontare. Dunque distinguere una violenza buona da una cattiva è una pratica antica come le società umane, può ben essere continuata, ma con argomentazioni serie. Quando invece ci si limita a dire che la mia violenza è giusta e la tua è sbagliata, si è succubi di un pensiero dominante. Alla faccia di chi si crede libertario e antagonista.
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Seconda tesi: quel che sarebbe successo a Roma è colpa “di quei 15enni teppisti amanti della violenza per la violenza”. Anche fosse, la domanda inevasa se si dà per buona la prima tesi è chi ha il compito, avendo scelto la violenza come mezzo, di disciplinare i comportamenti di chi poi con la violenza ci si diverte? Dove eravate voi BB mentre i 15enni teppisti sguazzavano nelle auto in fiamme? Per esercitare una violenza strategica, come sembrano rivendicare le parole di quella nota, occorre una grande disciplina. Se la rifiuti, la disciplina, allora non hai neppure il diritto di rivendicare il diritto alla violenza come mezzo. In altre parole erano più serie, per lo meno, le Brigate Rosse.
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Terza tesi: non siamo noi i violenti ma il sistema. C’è sempre una violenza peggiore della propria che serve a giustificarla. Hitler nel ’38 invase la Cecoslovacchia per difendere le popolazioni di lingua tedesca della regione dei Sudeti. Da un punto di vista psicologico, la struttura di pensiero è quella del bambino che allunga un dito verso un altro dicendo “ha cominciato lui”. Dunque è una struttura di pensiero infantile. Sul piano concettuale, infine, questa tesi non considera il fatto che se un sistema è violento, di violenza si nutre, dunque occorrerebbe per lo meno riflettere sul rischio che combattere con la violenza un sistema violento significa alimentarlo.
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Quarta tesi: la violenza simbolica. “Siamo d’accordo con la sfasciatura simbolica delle banche”, questo c’è scritto e il fatto introduce, dopo quella di violenza giustificabile, quella di “violenza simbolica”. Nozione interessante e del tutto priva di fondamento. Parlare di “violenza simbolica” significa discriminare tra una violenza di questo tipo e una “cieca”? “materiale”? “animale”? Distruggere le vetrine di una banca sarebbe “simbolico” mentre dare alle fiamme un’auto no? o dipende dall’auto? tipo che se è una media cilindrata allora è fine a se stessa, ma se è un suv è “simbolica”? Evidentemente tutto ciò non ha senso. E non solo perchè non è così agevole stabilire dove stia al linea di confine (“aspetta, tira il sampietrino là che è “simbolico”, non qua che sarebbe fine a se stesso”…). La violenza, per gli esseri umani che vivono in un universo linguistico per il quale ogni fatto è un significato, è sempre e comunque simbolica. Lo era quella dei lager nazisti, delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, degli Hutu che con il machete affettavano i Tutzi, dei cetnici che nella ex yugoslavia impalavano i musulmani… Ogni tipo di testimonianza evidenzia che un essere umano non uccide mai “semplicemente” un altro essere umano. L’uccisione è l’atto conclusivo di un percorso che deve produrre un significato sia per chi sta per essere ucciso, sia per tutti quelli che restano e assistono a quell’uccisione. Dunque non ha alcun senso distinguere tra la violenza di chi bruciava e basta e di chi ha bruciato i “simboli del potere”. Sarà consapevole il nostro Anarchico-Antifascista-Militante che la struttura di pensiero sulla quale poggiano le sue parole è la medesima di tutti i massacratori della Storia? Forse è il caso che lo impari.
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La violenza non è tutta uguale, certo. Occorre capire se chi risponde a una violenza su di sè sia da mettere sullo stesso piano di chi la esercita sull’altro. E non è una risposta semplice. Il che implica che la violenza non vada né esaltata, quella buona naturalmente, né condannata a priori come tutta uguale e tutta cattiva. La violenza va guardata dritta negli occhi e interrogata, con disciplina intellettuale e del corpo, e con un un’unica certezza: se non può essere eliminata, occorre almeno evitare di provocarla e se ci si trova in mezzo puntare ad abbassarne la quota il più possibile. Allora se vogliamo ragionare sul maledetto 15 ottobre romano, dobbiamo rivedere filmati e ricordi per cercare quelli, e ci sono stati, che hanno tentato di perseguire questa strada. E imparare da loro.
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Si ricomincia

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Progettando i prossimi appuntamenti di Difesa Relazionale, al sole, davanti a uno specchio d’acqua percorso in lungo e in largo da canoe assortite e fiancheggiato da runners indomiti. Ore di silenzio e musica, ad aspettare le idee. Che sono arrivate direttamente dal corpo, senza farsi pregare.

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Location:Via Circonvallazione Idroscalo,Segrate,Italia

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