Gente così

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di Irene Auletta

In alcuni periodi la cura costante, unita ai tanti e vari impegni, occupa tutto lo spazio e proprio mentre penso che non scrivo da parecchio, Anna Maria rilancia un mio post di qualche mese fa.

Già stamattina leggendola sulla sua pagina Facebook pensavo a quante risonanze ritrovo ogni volta nelle nostre parole e, guarda caso, proprio oggi il tema della rabbia torna a bussare alle porte della nostra vita.

Penso a tante situazioni difficili che ci troviamo ad affrontare e che condividiamo e, ogni volta, rimango più muta di mia figlia. A questo pensavo qualche giorno fa, in seguito al bel ritrovo organizzato tra famiglie, grazie alla disponibilità di genitori stupendi, in occasione della giornata mondiale della sindrome di Angelman e spesso, dopo questi incontri, rimango per giorni in balia di malinconiche onde emotive.

Il dolore acuto dei primi anni ha lasciato posto a questi sentimenti più quieti. Il bello di ritrovarsi con tanti altri genitori, insieme ai loro figli, mi suscita sempre reazioni alternate. In situazione, provo un grande piacere e una spinta d’affetto e vicinanza assai speciale. A distanza mi sento travolta dai riflessi.

Per me Luna e’ mia figlia ed e’ talmente tanto lei da farmi lasciare sovente sullo sfondo tutto ciò che la attraversa e la circonda. Ma quando incontro gli sguardi, i gesti, i comportamenti, degli altri bambini e ragazzi, scoccano frecce di tanti colori, anche un po’ all’impazzata, che svelano, rivelano e ricordano.

Mi sento così anche leggendo le parole e i pensieri di madri e padri che, forse come me, sperimentano attraverso la scrittura una continua ricerca di senso e di strategie possibili per far fronte all’impossibile.

E se penso ad Anna Maria sapete cosa emerge sempre per prima cosa? La sua inconfondibile e contagiosa risata e il nostro dire va tuttobene, tuttobene! Si, compagna di bizzarre avventure, proviamoci sempre e, appena riusciamo, raccontiamocelo, per noi tutti che attraversiamo storie simili.

Anche solo per starci un po’ vicino.

Ruggiti del cuore

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ruggiti del cuoredi Irene Auletta

E ogni volta ci devo fare i conti.

Stavolta non è neppure accaduto in nostra presenza e questo di certo non facilita le cose. Non ci sono considerazioni razionali che al momento mi siano di aiuto e, al contrario, l’eccesso di spiegazioni, interpretazioni, ipotesi non fa altro che alimentare quel ruggito che nasce dalla pancia e che negli anni sto provando a domare.

Ti sei fatta male. Non mi importa come, quando e perché ma solo che non sei stata compresa e, mentre soffrivi senza riuscire a farti capire io non ero lì, vicino a te per provare ad aiutarti. Quando sono arrivata a prenderti i suoni intorno a me sono diventati immediatamente ovattati e il desiderio di portarti via al più presto di certo non mi avrà fatto brillare di simpatia. Così, per usare un eufemismo!

In alcuni casi è difficile far capire che tutte le parole dovrebbero essere sospese perché non c’è posto per contenerle e io, in tali occasioni, ho urgenza di silenzio. Appena ti vedo capisco subito che ti sei fatta male e che la tua apparente ostinazione a collaborare in realtà è solo un segnale per chiedere aiuto e per comunicare quello che ti è accaduto. Com’è facile di fronte ad una ragazza come te farsi travolgere da tante altre interpretazioni e come, ancora una volta, le tue impossibilità comunicative trasformano un episodio normale in una vicenda assai complessa.

Arrivate a casa piangi forte e mi pare di ascoltare dolore, rabbia, paura. In questo siamo uguali perché anche le mie lacrime di compagnia sono esattamente delle stesse tinte. In me non c’è pensiero quieto, ma una furia primitiva che ogni tanto viene a salutarmi forse per ricordarmi che è sempre lì, anche se riesco a contenerla meglio.

La tua insegnante Feldenkrais ha il grande potere di tranquillizzarci e sapere che quello che è accaduto non ha recato conseguenze gravi mi restituisce respiro. Vederti seduta sulla sedia a rotelle ogni volta mi fa sentire un pizzico alla pancia, anche se tu ridi beata di quella postazione che ti restituisce la possibilità di muoverti, in qualche modo. Dopo solo pochi giorni ho già nostalgia di quando ti rincorro per casa mentre, soprattutto per attirare l’attenzione, travolgi ogni cosa che incroci al tuo passaggio.

Deve passare ancora un po’ di tempo perché la burrasca nella mia anima si acquieti e, nel frattempo, abbiamo aggiunto un altro pezzetto al puzzle della nostra storia.

Essere tua madre, per me, non può essere che questo.

Essenze

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Dalle-profondità-del-Mediterraneo-l-organismo-più-antico-della-Terra-638x425di Irene Auletta

Bellissima lezione quella di ieri sera al gruppo Feldenkrais. L’insegnante ci presenta il lavoro annunciandoci un’esplorazione alla ricerca delle sensazioni legate alla coscienza dello scheletro. Mi sembra un enunciato assai interessante e siccome arrivo all’incontro molto stanca già mi pregusto il piacere della nuova scoperta, assaporandomi questa pausa preziosa che mi regalo una volta alla settimana.

Oggi mi ritorna spesso in mente, nelle parole e nelle sensazioni provate. E riemerge proprio in quel preciso momento lì.

Incontro tanti genitori con figli disabili, sto dicendo ad una madre, e molto spesso sento tanta rabbia nelle loro parole. La signora, madre di un figlio disabile adulto, da anni impegnata in progetti sociali e culturali sul tema, mi guarda dritto negli occhi. La mia non è rabbia, e’ disprezzo!

Sembra stupita quando le restituisco che si vede, perché la mimica e il tono della sua voce mi arrivano allo scheletro, intrecciandosi con le parole di Angela, la nostra insegnante Feldenkrais. Sentire lo scheletro parla di un ascolto molto profondo e delicato, perché parla del contatto con la propria essenza.

Mentre la nostra conversazione prosegue, dico qualcosa che evidentemente il mio interlocutore non gradisce o non condivide, interpretando forse in modo non corretto una mia dichiarazione di dispiacere. Io continuo così come genitore, dice sempre la signora con una punta di stizza, tu prosegui pure a fare il formatore!

Eppure, lei è la stessa persona che un paio di settimane fa ci ha tenuto a dirmi che aveva saputo che ero la “moglie di”, facendo ben comprendere quindi di sapere anche che sono la “mamma di”. E allora cosa e’ successo? Incontrandomi nei panni di un operatore mi ha trasformata immediatamente in qualcuno verso cui andare contro? Qualcuno che di sicuro non può capire?

Mi torna in aiuto l’ascolto dello scheletro di ieri sera, quel contatto con un se’ troppe volte trascurato e travolto dalle contingenze di un frenetico quotidiano. So bene quanta rabbia si incontra come genitore di un figlio disabile o malato e ogni volta mi ricordo che è l’altra faccia di quel dolore, che ogni giorno si cerca di far maturare, in una ricerca di significati che aiuti a non soffocare nella malinconia.

Stasera, mentre ti sono sdraiata vicino, giochiamo a sentirci lo scheletro e tu, forse direbbe Angela, da sempre anche tua insegnante, sei più brava di me a farlo anche se non puoi raccontarmelo. Io ci provo e mi auguro di incontrarlo senza rabbia e tantomeno disprezzo.

Lo spero non per salvaguardare gli altri o fingermi la buonista che non sono, ma per me e per te.

Lo spero per curare le nostre essenze, nutrirle di bellezza e proteggerle, al di la’ di quello che gli altri riescono a fare, con il calore dei nostri incontri che mi auguro non smetteremo mai di cercare.

Punti a tutti

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di Irene Auletta

E’ successo ancora. Una brutta scivolata unita alla tua goffaggine motoria e, in un attimo, sei a terra urlante. La tua prima reazione sembra sempre di sorpresa e, in ordine sparso, sopraggiungono il pianto di dolore, di rabbia e di offesa. Ancora?

Lo strappo e’ forte e ti costringe ad un giorno di immobilità per riprenderti dal male del corpo e dell’anima. Il compito di tuo padre diventa quello di dar voce e legittimare la rabbia acuta, il mio quello di accoglierti nelle sfumature di dolore che passano da te a me, anche nella condivisione del pianto.

Anche stavolta ci e’ andata bene e pian piano inizia la lenta ripresa dei movimenti e delle piccole autonomie che hai conquistato nel corso degli anni con grande tenacia.

Come a sperimentare il senso del limite provi a ripercorrere movimenti e piccoli spostamenti che all’inizio affronti quasi saltellando sulla gamba non compromessa dall’urto. Zoppichi ma insisti a provare fino a quando riprendi il controllo dell’arto dolorante. E insisti. Sali, scendi, pieghi, incroci alternando ai sorrisi per i piccoli successi una smorfia di dolore che ti segnala il limite da non oltrepassare. Noi ti lasciamo fare senza perderti di vista e tu ci sfidi con lo sguardo a dire “ce la faccio da sola, non aiutarmi più!”.

Non ti sei mai arresa negli anni e ogni volta torni con tenacia a non demordere. Ci consoliamo reciprocamente e tu mi riempi di orgoglio per il tuo coraggio unitamente all’ennesima lezione che anche stavolta mi raggiunge consolandomi, come una carezza.

Storie di ordinaria cattiveria

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ombredi Irene Auletta

E’ successo ancora. Video che gira in rete urlando indignazione, rabbia, sconforto, paura. La ripresa si sofferma impietosamente su maltrattamenti, verbali e fisici, inflitti ad un ragazzino disabile. Non vi sembra la stessa scena che non molti mesi fa riprendeva una badante che malmenava una signora anziana oppure quella di una madre decisamente poco amorevole con il proprio bambino di qualche mese di vita?

Da anni vado nominando soggetti e categorie a rischio di violenza che, non a caso, sono riconoscibili nei bambini piccoli, nei disabili e negli anziani. Soggetti che faticano a raccontare e, soprattutto, a difendersi. Provate a immaginare la stessa scena con adolescenti senza problemi e vi accorgerete che a rischio, potrebbero essere in questo caso gli adulti. Allargando il campo e la visuale, dentro e fuori i confini del nostro paese, a rinforzare le fila dei fragili, non mancano neppure le donne, sempre alla ribalta nelle scene di cronaca come vittime di una violenza che sovente non lascia scampo.

Eppure ogni volta sembra la prima volta e lo scandalo sembra raggiungere lo stupore di quanti immagino con la bocca spalancata a dire, davvero? ma come è possibile che accadano cose del genere? Gli stessi che magari hanno commentato tramite web o negli scambi di persona, esibendo un livello di aggressività altrettanto preoccupante e comunque non originale. Immaginatevi la mia faccia quando in un intervista ad una nota psicoterapeuta l’ho sentita affermare, quasi fosse il pensiero più intelligente dell’anno, che il problema riguarda la selezione del personale delle strutture educative. Ma dai. Piantiamola con le fesserie e per favore parliamo di cose serie.

Sicuramente sono stati offerti su tematiche analoghe, commenti e riflessioni assai autorevoli. Io mi sento di guardare un po’ da vicino un antico dibattito tra viscere, testa e cuore. Le viscere, di genitore o di adulto sano, non possono che gridare vendetta, con quella voglia di avere tra le mani i violenti e, come si dice dalle mie parti, fargli passare un guaio. Il cuore batte forte e perde colpi, pensandosi la madre di quel ragazzo o di quel bambino, oppure la figlia di quell’anziano, oppure ancora quella donna maltrattata dal suo compagno presa a chiedersi dov’è l’amore.

La testa, almeno la mia, ingaggia una sfida con la professionista che sono, presa a interrogare il senso di talune vicende e la necessità di abbandonare codici buonisti per guardare con coraggio le parti dell’animo umano, tra cui la cattiveria ha sovente un posto d’onore. Ce lo confermano secoli di storia, se solo alziamo il nostro sguardo da terra e tratteniamo la nostra rabbia o la voglia di non sapere.

E allora che si fa? Me lo sono chiesta tante volte, negli anni, di fronte a racconti di violenza o di fronte a fessure che mi hanno lasciato immaginare e intravere comportamenti aggressivi di genitori e di operatori. Non ho alcuna risposta magica, nè una ricetta miracolosa che trasformi i cattivi in buoni.

So però che mi ha aiutato riconoscere la cattiveria come parte dell’umano, guardarla in faccia senza troppi timori, non abbassare gli occhi per il dolore. Mi ha aiutato chiedere alle persone di parlarne, senza erigermi a giudice, ma provando a capire come evitarne il ripetersi. Vicende analoghe sono sempre accadute, accadono oggi e accadranno ancora. Ognuno di noi, come singolo cittadino  o come professionista, può chiedersi come mettere a disposizione la sua intelligenza e il suo cuore per affrontarle, sperando di prevenirle. Ognuno di noi, parte di una testa e un cuore collettivo, dovrebbe mettersi gli occhiali del disincanto e da lì partire, per cercare vie percorribili e possibili per non attendere inerme, il prossimo scandalo.

Gesti che tolgono il fiato

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gesti che tolgono il fiatodi Irene Auletta

Lo dico spesso. Scrivere mi aiuta a capire, pensare, condividere, elaborare. A volte è più facile altre, come stasera, le dita sulla tastiera picchiano forte nel tentativo di liberare attraverso ciascuna lettera la rabbia, lo sconforto e l’amarezza.

Oggi, giornata straordinaria, perchè a causa dell’iscrizione al centro estivo, sono andata a prendere mia figlia a scuola. Di solito rientra con il pulmino che si occupa dei trasporti. L’impatto con la scuola speciale, dopo anni, per me non è ancora semplice, nonostante tante volte ho ripetuto e raccontato la mia esperienza e valutazione molto positiva.

Guarda é arrivata la mamma e c’è anche una doppia sorpresa perchè è insieme al papà.

Immagino te lo abbiano anticipato perchè appena incrocio il tuo sguardo ti vedo già gesticolare felice quasi saltando sulla sedia. Ogni volta è così e, ad ogni nostro incontro, il tuo corpo esprime una gioia grande come se non ci vedessimo da giorni.

L’ingresso della scuola è abbastanza affollato. Bambini, ragazzi e insegnanti attendono il loro turno per avviarsi verso i pulmini che riaccompagneranno a casa gli alunni.  Mi scatta un click e inizio, quasi senza accorgermene, a memorizzare e poi contare, tutte le volte che qualcuno ti tocca, mettendoti le mani addosso. Passano meno di quindici minuti e ho bisogno di uscire, perchè mi manca l’aria.

Penso ad Angela, la mia insegnante Feldenkrais e ricordo tutte le volte che invita ad essere gentili nei movimenti e nel lavoro che facciamo sul nostro corpo.

Sdraiatevi sulla schiena, chiudete gli occhi, ascoltate quello che il corpo vi racconta e vi suggerisce. Il silenzio aiuta un ascolto profondo e va oltre le nostre parole.

Chissà cosa ti dice il tuo corpo, mentre una volta, due, tre, quattro…. ventisei volte, in meno di quindici minuti, mani altrui ti toccano spesso senza alcun preavviso e in modo molto impulsivo. Non lo saprò mai figlia mia e da anni provo a scrutare le tue reazioni per capire, cercando di non interpretare i tuoi comportamenti in base a quello che farei io, se fossi al tuo posto. E io, farei cose brutte.

Qualche giorno fa al bar sotto casa ho ascoltato un frammento di chiacchiere tra nonne. Mio nipote ha solo tre anni e guai a toccarlo. Se un estraneo ci prova lui lo dice proprio, che non vuole essere toccato!

Tu però non hai tre anni, ne hai quindici e non puoi dirlo, nè potrai mai farlo.

Siamo circondati da corpi sordi che non sanno ascoltare, incapaci di stare nelle relazioni con chi non sa dire. Stasera non mi importa  pensare alle buone intenzioni, perchè non sono quelle che metto in discussione.

La prossima volta chiederemo ad Angela di aiutarci. Escludendo l’ipotesi che la mamma possa picchiare tutti, come facciamo a chiedere al mondo di essere gentile con te, anche se non hai parole per dirlo? 

Scoppi a ridere mentre ti leggo le ultime cose che sto scrivendo. Te la immagini la mamma che picchia tutti, vero amore?

Ma quali eroi?

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di Irene Auletta

Da anni vado dicendo che mi sento una madre apolide. Proprio così, nel senso di senza cittadinanza e senza appartenenza. Fatico a trovare  possibili condivisioni sia con chi vive esperienze tanto differenti dalla mia che con chi attraversa vicende esistenziali assai simili. Una parentesi piacevole e particolarmente positiva la sto scoprendo in questi ultimi anni grazie allo scambio e al confronto tramite il web dove, forse per il numero delle frequentazioni o per le caratteristiche del luogo, sempre più spesso incrocio echi di significati familiari e che riconosco con gradevole sorpresa.

Ho già scritto della questione e qualcuno mi ha anche un po’ presa in giro per il mio cipiglio. Ho osato affermare che mi irritano profondamente tutti quei genitori che, sicuramente per loro difficoltà, hanno sempre bisogno di normalizzare, banalizzando. Li riconosco subito in coloro che di fronte a qualsiasi considerazione o commento riferito ad un figlio disabile, hanno bisogno di affermare subito che anche loro stanno attraversando difficoltà simili, spesso facendo confronti che francamente a volte mi lasciano davvero basita. In genere i figli in questione hanno problemi a scuola, di peso e non raramente, faticano a stare dentro alle mitiche categorie dei percentili pediatrici di sviluppo, divenuti la nuova persecuzione di molti genitori. Naturalmente a disturbarmi non sono questi loro problemi, che comprendo e rispetto, ma l’esigenza di metterli a confronto con qualcosa che sovente è proprio molto lontano dalla loro comprensione.

Sono ancora più in difficoltà quando penso che chi ho di fronte dovrebbe più o meno parlare la mia stessa lingua e invece mi sento una marziana. So bene che ognuno ha bisogno di trovare le sue spiegazioni a quanto sta vivendo ma a me sono sempre state un po’ strette quella sorta di omelie che snocciolano le caratteristiche dei genitori di figli disabili definendoli come individui speciali, persone toccate da fortune o doni inspiegabili, illuminati sulle vie di qualche strano luogo. Questo davvero ho sempre fatto molta fatica a comprenderlo, pur nel totale rispetto del pensiero altrui. Figuriamoci a condividerlo.

Ultimamente invece, mi ha confortato leggere il commento di una mamma, una di quelle che mi fa sentire meno ufo e che, con un tatto invidiabile, invita i genitori con figli disabili a fare meno gli eroi e a chiedere aiuto, pensando anche a se stessi e alla propria vita. Ho apprezzato molto, provando grande rispetto, anche il coraggio di un’altra madre che si è concessa di scrivere in un post di come si ritrova a piangere per la stanchezza, a causa dei disturbi del sonno del figlio. La disperazione a volte spinge a farsi anche queste domande, ma che vita è la mia?  Non c’è bisogno di risposte banali, di luoghi comuni e di assurde spiegazioni. Forse bisogna proprio imparare a non aver paura della rabbia, del dolore, dello sconforto, del senso profondo di ingiustizia e del grande smarrimento.

Molte di noi, madri con figli disabili o con gravi problemi di salute, hanno finalmente voglia di allontanarsi da quell’immagine di Madonna a cui sovente vengono associate, per riprendersi in mano la loro vita di donne, madri, amiche, professioniste, mogli.

Vi sembra troppo? Io, per fortuna, inizio a sentirmi in buona compagnia.

La rabbia e il gesto

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Rabbia, conosco la rabbia. L’ho portata con me per molto tempo, o forse è stata lei a portami, a trascinarmi con sè. Ho le mie ragioni, del resto chi non ne ha? anche chi non ne avrebbe, comunque, riesce a inventarsele. Con estrema facilità. Nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, oso affermare che le mie ragioni sono più valide di altre e riesco anche a comprendermi. L’ho fatto, voglio dire, mi sono compreso un bel po’. Eccheccavolo! avrò diritto o no di essere incazzato? No. I sentimenti non sono terra di diritti, semmai lo è la loro espressione. Bene, allora la questione è che ho diritto a esprimere la mia rabbia e che le anime belle se ne facciano una ragione, anche se le può destabilizzare urtandone la delicata suscettibilità. Perchè, però, quando l’ho fatto mi sono sentito un imbecille?

Altro

Amare il proprio ruggito

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Di Irene Auletta

Per anni ci hanno insegnato a trattenerci, a non esprimere, a mantenere le buone maniere e così siamo diventati esperti di quel sorriso tirato che ho riconosciuto tante volte sul mio viso e riflesso in quello di tanti altri, donne e uomini.

Ci sono voluti anni di lavoro, l’incontro con la bioenergetica, la provocazione continua della vita e gli schiaffi sempre più forti dei drammi dell’esistenza, per farmi alzare lo sguardo e volgerlo altrove.

Ci è voluto l’incontro con il mio limite e la pazienza degli eventi che, come gocce cinesi, non hanno smesso di far incontrare fuoco e benzina.

Una maestra mi ha aiutato a vedere, incontrare ed avvicinare lo strano minuetto giocato dalla rabbia e dal dolore, dalla passione e dalle emozioni, dall’insegnamento di trattenere e dal bisogno di lasciar andare.

Alla fine ce l’ho fatta. 

Prima è comparso il rantolo, soffocato, chiuso in gola e trattenuto negli occhi.

Poi è esploso il ruggito o, come direbbe Clarissa Pinkola Estes, ho incontrato la lupa  e con lei, ho iniziato una folle corsa.

Tutto il resto è una nuova storia, ma oggi, negli occhi altrui, nei finti sorrisi, nelle parole di circostanza, negli sguardi sinceri, scopro mondi nuovi e ricchi di significati.

Ogni tanto lo sento, il mio ruggito, e gli sorrido perchè ho imparato a volergli bene e a capire cosa sta cercando di dirmi. 

O quanto meno ci provo.