Educazione virale

Lascia un commento

di Irene Auletta

In effetti non ci avevo pensato fino a quando i commenti di alcuni genitori non mi ci hanno fatto riflettere. Da oggi, scuole di ogni ordine e grado chiuse in molte regioni. Ma i bambini e i ragazzi cosa stanno capendo e assorbendo di quello che sta accadendo? Alcuni raccontano di manifestazioni di paura, di domande continue, di vero e proprio panico. Altri di apparente totale disinteresse.

Ieri, in una trasmissione televisiva, ho ascoltato ragazzi delle scuole medie superiori esprimere senza alcun dubbio la loro idea di chiudere le frontiere. Ma quali frontiere? Terra, aria, mare? 

Mai come in questo momento credo che sia importante, per la questione specifica, affidarsi e fidarsi degli esperti. Al primo posto epidemiologi e virologi.

Ma noi tutti, nel nostro ruolo di genitori, educatori, insegnanti, pedagogisti abbiamo qualcosa che possiamo fare, banalmente per non lasciare soli bambini e ragazzi in questa situazione e, soprattutto, per proteggerli il più possibile da comunicazioni distorte, allarmiste e a volte incomprensibili o contraddittorie.

L’ansia dilagante tocca con forza il nostro rapporto con la fragilità e l’imprevisto, con tutto ciò che sfugge al nostro controllo. Oggi più che mai il rapporto con la vulnerabilità sembra diventato un tabù.

Togliamo un po’ di veli e come adulti assumiamoci la responsabilità di aiutare bambini e ragazzi a capire, non sottovalutando tutto ciò che in questi giorni probabilmente li ha già raggiunti e investiti senza alcun filtro.

Ma tanto i bambini non hanno ascoltato … I ragazzi pensano ad altro! 

Lasciamo in soffitta queste vecchie frasi ricorrenti e rimbocchiamoci le maniche che l’educazione, proprio in questi giorni, ha parecchio da fare.

Slogan o nuovi orizzonti?

Lascia un commento

di Irene Auletta

Mamma ma quella è disabile? A dirlo è una bambina di circa sette, otto anni che viene velocemente rimbrottata e azzittita dalla madre come se io e te non le fossimo di fronte, a meno di un metro di distanza.

Per un’interessante associazione di idee penso al cartello visto di recente alla Città dei Robot, mostra‑evento milanese con show e animazioni interattive, dove siamo stati a curiosare. Affissa in bellavista alla biglietteria,  una comunicazione rivolta al pubblico anticipava in modo assai autorevole che gli addetti alla mostra si riservavano di mandare via i bambini maleducati. Si, proprio così, virgola più, virgola meno.

Ma che fine hanno fatto gli adulti? Una comunicazione di questo genere sembra ignorare completamente la presenza di quegli accompagnatori indispensabili per accedere a un contesto di questo genere. Ma del comportamento dei bambini non dovrebbero essere responsabili i genitori o chi, al loro posto, li accompagna?

Allo stesso modo, ho pensato all’occasione persa da quella mamma che ha ignorato la domanda della figlia quasi sicuramente inconsapevole dei suoi insegnamenti. Uno, che non si può domandare di fronte all’evidente diversità. Due, che nel tentativo di evitare un’offesa, e lo dico nella migliore delle ipotesi e con un atteggiamento positivo, le persone coinvolte, io e mia figlia, possono essere totalmente ignorate.

Anche in questo caso l’adulto che figura ci ha fatto? Quella madre ha perso davvero la possibilità di rivolgersi a noi con rispetto e attenzione, magari chiedendoci di aiutarla nella risposta e offrendo a sua figlia un buon esempio di quell’inclusione tanto nominata ma ancora altrettanto difficile anche solo da intravedere. Peccato per loro.

In questi giorni si stanno rincorrendo sul social media post che riportano la frase scritta su una sedia donata da un Centro per disabili al Presidente della Repubblica. “Quando perdiamo il diritto di essere differenti perdiamo il privilegio di essere liberi”.  

Noi adulti però lo sappiamo bene che la parola libertà lasciata lì da sola, rischia di sfiorire in un attimo. E’ solo l’abbraccio con la responsabilità che può restituirgli nuove ali e, in questa direzione, genitori, educatori e insegnanti, spero proprio che riescano a individuare nuovi orizzonti e che quella frase piena di like non diventi ben presto solo un slogan privo di senso.

Lontananze di vita

Lascia un commento

 

di Irene Auletta

E così anche quest’anno  sei riuscita a fare la tua piccola vacanza lontana da noi e, ancora una volta,  il tuo rientro detta quei tempi che, negli anni, mi hai insegnato a rispettare. Subito riesci ad avvicinare tuo padre, in un saluto di bentrovato, ma con me i tempi si allungano sempre un po’.

Io ti comprendo e rispetto, forse perchè in questo ci assomigliamo e perchè credo con forza che gli incontri importanti meritano cura, cautela e rispetto dei tempi. Così, mentre sei sdraiata sul divano e io sembro una trottola a  sistemare qua e là le tracce delle nostre vacanze, la tua e quella mia e di tuo padre, ogni tanto ti passo acconto e ci scambiamo uno sguardo, un sorriso, un bacio leggero.

In questo momento provo un senso di grande gratitudine per gli educatori che ti hanno permesso questa distanza e stavolta, voglio proprio trattenerlo in queste parole rivolte a loro. Voi lo sapete bene che Luna non potrà mai neppure lontanamente aspirare a quelle che in gergo nominiamo spesso come autonomie. Eppure Luna, come tanti suoi compagni di ventura, potrà viversi tante piccole esperienze lontano dai suoi genitori e dalle solite routine della sua vita, proprio grazie a nuove dipendenze che, in quanto nuove, le permetteranno di vivere esperienze diverse. Questa, è la sua autonomia possibile  e per questo voglio ringraziarvi di cuore.

Lo so che fate il vostro lavoro ma, come mi ha ricordato di recente un’altra educatrice, le responsabilità che vi assumete in questi giorni lontani da casa e dal Centro, non sono da dare per scontate. In questi giorni un pò bui,  in cui sembriamo molto più capaci di fare gli elenchi di tutto ciò che non funziona, che manca, che è imperfetto, io voglio raccontarvi come persone che rendono possibili esperienze belle e virtuose. Noi siamo fortunati perchè, ancora oggi, in molte regioni del nostro stesso paese, queste storie sembrano quasi fantascienza ma, laddove accadono e vengono trattenute, possono diventare occasione per sottolinearne il valore e un contagio sempre possibile. Io ci credo. 

Non farò i vostri nomi per rispetto di quella privacy che ritengo giusto mantenere, ma voi sapete chi siete e quindi, grazie ancora, ad ognuno di voi.

Nel frattempo mi permetti di avvicinarmi ogni volta un po’ di più. La nostra distanza assomiglia tanto alla nostra vita. Fa male e fa bene, preoccupa e risplende, ci pizzica un po’ il cuore aiutandoci a diventare grandi, madre e figlia. 

Nei prossimi giorni, avremo modo di raccontarci nei riflessi dei nostri occhi. Per ora, bentornata figlia del mio cuore.

Apologia dell’intelligenza

Lascia un commento

di Igor Salomone

Proviamo a ragionare. Se dico o scrivo che la pedofilia (o l’omicidio, lo stupro, il cannibalismo) ha i suoi lati positivi, commetto un reato? Non sono un giurista, ma a occhio direi di no, altrimenti chiunque provasse a fare un ragionamento attorno a qualcosa di esecrabile, rischierebbe la prigione: uccidere con un bagliore infuocato centomila persone può essere un crimine, ma nessuno ha perseguito tutti quelli che si sono dichiarati favorevoli alla bomba nucleare sganciata su Hiroshima (e se è per quello neanche chi l’ha sganciata e chi glielo ha ordinato). 

Certo, se proclamassi il diritto di ognuno a praticare la pedofilia e addirittua incitassi a farlo, probabilmente sarei in zona reato. Ma il confine tra il ragionare attorno a qualcosa e indurre dei comportamenti concreti è sottile e per stabilire quando questo confine viene superato producendo un comportamento illegale e perseguibile, ci vuole un giudice. O anche più di uno. 

Ma non è che un’idea orribile deve per forza essere un’idea illegale.  Stiamo rapidamente dimenticando che etica e legalità sono due cose affatto diverse. E c’è un buon motivo per questa amnesia collettiva: per decidere cosa è eticamente corretto e cosa no occorre impegnarsi nella faticosa pratica del pensiero e, peggio ancora, dell’assunzione di responsabilità. Per decidere cosa è legale o no, invece, è sufficiente ricorrere a un giudice e pagare un (buon) avvocato. 

A me non frega un accidente se l’apologia del fascismo è illegale oppure no. A me i gruppi dichiaratamente nazifascisti, le case editrici che pubblicano collane di libri inneggianti al fascismo, i negazionismi, i saluti romani, fanno semplicemente schifo: sono moralmente esecrabili, storicamente pericolosi, esteticamente grevi, fisicamente privi di spessore.  Non ho bisogno di una legge che vieti chi vomita insulsaggini su Mussolini e vent’anni della nostra storia, ho bisogno di chi, come Antonio Scurati, mi aiuta a capire cosa l’uno e l’altra hanno lasciato nella coscienza di tutti noi e di cui dobbiamo ancora liberarci.

Vietare per legge opinioni che dovresti allontanare con disgusto, invece, è estremamente pericoloso perchè la prossima opinione a essere vietata potrebbe essere la tua.

Le ombre di domani

Lascia un commento

di Irene Auletta

Cosa strana, ti svegliamo noi mentre fuori è ancora buio. Non lo realizzi subito, ma quando usciamo il tuo buonumore è evidente perchè l’albeggiare segnala una novità che ti piace, in questa nostra partenza al sorgere del giorno.

Come facciamo a spiegarti quello che sta per accadere quando tu sfoggi il tuo migliore sorriso dedicato alle nostre uscite per gite fuori porta? Proviamo a raccontartelo ma senza troppo insistere, consapevoli che le parole possono disperdersi. L’arrivo in ospedale ti vede già seria e quando entriamo in camera il sospetto si legge nei tuoi occhi anche se l’umore sembra celare una reale consapevolezza dei prossimi eventi.

Come già accaduto in questi casi, il babbo ti accompagna fin dentro la sala operatoria e ti lascia solo quando l’incoscienza dell’anestetico ti porta in un mondo altro. La tua fragilità, proprio in quel momento, esplode quasi in mille scintille che ci raggiungono impotenti e in attesa del tuo ritorno.

Quando ti vedo arrivare, ancora incosciente, i pizzichi al cuore mi segnalano fiducia e così, io e tuo padre, rimaniamo al tuo fianco per tutto il tempo del risveglio che oscilla tra quell’onirica sedazione e la realtà che, pian piano, torna a farsi strada nella tua coscienza.

Naturalmente, appena torni Tu, in un’attimo ti strappi la flebo insieme all’evidente intenzione di uscire dalla stanza. 

Si, mi rendo perfettamente conto del fatto che per una ragazza come lei sarebbe meglio tornare a casa, ma purtroppo le nuove procedure sono queste. Solo due anni fa, nello stesso ospedale e per lo stesso intervento le cose stavano diversamente. La dottoressa, come se io non fossi lì a meno di un metro da lei, dice all’infermiera che fanno presto gli “altri”, che poi sono i suoi colleghi, a consigliare le dimissioni. Tanto poi è lei che deve firmare ed assumersi la responsabilità!

Se questo è il problema firmiamo, dico senza il minimo di esitazione, ma con quel peso che chiede una scelta rispetto alla quale vorremmo almeno essere rassicurati in merito alle condizioni sanitarie, peraltro di loro competenza. Si, è chiaro però, mi dice sempre la dottoressa in questione, che noi decliniamo qualsiasi responsabilità.

Usciamo e tu sei già più serena, seppur provata dall’esperienza. Non mi aspettavo una condivisione di responsabilità ma mi avrebbe fatto molto piacere una piccola rassicurazione. Cosa sarà cambiato in soli due anni? 

Penso a quanto, per le persone come te, si parla tanto del DopodiNoi e oggi mi accompagna una nuova domanda. Ma dopo di noi, chi avrà il coraggio di fare delle scelte pensando solo a te e non alla tutela di se stesso?

Il nuovo giorno porta quella luce che appare ancora più dolce perchè capace di dissolvere le ombre del cuore. Gli interrogativi per ora, insieme a me, possono riposarsi un attimo. Me ne occuperò domani.

25 novembre, sempre

Lascia un commento

di Irene Auletta

“Le parole a volte si ingolfano, altre si consumano. Altre volte ancora arrivano in ritardo e non servono più a dire quel che volevano.”  (Mi sa che fuori è primavera di Concita De Gregorio)

Ieri ho ascoltato, quasi in religioso silenzio, i vari interventi che si sono alternati nella seduta straordinaria di Montecitorio, nel rispetto delle testimonianze portate da ciascuna donna.

Mentre mi è parso quasi naturale che le voci plurali comprendessero interventi politici o di specialiste impegnate a vario titolo intorno al tema, Contro la violenza sulle donne, ho trovato interessante la scelta di dare la parola anche ad altre donne, esse stesse vittime di violenza. In particolare, ancora una volta, mi hanno colpito i dati snocciolati con attenzione puntuale e le forme crudeli con cui la violenza e’ stata nominata e identificata. Violenza domestica, vendette “amorose”, stalking, omicidi.

Al femminicidio ha fatto eco il figlicidio, anche qui dati inquietanti, come modo di fare violenza alla donna uccidendo il figlio. Quindi uomini che accecati dalla violenza, dimenticano il loro essere padri o comunque, lo fanno passare quasi in secondo piano, uccidendo il proprio figlio per punire la donna. E come madre, rimango in silenzio, immaginando il dolore.

Per me, di fronte ad alcune enormità, è sempre molto difficile esprimere di getto valutazioni e sicuramente, con il passare degli anni, mi sento molto distante da chi sembra avere subito le idee chiare su tutto e un giudizio in punta di lingua pronto per essere espresso.

Dal mio osservatorio di donna e di professionista impegnata in relazioni di aiuto, so bene che le sfumature dell’umano ci costringono ad avvicinarci a pensieri e azioni a volte impossibili anche solo a dirsi. Trovo tuttavia che sia un dato di civiltà e maturità smetterla di utilizzare come lente di comprensione degli eventi complessi e gravi “la caccia al colpevole” e spostare lo sguardo verso la ricerca di responsabilità. Individuali, sociali e culturali.

Oltre ogni ragione ci sono persone, mondi e storie. Provare ad accoglierle e ascoltarle, in tutte le loro sfumature, senza l’urgenza di aggiungere la nostra personale sentenza, può essere un modo per fare cultura, provando a capire e soprattutto, ad assumersi ciascuno la propria responsabilità. Come donne, uomini, professionisti e, soprattutto, adulti.

La violenza sui più deboli e’ ahimè storia assai antica dell’umanità, ma mai come oggi gli adulti sono in scacco rispetto alla loro assunzione di responsabilità. Potremmo partire proprio da qui, per leggere con lenti multifocali la complessità delle storie e degli eventi?

Addio Luchino

1 commento

 

 

In morte del comandante Maino

“Mi faresti parlare un’oretta con i tuoi?”, mi avevi chiesto una quindicina d’anni fa quando ancora giravi per le scuole a parlar di Resistenza.
“Sto preparando una lezione sull’8 settembre che devo fare nei prossimi giorni, e vorrei provarla”
Ero a Torre degli alberi, la tua reggia di sempre immersa in una collina densa di serenità in tutte le stagioni, e conducevo uno dei tanti seminari per aspiranti consulenti pedagogici che in quegli anni tenevo alla “Costantina”. Proprio a due passi da casa tua.
Ti avevo conosciuto anni prima, poco più che ottantenne, praticamente un giovanotto, appena reduce da una frattura al femore che ti eri procurato cadendo da una moto. L’incidente ti aveva lasciato solo un incedere leggermente zoppicante, per il resto eri attivo e forte come una roccia. Sapevo già del tuo passato partigiano, ma non avevamo ancora avuto occasione di parlarne, anzi, di sentirtene parlare.
Quel giorno mi cogliesti alla sprovvista. I “miei”, come li avevi chiamati, erano reduci da due giornate intense di lavoro seminariale che li aveva occupati anche la sera precedente, quindi chiedergli di occupare un’altra sera mi preoccupava. Temevo non avrebbero retto o che si sarebbero defilati. Del resto nessuno di loro sapeva chi fossi e chi ha voglia di ascoltare, dopo una giornata di duro lavoro, vecchie storie ingiallite dal tempo?
Poi parlasti, e i volti un po’ scettici e un po’ seccati che ti stavano fissando si trasformarono con la stessa rapidità con la quale raccontasti il crollo del tuo mondo all’indomani dell’8 settembre 1943. Stupore, rabbia, commozione, ammirazione, il gruppo era una tavolozza di emozioni che annodava le gole e inumidiva gli occhi. La tua voce salda, profonda, autorevole, le parole dirette, chiare che snocciolavano fatti impensabili eppure accaduti, la tua postura in mezzo a noi e radicata in in un altro mondo, avevano sospeso il tempo. Non avevamo idea di quanti minuti-ore-anni fossero trascorsi, ma quando terminasti ci sentimmo tutti più piccoli, molto più piccoli.
“Secondo voi può andar bene?”, ci chiedesti alla fine. Non ricordo cosa rispondemmo.
Quel giorno ho imparato molto sulla dignità. Sulla dignità che va raccontata e sulla dignità del racconto. Ho anche imparato molto sulla responsabilità che convoca ognuno di noi sempre, anche e sopratutto davanti al tracollo di ogni punto di riferimento, quando non c’è più nessun Re e nessun Dio a cui dar conto delle proprie scelte e rimane solo la tua coscienza. Ho imparato molto, infine, sulla solidarietà capace di oltrepassare le barriere ideologiche, sociali, di lignaggio e che ti spinge a fare il tuo dovere quando hai deciso quale sia il tuo dovere.
Sei stato un Maestro, Luchino e anche se sono ormai molti anni che non ci frequentiamo, mi mancherai. Mi mancherà sapere che un uomo come te è comunque lì da qualche parte a condividere il senso di questo mondo faticoso e difficile. Mi mancherai e farò del mio meglio per raccogliere quel che posso della tua eredità.

Con gratidudine e affetto
Igor

Salvarsi

7 commenti

salvarsidi Nadia Ferrari

Ci si trova sempre più spesso come insegnanti a confrontarsi con problematiche che vanno al di là dalle competenze richieste per svolgere la propria professione. È ormai consuetudine fare prove per manovrare svariati strumenti per la sicurezza, estintori, naspi idranti, ecc. al fine di saperli usare nel momento dell’emergenza. Negli ultimi anni a scuola ci si confronta con bambini affetti da patologie gravi che chiedono la somministrazione costante di farmaci, anche salva vita, affinché venga garantita la normale frequenza scolastica. Non ricordo negli anni passati l’esistenza di tali problematiche, forse certe malattie erano meno presenti nell’infanzia o forse più semplicemente la scuola non se ne faceva carico. Ipotesi entrambi poco confortanti.

È successo di nuovo in questi giorni mi sono trovata a dover decidere se dare la mia disponibilità di docente alla somministrazione dei farmaci sopra descritti o se declinare. Decisione sempre molto dolente in quanto sia che tu decida di accettare, sia che rifiuti, ti precipitano addosso responsabilità diverse nel contenuto ma ugualmente pressanti e pesanti. Il desiderio che per primo si è affacciato alla mia mente è stato quello di delegare; tanto c’è sempre qualcun altro nella scuola che, per maggiore senso del dovere o perché non sa dire di no o perché il problema lo riguarda più da vicino, deve acconsentire. La mia resistenza poi è passata allo stadio successivo che riguarda il diritto per una volta di non esserci: l’ho già fatto, avanti i giovani, ci sono quelle che non prendono mai incarichi e via dicendo. Devo dire che quest’ultima deriva affolla oggi (dopo quarant’anni di lavoro e per motivi anche giustificati) diversi ambiti della mia fatica a portare avanti il carrozzone sul quale io mi sento giunta al capolinea.

Ed infine arriva la paura. Noi docenti non abbiamo competenze né mediche né infermieristiche ci verrà fatto un breve corso di formazione e istruzione su come somministrare il farmaco centrato sulla capacità di effettuare rilevazioni, iniezioni sino al riconoscere i sintomi che indicano la necessità di un intervento di urgenza al punto da richiedere la somministrazione del salva vita, l’intervento richiesto sarà quotidiano e la responsabilità grande! E se sbagliamo? Alle insegnanti oramai si chiede di tutto e di più: essere maestre, infermiere, psicologhe, mamme, tecnici informatici e della sicurezza, a volte anche confessori e preti, ma alla fine cosa è legittimo faccia un insegnante?

Fatto sta che quando nella mia personale e solitaria riflessione stanno per sopra valere tutte le argomentazioni di “servizio” o di “disservizio” relative al ruolo rafforzate dal corollario dei “non tocca a me, ci dovrebbe essere…”, compaiono i bambini o gli allievi che dir si voglia a cui quei farmaci servono per sopravvivere nel tentativo di proseguire un’esistenza simile a quella degli altri fortunatissimi compagni.

Allora non ho più scampo.

Ci sono bambini costretti a sottoporsi quotidianamente a rilievi del sangue (bucando il ditino anche sette volte al giorno) con l’aggiunta di svariate iniezioni in diverse parti del corpo. Ci sono bambini costretti a non assaggiare mai un gelato, un biscotto, una caramella … Ci sono bambini che non lo sono più! Nel tempo impareranno da soli a gestire un’esistenza non certo facile ma oggi, ora, possiamo togliere loro il diritto di venire in questo luogo meraviglioso che chiamiamo scuola a giocare, litigare, gioire e soffrire dei limiti e delle opportunità come tutti gli altri? Possiamo togliere loro la possibilità di sentirsi uguali?

Faccio il corso ed incontro medici e infermiere preparatissimi che spiegano con semplicità facendoci comprendere che l’impresa non è impossibile. Ci fanno provare, e mettono a disposizione tutta la loro disponibilità per sedare ogni nostra paura. Mi sento metaforicamente abbracciata e sostenuta. Emerge una coscienza del dovere naturale sbiancato da sovrastrutture e si rimette al centro il senso del problema: la responsabilità di ognuno di noi di fronte alla vita. Scorgo tra le pieghe degli sguardi dei genitori di questi bimbi il dolore che ancora li attanaglia insieme alla voglia di farcela a dare ai loro piccoli un’esistenza il più vicina possibile al normale. Indossano sguardi di gratitudine, loro, che il problema ce l’hanno addosso! Mi sento piccola.

Ascolto con meraviglia le strategie educative che hanno inventato per far accettare ai loro cuccioli le cure: Il pancino è come un orologio e ogni giorno facciamo la punturina ad un’ora diversa. Pensate che ha già imparato a leggere le ore! Cercano di tranquillizzarci in ogni maniera non vi preoccupate se non vi ricordate questa cosa la nostra bimba (4 anni) la sa fare vi dirà lei come si fa. Lezioni di vita alle quali non si può restare indifferenti. Penso a quante volte ci lamentiamo sia come insegnanti che come madri per un nonnulla. La partita non è pari.

Ci stiamo lasciando quando mi si avvicina un padre e mi sussurra che il buchino sul dito alla sua bambina possiamo farglielo anche di lato perché a lungo andare si perde la sensibilità nei polpastrelli … sarebbe un gran regalo per lei. A stento trattengo le lacrime ancora adesso che scrivo. La commozione non mi ha permesso di rassicurarlo ma lo faro!

Ora so meno di prima cosa debba essere un’insegnante e che ruolo debba avere, ma in questo momento ho una consapevolezza: sono contenta di aver dato la mia disponibilità e di essermene assunta la responsabilità, almeno un poco, regalando loro un briciolo di serenità, per quanto questo possa valere.

Ma per seguir virtute e canoscenza

Lascia un commento

siria-greta-vanessa-fiumicino-6751
.

“Un Paese che non riesce a mostrare solidarietà verso due ragazze sequestrate rischia di essere un Paese fallito, che fa vincere il livore, la rabbia, l’idiozia”. Roberto Saviano oggi su Repubblica nell’articolo significativamente intitolato “L’odio per il bene”. Massimo Gramellini, a contrappunto, scrive sulla Stampa, sempre di oggi, un pezzo dal titolo “La parola vigliacca”, e confessa amaramente di vedere nel tasto invio del proprio computer, un nemico.

Il livore, la rabbia, l’idiozia. Le parole fatte a pezzi e lanciate in Rete senza alcun filtro. Il bisogno di distruggere qualsiasi cosa in un impeto nichilistico irrefrenabile. Il rifiuto di ogni sia pur minima forma di rispetto. Questi sono i tempi che abitiamo, sembrano dirci i due giornalisti, e sono tempi che fanno paura. Siamo di fronte a una crisi di etica? è probabile. Ci vuole molta più disciplina nell’affrontare le cose con virtù, che sparare a zero sulle virtù degli altri. Vorrei poter dire però che smontare le virtù altrui, non rende affatto virtuosi, anche se può sembrare una scorciatoia per esserlo.

Ma non sono del tutto convinto sia un problema di rarefazione dell’etica. Non solo per lo meno. Riconosco in me la spinta profonda alla critica serrata. Non mi sono mai piaciute le superfici delle cose: ciò che appare, appare, appunto e, nel farlo, cela qualcosa d’altro che ho sempre caparbiamente voluto indagare. Non mi piace l’ovvio e sento il bisogno prepotente di smontarlo, quando lo incontro, per poterlo oltrepassare. MI fa star bene fare esercizio di critica, fa bene alla mia intelligenza come correre fa bene al mo fitness cardiocircolatorio. Capisco dunque il desiderio diffuso di non fermarsi all’apparenza di ciò che si vede e di ciò che si ascolta  per andare a vedere “cosa c’è dietro”. Mi chiedo perché, però, “dietro” ci sia sempre e solo merda.

L’esercizio della critica, come ogni esercizio, richiede disciplina. Correre dietro all’ovvio per dire cose altrettanto ovvie, è un esercizio di dubbia efficacia. Elencare con acribia  tutto il negativo che si può scorgere  nel positivo, nell’odiare il bene come dice Saviano, può farci sentire intelligenti, o anche soltanto più furbi, ma non è nemmeno cinismo, è pigrizia cognitiva. Perché è immensamente più facile elencare problemi che indicare soluzioni, spulciare difetti che trovare pregi, svalutare piuttosto che attribuire valore.

Siamo collettivamente e rapidamente entrati nel mondo del diritto universale alla parola. Tutti possiamo dire di tutto su tutti. E possiamo dirlo in modo che, potenzialmente, tutti possano sentirlo. Ogni nostro giudizio non è più destinato al confino del gruppo di amici, del bar, delle mura domestiche: con un “invio” va istantaneamente in mondovisione. Ora dobbiamo imparare che giudizio e responsabilità vanno a braccetto: senza capacità di giudizio, la responsabilità è semplice conformismo, ma senza responsabilità, e pazienza, e rispetto, e disciplina, insomma senza virtù, il giudizio diventa “livore, rabbia, idiozia”, o anche semplicemente stolida accidia travestita da intelligenza.

Orizzonti pensosi

Lascia un commento

malaladi Irene Auletta

Stamane pensavo a Malala Yousafzai che ha vinto il premio Nobel per la pace 2014 insieme a Kailash Satyarthi, “per il loro impegno contro la sopraffazione nei confronti dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini a un’istruzione”. A diciassette anni, Malala è la più giovane premio Nobel della storia.

Ci pensavo perchè sono giorni che rifletto sul senso di responsabilità e sulla difficoltà ad assumere e sostenere un pensiero collettivo anche a costo, o a rischio, di andare contro il proprio interesse individuale. Mi chiedo come possiamo tutti noi, aiutarci ad uscire dalle trappole di tanti slogan quotidiani che ormai, ahimè, sembrano vuoti, senza alcuna anima o significato. Quasi senza accorgercene la cultura del proprio interesse personale, dei propri affari è diventata dilagante e si è infilata nei pertugi delle vite, anche di quelle che forse hanno tentato una resistenza fedele.

Devo preoccuparmi del mio bene… Devo imparare a curare il mio interesse … Non vedo perchè occuparmi degli altri quando ognuno è preso solo da se stesso. Quante di queste frasi o similari ci sono diventate ormai familiari? E chi di noi non si è trovato nella condizione di volerle rivendicare anche un po’ per sè?

Il problema, sempre e ancora una volta, mi sa che ha a che fare con la misura. Non è quindi dire o pensare al proprio interesse o a quello dei propri cari ma, farlo diventare l’unico sguardo possibile e quello pervasivo in qualunque situazione e nei contesti più diversi. Ogni volta che sono in una scena professionale e sento la frase “la priorità è la mia famiglia”, non posso fare a meno di chiedermi cosa centra. Ogni vita attraversa tante scene e credo che ognuna abbia la propria peculiare priorità. Il problema forse è non confonderle e trovare modi possibili per farle dialogare.

Il fatto è che, proprio il lavoro, costringe ad un continuo confronto tra la sfera privata e quella pubblica in cui siamo immersi quotidianamente.

Una ragazza di diciassette anni capace di guardare al mondo, agli interessi altrui, oggi mi commuove.

Mi commuove perchè ho una figlia della stessa età che non potrà mai pensare il futuro e forse anche perchè mi trovo di fronte a tante scene quotidiane che mi sembrano risuonare all’unisono con la difficoltà degli adulti ad assumersi una responsabilità collettiva.

Mi commuove e mi fa paura. Come possiamo insegnare che lo sguardo al futuro è un respiro imprescindibile per qualcosa che va oltre i ristretti confini della nostra persona? Forse per deformazione professionale mi ritrovo spesso a pensare che anche in questo caso, sui piatti della bilancia potrebbe esserci la cura. Da una parte dei propri affari e dall’altra?

Sei troppo idealista, mi hanno detto di recente. Ci ripenso ancora stamane e mi dico che Malala sta insegnando al mondo che le idee, sono forti, preziose, importanti, soprattutto quando si è capaci di guardare lontano.

Direbbe Tata Matilda “lezione numero uno, appresa!”.

Older Entries