Passeggiando nel tempo

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di Irene Auletta

Negli ultimi tempi gli incontri con mia  madre si sono trasformati in viaggi nel tempo. Il segreto è non porre resistenza e farsi accompagnare in sbalzi da capogiro, in un movimento continuo tra passato prossimo e passato remoto, con qualche puntatina nel presente.

Diversamente da chi in tali situazioni si angoscia, io ho scoperto la via della curiosità e la possibilità di stupirmi insieme a lei di qualcosa che, anche ripetuta a distanza di cinque minuti, diventa una sfiziosa novità.

Ti stupisci della tua età e della mia e riesci sempre a dirmi che sono sciupata e troppo magra.  Dai mamma non è poi tanto vero, ti dico nel nostro ultimo incontro. Allora mi sorridi e con candore mi rispondi che forse mi “sono fatta vecchia”. Replico ridendo che questo è troppo e le ricordo ogni volta le sue di primavere! Ma veramente? Allora mi sono fatta vecchia pure io!

Così va meglio.

Ti faccio vedere spesso qualche foto di Luna, solo un paio perché di più fai fatica a seguirle e non di rado commenti chiedendomi se riesce a farsi capire. Questa tua domanda mi commuove sempre perché era la tua preoccupazione di sempre nei suoi primi anni di vita e colgo lo stupore quando ti ricordo che ora ha ventisei anni.  Cerco di raccontarti solo cose belle e leggere ma ogni tanto mi punti gli occhi negli occhi e sei tu, che mi osservi nel profondo. 

Quante cose pesanti la vita ti ha messo sulle spalle … Lo dici quasi a bassavoce, come fosse un sospiro.

Non faccio neppure in tempo a trattenere le ultime battute che sei già altrove, indietro di trenta, venti, dieci, cinque anni fa.

Mi torna in mente la bellissima frase di film che ho visto di recente. “A volte è meglio non sapere le cose. Il bello della vita è proprio questo: ignorare che cosa accadrà domani; anzi, che cosa accadrà tra un istante. Del resto, come potremmo nutrire qualche speranza sul nostro futuro, se lo conoscessimo già?”.

Appunto.

Quando mi riprendo dal mio vagare, ti vengo a cercare in un altro tempo e così fino alla fine del nostro incontro, con il tuo saluto che ripete sempre le medesime parole con cui mi accogli. 

La mia Irene … la mia Irene.

E così ti saluto incrociando il tuo sorriso stanco mentre i tuoi occhi sono già di fronte ad un altro paesaggio a guardare chissà cosa. Ogni volta devo fare pace con il desiderio di esserci di più e con la mia vita che decide le sue battute spesso incurante di ciò che vorrei non perdere o trattenere il più possibile. 

Dopo ogni visita, ritorno pian piano verso casa accarezzando attimi di nostalgica malinconia in compagnia dei temporali e delle schiarire del cuore.

Quando torno da te figlia mia, il tempo è quello di un magnifico e terribile inesorabile presente.

Luna lo sai cosa ho raccontato alla nonna? Le guardiamo un po’ di foto delle tante cose belle fatte insieme? 

Nel tuo tempo dell’eterno presente i ricordi, tra profumo di violetta e Leocrema, mi riportano in equilibrio tra i miei affetti più cari e profondi e proprio lì, il battito trova attimi di quiete e di felicità.

Perchè ne so più di te

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di Igor Salomone

Lui è un personaggio chiave per la difesa di una casa dalla decadenza. Sappiamo tutti quanto velocemente possa aumentare il degrado del posto che abitiamo: cose che si accumulano e non trovi mai il tempo di portare in discarica, esistenze che maturano bisogni differenti stratificando ere geologiche di oggetti, impianti che invecchiano, mode che passano abbandonando le loro tracce nell’arredo. Una volta se ne occupava l’uomo di casa, non certo io, sempre attanagliato tra necessità evidenti e la supponente sensazione che il semplice cambio di una lampadina fosse un’insostenibile perdita del mio preziosissimo tempo.

Nei decenni però, le competenze del manutentore casalingo si sono così frammentate da richiedere per ognuna l’intervento di uno specialista. O di una cooperativa sociale per lo sgombero del ciarpame ormai ingovernabile.

Lui invece è un tecnico d’altri tempi. Elettricista di base, è da trent’anni sempre disponibile a farsi largo tra i suoi numerosi interventi per venire da noi, mettere mano su ciò cui può mettere mano e indirizzandoci a chi di dovere quando si arriva al confine delle sue competenze.

L’ultima volta ci è venuto in soccorso perchè a forza di aggiungere elettrodomestici, device elettronici, punti luce, il groviglio di fili e di riduttori montati su altri riduttori aveva raggiunto, anzi superato, un livello di guardia preoccupante. Temevo un’ispezione improvvisa di qualche Autorità preposta alla sicurezza delle abitazioni. Sentivo che mi avrebbero passato per le armi sul posto senza nepppure uno straccio di processo.

Arriva fiancheggiato da un assistente che scopro essere suo figlio. Che bello, ho pensato immediatamente, c’è ancora qualche giovane che impara il mestiere del padre e in prospettiva ne rileverà l’attività. Lo dico a entrambi, separatamente. Il padre tecnico mi racconta che è contento anche lui anche se non è stato facile perchè inizialmente il figlio aveva preferito, dopo un breve tirocinio con lui, un lavoro sotto terzi. Ma alla fine era tornato, spontaneamente e anche notevolmente cambiato.

La prima esperienza assieme era stata piuttosto burrascosa. “Faceva le cose come le aveva in testa lui e combinava un sacco di casini”. Quando dopo il periodo di distacco è tornato, il padre ha messo in chiaro i termini della questione così: “Sia chiaro che devi fare come ti dico io. E non perchè sono tuo padre, ma perchè ne so più di te. Trent’anni di esperienza più di te”

Avrei voluto fargli una ola.

Ormai trovo il pedagogico nelle pieghe più sottili della vita quotidiana. Ci sarebbe da scrivere un trattato su quell’asserzione perentoria del tecnico-padre rivolta all’apprendista figlio. Non preoccupatevi, non lo farò. Mi limito, coerentemente con lo spirito di questo luogo di scrittura, a lanciare qualche provocazione prima di una chiosa finale a mo’ di morale educativa sulla quale meditare.

Quanti genitori sono in grado di dire e dirsi “cosa ne so di più” per poterlo insegnare ai propri figli? Forse molti. Un bel “ai miei tempi”, “ perchè lo dico io”, “quando sarai grande capirai”, non si nega a nessuno, pescando nel mucchio folto e confuso degli standard pedagogici di sempre. Ma questo non significa saperne di più, nè tanto meno essere credibili quel tanto che basta a convincere chi impara che ne vale la pena.

“Saperne di più” implica avere qualcosa di significativo da dire sulla vita e le sue sfaccettature, qualcosa che possa avere un senso anche per chi non ha la tua stessa esperienza. Non importa se più giovane o più vecchio, parente stretto, conoscente o estraneo, quel che conta è riuscire a vedere nell’esperienza dell’altro degli insegnamenti possibili.

Ci siamo convinti nei decenni, noi figli di questa cultura individualista a oltranza, che nessuno possa dirci nulla e che ognuno deve imparare da ciò che fa e non da ciò che ha fatto qualcun altro. Bene, è stato anche un guadagno. Abbiamo buttato alle ortiche un sacco di immondizia scaduta da tempo come il principio di autorità o l’idea che trasmettere la propria esperienza fosse una semplice trascrizione da una mente a un altra. Però ci siamo dimenticati che l’educazione è esattamente questo: far sì che quel quid che io so e che tu non sai, possa in qualche modo esserti utile. Anzi, che possa essere utile a entrambi. E’ una responsabilità della quale ci siamo liberati in fretta, con un certo sollievo, lasciando all’altro il compito di imparare solo da se stesso e soltanto il cazzo che vuole, così si realizza.

L’educazione o è una responsabilità collettiva o non è nulla. Su questa responsabilità si sono evolute le culture umane e abbandonarla non può che portarci alla decadenza. Per fortuna ci sono ancora gli adulti-artigiani pronti a tenere in piedi quel che resta di casa nostra. Quindi chapeau mio caro mastro-elettricista, che la tua sapienza pedagogica possa salvare il mondo. O, per lo meno, quel pezzo di mondo che abiti.

Significati puliti

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di Irene Auletta

Pensandoci bene, noi genitori con figli disabili, insieme a chi sceglie di farlo per professione, siamo chiamati ogni giorno a fare cultura sui temi relativi alla disabilità e alle culture che vi ruotano intorno. 

Lo facciamo (o dovremmo farlo appena possibile!) assumendoci un ulteriore carico che sovente si traduce in una sorta di pulizia e riordino dei gesti e delle parole. Io, non senza costi aggiunti, ho scelto questa via da anni.

Le persone con disabilità sono bambini, ragazzi, uomini e donne e hanno il diritto di essere allegri, tristi, insopportabili, curiosi, annoiati, incavolati, amorevoli, intelligenti, straordinari, antipatici, motivati, simpatici.  Hanno il diritto di non essere imbrogliati, banalizzati e infantilizzati.

Come noi tutti. 

E qui farei subito una bella pulizia raccogliendo in un cestino gran parte di quelle parole stereotipate che abitano tante culture della disabilità e tanti servizi. Solo per fare un esempio mi vengono subito in mente: adeguato, collaborativo, ragazzi (per sempre), oppositivo, testardo, capriccioso, sfortunato, gravissimo, povero … naturalmente il tutto declinato indifferentemente anche al femminile!

Sulla cura dei gesti invece non mi stanco mai di ricordare il rispetto dell’altro, della sua volontà, del suo limite, del suo corpo, del tuo ritmo. Esattamente come lo stesso vale per i bambini piccoli e per gli anziani. Facile a dirsi, a fare proclami e a sostenere bandiere, ma nella realtà vera, ogni giorno, si incontrano contraddizioni, sbavature, comportamenti e culture emergenti che, in modo più o meno consapevole, negano ciò che viene sostenuto.

Forse dovremmo con più onesta’ nominare le difficoltà che si incontrano nell’incontro con la diversità, nelle sue molteplici forme, e farci allievi desiderosi di imparare sbagliando piuttosto che assertori di fragili verità.

Il fatto di avere una figlia disabile non mi apre tutte le strade e neppure mi rende capace di essere sempre così attenta, disponibile e capace di fronte all’altrui diversità. Mi sento tante volte a disagio, incapace, timorosa e conosco bene la voglia di scappare, voltare la faccia e anche di pensare che in fondo poteva anche andarmi peggio … o meglio.

La fragilità può essere contagiosa e, ogni volta che ci abita vicino, o corriamo il rischio di farci sommergere oppure riusciamo ad assaporarne inedite occasioni per trasformarla in forza. Una ricerca che non finisce mai, perlomeno, così è per me.

In questi giorni sei particolarmente dolce e affettuosa, in quel modo e con quella grazia che con pazienza e tenacia, hanno raggiunto anche le corde più severe del mio cuore. Il dono, figlia mia, per me non sarà mai la tua disabilità e non smetterò mai di soffrire per tutto ciò che la vita  ti ha negato.

Il vero dono è quello che, ogni giorno, mi permetti di imparare e che, come madre, provo a restituirti grata, tra gioia e dolore, rabbia e stupore, orgoglio e sconfitte, meraviglia e disincanto.

Mentre guido verso casa la tua mano innocente mi sfiora e per un attimo ciò che più conta è li, al mio fianco. E così riemerge la parola dono. Odiosa, ambivalente, fiduciosa, insopportabile, auspicabile. 

Vuoi dire che la ricerca, tra le mille pieghe dei significati, non finisce mai? Allora te lo prometto in silenzio, ancora e ancora. 

Andrò avanti Luna, continuerò a spazzare parole e a riordinare i gesti. 

Fino alla fine.

Eredi grati

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“La vita va avanti comunque, e suona che tu lo voglia o no, puoi solo alzare o abbassare il volume. E devi ballare.” (Alessandro D’Avenia)

di Irene Auletta

Mio padre è un uomo di altri tempi e con il passare degli anni è rimasto “integro” e fedele ai suoi orizzonti culturali di riferimento. 

Mai come in questi ultimi mesi la sua materialità e concretezza, in merito alle questioni importanti della vita, mi restituiscono la forza di qualcosa che tiene con equilibrio radicati alla terra e alla vita.

Di fronte al bisogno (di chi?) abbastanza diffuso di chiedermi se ora va meglio, se ci sono buone novità, se il momento è più sereno, mio padre guardandomi dritta negli occhi, mi invita “semplicemente” a stare,  ricordandomi che questa è la vita.

Me lo rammenta senza fatalismo o falsa resa, ma come un invito a non perdere di vista quelle dimensioni costitutive dell’esistenza che passiamo il tempo a rimuovere tranne quando rimaniamo, per cinque minuti, affascinati e affascinate dalle parole di qualche personaggio di turno, portatore di pillole di saggezza.

Poi, tutto continua esattamente come prima. 

Le interpretazioni (o giustificazioni?) si sprecano. E’ difficile stare a fianco di chi vive momenti difficili, non tutti siamo capaci di reggere il dolore, non è strano fuggire di fronte al proprio limite e al senso di impotenza … E via di questo passo, verso vie che interrogo e cerco di comprendere da anni, con molti dubbi e ancora tante domande aperte.

Mio padre, con poche ed essenziali parole, non scappa di fronte alla realtà e quel suo dire “questa è la vita” non esclude come sentieri possibili sia buone e auspicabili speranze, che puntate o epiloghi molto tristi, di cui nessuno ha colpa o responsabilità. Vito Mancuso, a tale proposito, ha parlato di dolore innocente.

Insomma, ancora oggi mio padre non smette di insegnarmi a non aver paura del dolore, a rispettarlo e a guardarlo nella sua essenziale naturalità, senza battaglie o idealizzazioni, ma come quella dimensione che ci ricorda come esseri umani, piccoli e velocemente di passaggio su questa terra.

E così, con il passare degli anni, mi accorgo che mentre lui mi ha insegnato sostanzialmente a non aver paura di vivere, allo stesso modo, le tracce indelebili di mia madre mi sostengono ogni giorno, proprio per dare valore alla vita, a non perdere di vista la ricerca della gioia e della bellezza.

Figlia mia,  tuo padre direbbe Noi siamo l’eredità.

Raccolte all’orizzonte

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di Irene Auletta

Se penso ad una delle parole che negli ultimi anni ricorre frequentemente nel mio lavoro con gli operatori e con i genitori, mi pare di non avere alcun dubbio.

Il vocabolario Treccani la definisce così. Sforzo materiale che si fa per compiere un lavoro o svolgere una qualsiasi attività, e di cui si sente il peso e poi la stanchezza.

Avete già capito vero? La parola è fatica.

Che fatica, sono in fatica, periodo molto faticoso, sono solo alcuni degli incipit con cui molte volte iniziano gli scambi comunicativi e che ogni volta, ormai da molti anni, mi portano a farmi nuove domande per capire, andando alla ricerca di significati possibili capaci di guardare oltre il muro della lamentela che troppe volte definisce il tono e le sfumature delle comunicazioni.

Pensando alla mia storia educativa, penso immediatamente a mia madre e alla sua incredibile capacità di trasformare le fatiche in un valore perchè il gusto era indubbiamente nel risultato, nella raccolta e in quella soddisfazione finale che concentrava l’attenzione, alleggerendo tutto ciò che veniva prima. La ringrazio ogni giorno per questa preziosa eredità perchè la vita finora non mi ha fatto molti sconti e non sembra neppure intenzionata a modificare questa sua direzione. 

Grazie a mia madre, anche nei momenti di maggiore sconforto, appena riesco, vado alla ricerca di ciò che ogni fatica può riservarci rinnovando, insieme al nutrimento della speranza, il gusto per le nuove possibilità.

Grazie a mia madre provo a insegnare lo stesso a mia figlia che è arrivata al mondo con uno zainetto talmente pieno di fatiche che ogni tanto mi chiedo se non ci sia stato davvero un grossolano errore nella distribuzione. Infatti, oltre a non apprezzare per nulla i termini bellici guerriera o guerriero, oggi peraltro stra abusati, penso che non restituiscano giustizia né comprensione alle condizioni di vita come la tua e alle continue prove quotidiane.

Eppure ti vedo felice, tenace, resistente, curiosa, appassionata. Insomma ti vedo piena di vita. Vuoi dire che un po’ della preziosa eredità della nonna sta arrivando fino a te, trasportata da quei fili invisibili coltivati nel nostro straordinario, complesso, meraviglioso, difficile incontro?

Credo che la ricerca vada proprio orientata verso ciò che accade dopo il momento  o la situazione definita faticosa. Cosa ha permesso di imparare, di scoprire, di darci la forza e la spinta per proseguire a testa alta? Cosa può aiutarci a non smarrire, e continuare a coltivare, i piccoli attimi di felicità? Cosa possiamo insegnare ai bambini e ai ragazzi in questi delicati attraversamenti?

A me aiuta ricordare che più abbassiamo lo sguardo e ci ripieghiamo su noi stessi, più non vediamo oltre la punta dei nostri piedi, smarrendo qualsiasi gusto e interesse per ciò che ci circonda e, a volte, per la vita stessa. 

Per questo, ogni volta che inciamperai, materialmente o metaforicamente, io spero di continuare ad essere finche potrò, solo per ricordartelo.

Alza la testa Luna, guarda in alto, guarda che bello, guarda il mondo!

La misura degli incontri

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di Irene Auletta

Luna è proprio così, bisogna darsi il tempo di conoscerla e di scoprirla, perchè lei emerge nelle lunghe distanze!

Quante volte mi sono sentita dare queste restituzioni che, nel tempo, mi hanno permesso di presentarti sempre con maggiore chiarezza e di imparare a fare i conti con un’attesa non sempre semplice da accettare e comprendere. 

In molte situazioni appari come quella con le minori abilità attese e anche io, come madre, ho dovuto imparare negli anni a liberarmi di tante idee precostituite che, come mi ritrovo a sostenere spesso, imprigionano noi tutti, operatori e genitori, nel paradigma abilista.

Certo, nei diversi panni di professionista o genitore, mi misuro con contenuti e sentimenti di temperature differenti e forse proprio questa consapevolezza mi sostiene ogni giorno nella ricerca di quell’equilibrio necessario tra ciò che rischia di diventare ideologico, come la “diversità che insegna” e lo schiacciamento depressivo del tipo “nessuno può capire”.

Dopo molti anni, soffro ancora molto quando ti vedo in affanno a misurarti con limiti enormi che rendono faticoso ciò che per la maggior parte delle persone può essere impensabile e con quelle sfide quotidiane che vorrei ti venissero un po’ risparmiate.

Ma, al tempo stesso, il tuo buonumore, la tenacia e la dominante volontà di continuare a provare, imparare e sperimentare, non smettono di indicarmi direzioni di senso assai importanti o, per dirla con Castaneda, la via del cuore.

“Questa strada ha un cuore?” Tutte le strade sono eguali. Non conducono in nessun posto. Ci sono vie che passano attraverso la boscaglia, o sotto la boscaglia. Questa strada ha un cuore? E’ l’unico interrogativo che conta. Se ce l’ha è una buona strada. Se non ce l’ha, è da scartare.” (Carlos Castaneda, Gli Insegnamenti di Don Juan)

Così, nel tempo, ho imparato a cercare nuove misure e, soprattutto, nuovi interrogativi e piste di ricerca. Cosa ti piace fare e cosa ti da’ gioia? Qual’è la tua essenza profonda? Quanto riusciamo a raccontarci nel nostro silenzio e nell’intreccio dei nostri sguardi? Cosa ti ho insegnato e cosa mi hai insegnato?

Io e te, instancabili viaggiatrici, siamo il risultato del nostro incontro e, con tutti i nostri limiti e le nostre vie ancora da percorre direi che per oggi possiamo fermarci un attimo, a goderci, magari anche stupendoci, ciò che finora abbiamo raccolto nello zaino della nostra storia.

Guarda cosa ho trovato Luna!

Amori delicati

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di Irene Auletta

Stamane inizia una settimana di centro estivo Tma (terapia multisistemica in acqua), ricco di proposte e di belle iniziative. 

Durante i preparativi della mattina sei attenta e curiosa ma in auto, nel tragitto verso il Centro, diventi subito seria e, giunta a destinazione esprimi, come fai sempre, la  tua ambivalenza tra andare e resistere. 

E’ facile confondere questo comportamento eguagliandolo a quello dei bambini piccoli e ci vuole ogni volta forza, costanza e competenza, per guardare altrove. 

In una vita dove e’ difficile, se non impossibile,  prefigurarsi i cambiamenti, risultano particolarmente importanti il rispetto dei tempi e i relativi necessari assestamenti. L’equilibrio tra l’attesa e la sollecitazione però, per me, non e’ affatto cosa semplice perché spesso ti vedo imprigionata nella difficoltà di andare oltre la tua stessa “presa di posizione” e allora la sensazione di forzare, a volte, sembra prendere il sopravvento sulla tua volontà. 

E così, con un po’ di disagio nello stomaco e le solite domande spalancate ti lascio al cancello mentre mi guardi serissima, ancora indecisa sul farti convincere ad entrare. Se tu sei ambivalente in queste situazioni io lo sono ancora di più, al limite del dissociata. La testa mi richiama con fermezza alla tua età, al bisogno di proteggerti meno e di forzare un po’ la mano, mentre il cuore mi trova sempre un po’ smarrita e incerta.

Tante volte, pensando ai genitori dei bambini piccoli, ho detto che vanno accolti con delicatezza e pazienza, come “genitori piccoli” che devono ancora crescere nel loro ruolo. I genitori con figli disabili adulti, pur non essendo genitori piccoli, molto spesso riflettono la fragilità dei loro figli e penso vadano trattati con cautela, riconoscendo dietro apparenti fermezze, insicurezze ed  emozioni tanto delicate.

Si, anche ora io mi vedo proprio così come un tuo riflesso, mentre guardo emozionata la foto ricevuta, che trattiene il divertimento e l’allegria.

Ombra e luce. Destino imprescindibile della relazione con te. E poi, ombra e luce non sono i volti della Luna? 

Distanze a colori

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di Irene Auletta

Ci sono esperienze uniche che, nella maggior parte dei casi, possono comprendere profondamente solo le persone che le attraversano. 

Ti penso lontana e ti incrocio nelle immagini e nei racconti degli educatori. Una figlia come te manca nella carne prima ancora che nel cuore e forse questo e’ ciò che può rendere difficile quel passaggio di separazione che non può avvenire “naturalmente”. O forse sarebbe meglio dire, spontaneamente, da parte del diretto interessato che prende pian piano le distanze dalla sua famiglia per muoversi da solo nel mondo.

Il problema per me non è la lontananza e neppure la fiducia, ma la delega della cura. Quella cura che traduco sempre con le parole di don Milani “mi sta a cuore”. 

Ho imparato, e imparo ogni giorno, che la cura può avere differenti sfumature e questo e’ ciò che la rende preziosa. Nessun operatore deve o può imitare i genitori ma non per questo la sua cura risulta automaticamente meno “di cuore”. Al contrario, se la stessa e’ guidata da sapere e competenza, può tradursi in quel valore aggiunto che nutre nuove esperienze, importanti e insostituibili.

Oggi al tuo ritorno, per motivi di lavoro, non potrò esserci ad aspettarti e già mi pizzica il cuore. Non ci sarà neppure babbo e, per la prima volta, dopo una settimana di vacanza, rientrerai a casa senza di noi e sarai tu ad aspettarci.  In questi tempi sono tante le prove che stiamo affrontando, noi tre insieme, e anche questa sicuramente ci farà scoprire qualcosa di nuovo.

Sei grande ormai. Ma a chi lo sto dicendo? A te o a me? Forse neppure importa.

Aspettiamoci amore e continuiamo a tenerci forte nel cuore, dando alla cura la possibilità di sfoggiare tutti i suoi colori più brillanti. 

Dialoghi e battiti

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di Irene Auletta

Tutti gli organi hanno bisogno di cura e il corpo trae indubbiamente beneficio da un virtuoso dialogo con loro. Ehi polmone stai meglio dopo le nostre camminate? E poi ormai sono parecchi anni che ho smesso di fumare, lo senti? E voi amici reni, intestino e dintorni, vi accorgete della cura a voi destinata? 

Che dire di tutti gli altri in fila in attesa di battute e commenti? Il dialogo prosegue seguendo dettagli, in tante forme, alcune anche assai spiritose finché non si arriva al cuore. Organo delicato, protagonista di poesie e metafore, vicino ai nostri pensieri forse più di tutti gli altri organi. 

Può essere che tutti noi ci rivolgiamo direttamente a quelli che sentiamo più fragili o a quelli malati ma, il cuore, mi pare essere il protagonista assoluto sulla scena.

Forte, spezzato, da leone, debole, frizzante, pesante. Il cuore del mal d’amore, del battito per gli amori fragili, delle battaglie per la vita e delle emozioni gentili.  

Eccolo lì, come mi ritrovo a pensarlo affettuosamente da qualche tempo, il mio cuoricino, di cui prendersi cura e che ogni tanto mi rimprovera di sentirsi troppo bistrattato. Ci sono periodi così nella vita, gli racconto paziente, e forse il passare degli anni inevitabilmente aumenta la conta delle persone care che si ammalano, invecchiano, muoiono. 

E il cuore patisce, si stringe, ti pizzica forte fino agli occhi. 

Allora, appena possibile, non resta che scappare di fronte ad un orizzonte aperto e fare un gran respiro. Ma di quelli lunghi lunghi. 

Resisti cuore, nutriti di questo bello pieno di speranza e di vita e tieniti forte più che puoi. Da te dipende parecchio per sostenere quegli occhi anziani, quel sorriso più caldo e antico della memoria, quell’incontro che profuma amorevolmente di casa e quell’abbraccio che ogni giorno mi orienta verso l’essenza.

Eredità che cura

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Ragazza seduta (con la mano sul cuore), 1938 Casorati Felice

di Irene Auletta

Era da parecchio tempo che non vedevi in nonni e, vista la particolarità dell’incontro, interpreto le tue reazioni un po’ sopra le righe come una comunicazione di emozioni arcobaleno. 

Vuoi stare e vuoi andare, mi tiri e mi spingi, ridi e ti innervosisci. Dopo poco mi fermo un attimo. Va bene Luna ho capito che qualcosa ti sta creando qualche difficoltà, ma cosa?

E allora iniziano i miei primi timidi tentativi di capire fino a quando, spostandoci dal gruppo degli altri presenti, ci riprovo guardandoti forte negli occhi. Ma senti amore, sei agitata perchè vedi la nonna così? Rimani ancorata alla domanda e con lo sguardo serio, dopo qualche secondo, rispondi con il tuo cenno di assenso. E io, finalmente capisco.

Quasi come per magia, dopo questo scambio, pian piano ritrovi quiete e serenità e mi accorgo, ancora una volta, della difficoltà a riconoscere la forza di quello che ti raggiunge e attraversa, insieme al tentativo di condividerlo spesso frustrato.

Hai ragione tesoro, penso prendendo anch’io contatto con il cuore pesante che ha accompagnato anche me durante l’incontro, tra le mille cose che ti rendono così unica, per te è proprio impossibile mentire o celare con un comportamento di circostanza quello che ci addolora o disorienta.

Ancora una volta, provando a capirti e a consolarti, mi hai aiutato a gettare luce su qualcosa che a volte, per non soffrire, viviamo frettolosamente. Rimaniamo un attimo vicine, con le mani sul cuore dell’altra, provando a raccontarci in silenzio di quelle onde che le parole non posso spiegare.

Per te, che vivi radicata nel presente, il ricordo sembra svanire facilmente, o almeno, solo questo ci è dato capire degli insondabili processi della tua mente.  Così ti godi felice il resto della giornata all’aperto, facendo quello che più ti piace, tra sole, vicinanze del cuore e leggerezza.

Solo a fine giornata, quando tutto tace e la notte ha coperto gli ultimi spiragli di luce, ripenso a quello starti accanto che spesso mi fa sentire tutta l’ambivalenza dell’esperienza in un labirinto. Lo smarrimento dei falsi riflessi e le delusioni delle vie impossibili unite alla sorpresa per le scoperte inattese e la bellezza della luce che indica chiara la via d’uscita.

Oggi e sempre mi rimane in bocca un gusto dolceamaro e scivolo nel sonno con le parole che mia madre, prima di perdersi nel tempo, mi ha lasciato come preziosa eredità.

La cura è difficile e faticosa, fatti aiutare dall’amore.

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