Quale emergenza?

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di Nadia Ferrari

Sento e vedo diversi istituti scolastici ed insegnanti che si sono prodigati ed organizzati affinché anche in questa strana settimana, che con certezza lascerà segno nella nostra memoria individuale e collettiva, si possano svolgere regolarmente le lezioni e fare i compiti attraverso smartphone e tablet da casa.  

Non so se sono io come insegnante ormai fuori moda, o se è perché sono docente della scuola dell’infanzia e quindi niente compiti e lezioni che non si possano recuperare con calma al ritorno, ma queste iniziative mi fanno pensare al rapporto con il tempo che ha la nostra scuola. 

Di come nemmeno un’emergenza planetaria riesca a frenare l’idea che a scuola non c’è tempo da perdere, che bisogna correre sennò si perde chissà che cosa. E stiamo parlando di una sola settimana di chiusura in cui, mi ricordava una collega, almeno due o tre giorni erano già destinati ad essere vacanza! 

Io, sinceramente, se pensassi a cosa può servire in fretta agli allievi in questo momento, opterei per trovare tempi e modi atti ad elaborare con loro le idee (e le emozioni) di paura, di vita, di morte e di “finitudine” che questo virus irriducibilmente fa incontrare. 

In questo credo che i nostri allievi non andrebbero lasciati soli. 

In alternativa lascerei che in questa occasione non programmata come vacanza si possano godere del tempo “vuoto”. 

Cosi ha scelto di fare il preside di uno storico liceo scientifico milanese che sulla home del sito pubblica una lettera agli studenti (https://www.liceovolta.it/nuovo/).

Partendo da una citazione dei Promessi sposi, invita i suoi studenti a fare una vita normale, fatta di passeggiate, di buone letture, ponendo l’attenzione a quello che potrebbe rivelarsi la vera emergenza: l’avvelenamento della vita sociale. 

Li saluta infine con un vi aspetto presto a scuola!

 

Lo vedi che la cosa è reciproca?

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furio2di Irene Auletta

Ve la ricordate la citazione di Carlo Verdone in una delle sue scene comiche tra le più amare ed esilaranti? Ecco, oggi ho evocato proprio quella, pensando a me come genitore.

Ho sempre immaginato che nei tuoi e nostri confronti potesse scattare una sorta di pregiudizio e di certo, avere a che fare con me e con tuo padre, nei nostri panni di genitori, non deve essere facile. Purtroppo per te, questo ti tocca.

Ma in questi giorni, proprio nel confronto con operatori che hai già incontrato o potresti incrociare sulla tua strada, mi sono resa conto del potere inverso del mio pregiudizio.

La cosa, parlando di servizi per la disabilità e di operatori, mi riguarda in modo molto forte e quando si incrocia con la mia storia di madre fa scintille. Forse per le tante storie incontrate, per le esperienze deludenti, per la paura di vederti riflessa laddove non vorrei mai.

Ne parlavo proprio oggi con Fiorella, una mamma che, come me, si è cimentata con il suo doppio ruolo nei panni di insegnante, misurandosi quotidianamente con le idee, i pensieri, i gesti e le considerazioni relative all’inserimento dei disabili nella scuola.

Devo riconoscere che gli anni di professione mi hanno insegnato a prendere distanza e a trattare quei commenti lapidari e giudicanti sulle persone, mi hanno fatto scoprire molte sorprese affatto prevedibili ad un primo sguardo superficiale, mi hanno dato la possibilità di incontrare molte esperienze ricche, importanti e di alta qualità.

Però, ora che i servizi li sto incontrando come genitore, so che devo trovare un nuovo equilibrio e non è strano che tuo padre, su tali aspetti, sia decisamente più sereno. Se avevo bisogno di un ulteriore conferma sulle nostre differenti visuali, eccola.

Solo di recente ho iniziato a non considerare la mia professione come un ulteriore handicap della nostra storia e ora so che, proprio grazie ad essa, posso orientare diversamente il mio sguardo e, anche solo per un attimo, mettere a riposo quell’emozione sconsiderata che mi fa tua madre. Quello che da questa prospettiva è possibile vedere a volte fa male ma, molto spesso, restituisce anche nuovi spiragli di luce e di possibilità.

Proprio quelli voglio continuare ad attraversare per tutelare te e il tuo diritto di imparare ma anche per proteggere me, da quelle derive che il dolore può trasformare in vite piene di astio e rancore.

Rimembranze

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maestra - rimembranzedi Nadia Ferrari

Riunione dei genitori nuovi iscritti alla scuola dell’infanzia e come di consueto da oramai un po’ di anni presento la parte educativo-didattica, cioè le fondamenta pedagogiche sui cui si basa il nostro intento d’insegnanti e i vari laboratori ed attività a sostegno dei traguardi formativi.

Mentre parlo di fronte a me c’è un signore di mezza età, capelli ricci brizzolati, attento che mi ascolta interessatissimo e quando la parola passa ai genitori ingaggia un dialogo corollato da domande molto puntuali che ci permettono di mettere a punto aspetti formativi importanti rimasti sullo sfondo.

Dentro di me penso con soddisfazione quanto sia importante che nel primo momento d’incontro tra scuola e famiglia si configuri uno scambio e che pure i genitori, che di solito assumono passivamente un ruolo d’ascolto, intervengano con le loro esigenze e richieste anche se, allo stesso tempo, l’incalzare delle domande tra sconosciuti alla lunga “stanca” ed impaurisce. La paura che sovviene é quella poi di creare troppe attese e di non essere all’altezza di sostenerle e così preferirei lasciare il passo alla conoscenza diretta. Paura spesso infondata ma che in me ancora vive dopo trentotto anni d’insegnamento.

La riunione si conclude, salutiamo con un arrivederci i genitori e mi dedico a sistemare gli strumenti (altoparlante, microfono ecc…).
 Il signore brizzolato mi si avvicina e attende che io mi accorga di lui. Quando alzo lo sguardo dal mio daffare lui mi dice: 
ma lei?


Io un po’ provocatoriamente pensando dentro di me: ancora domande? La riunione é finita! Rispondo sfidandolo dritto negli occhi con un sorrisetto sarcastico: si io?

Lei trentasette anni fa lavorava a Trezzano? 
Io incuriosita e di nuovo incerta rispondo affermativamente, mentre lui aggiunge nell’asilo di Rimembranze, dai verdi?


A quel punto d’impeto e inconsapevolmente passo al tu. Ma tu sei un mio allievo?

Si, risponde, sono F. A.

In quel momento mi é balenato dentro agli occhi il bambino che era e gli sono saltata al collo in un abbraccio affettuoso mentre lui pure emozionato sussurrava Nadia non sei cambiata per niente!

Dentro di me penso alla grande soddisfazione specifica degli insegnanti di lasciare segni positivi nella memoria dei bambini che incontrano. E anche di aver contribuito degnamente a farlo diventare uomo che non ha timore a porgere domande.

 

Nascere

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nasceredi Nadia Ferrari

Come di consueto nei pomeriggi a scuola mi incanto a guardare i bimbi giocare. “Fermarsi semplicemente a guardare” senza intervenire, senza suggerire, senza correggere, senza richiedere, rischia di divenire una forma di presenza educativa che, presi come siamo dalle infinite cose da fare, stiamo purtroppo dismettendo a favore spesso di attività molto meno importanti. Eppure, come ho già avuto modo di dire, il gioco degli sguardi è cosa complessa. Nel guardare i bambini io non vedo solo loro che giocano ma vedo loro che giocando ci osservano.

Allora l’aspetto educativo si fa interessante e non solo per comprendere (come è noto) eventuali problematiche latenti ed interpretando il loro gioco come uno strumento diagnostico, ma per l’opportunità che i piccoli offrono a noi adulti di ritrovare nella naturalezza dei loro gesti e nella generatività delle loro teorie sugli eventi del mondo, quella semplicità e leggerezza che riporta l’idea di imparare divertendosi spesso “lasciata fuori” dalle aule scolastiche.

Oggi siamo in una sala parto.

Devo sottolineare che in questo periodo nella nostra classe ci sono state tantissime gravidanze e nascite di fratellini e sorelline. Comunque in sala parto c’è un gran fermento! Ci sono medici, infermieri e naturalmente le partorienti che in questa occasione non sono solo femmine oggi da noi partoriscono anche i maschi. I medici e le dottoresse sono indaffaratissimi: tagliano, medicano, provano la febbre, sia ai nuovi nati che alle loro mamme, fanno ricette, si telefonano per sentire come stanno i pazienti. Mentre giocano con estrema compostezza intavolano una discussione.

Giacomo (mentre sta facendo un cesareo): ma guarda che davvero i bambini nascono tagliando la pancia alle mamme!
Maya: non proprio, prima devi mettere il semino nella pancia della mamma, il papà lo mette nella “patatina” della mamma e poi finche il semino cresce, cresce, cresce, e i bambini crescono dentro alla pancia e sono pronti a nascere.
Giulia: e no, guarda alla mia mamma hanno tagliato proprio qua (indica sul suo corpo) guarda qua dove ciò la gonna, mia mamma ce l’ha ancora il taglio, perché prima nella sua pancia c’ero dentro io, hanno tagliato e hanno ricucito, poi c’era dentro l’Alice e hanno tagliato e hanno ricucito e adesso c’è dentro Luca che deve nascere in questi giorni e tagliano e ricuciono
Sofia: ma com’è fatto il semino?
Giulia: è come un seme delle piante
Maya: e no! Un semino delle piante messo nella “patatina” della mamma non può fare niente, bisogna annaffiarlo!
Giacomo: e certo! S’annaffia quando la mamma fa il bagno… però può crescere una pianta non un bambino…
Maya: per il bambino è un semino un po’ strano, non è come il seme della carota…
Giacomo: vabbè non lo sappiamo com’è.

E riprendono indaffarati a curare i loro piccoli pazienti mentre io molto divertita e lontana dal fornire loro altre verosimili spiegazioni penso a come queste ultime mettano in pace i nostri tabù ma non riescano proprio a convincere i bambini!

Gravemente sufficiente

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gravemente sufficientedi Irene Auletta

Mi capita spesso di raccogliere commenti di genitori che, in occasione dei rituali colloqui di verifica con gli insegnanti, restituiscono emozioni di colori assai differenti.

Accade di ascoltare racconti di gratificazioni e soddisfazioni sovente associati a brillanti risultati raggiunti dai bambini o ragazzi dal punto di vista didattico. Allo stesso modo capita anche di percepire un senso di incomprensione, delusione, scarsa valorizzazione, che trasformano i fatidici colloqui in una vera e propria punizione a cui sottoporsi nella speranza che finisca il prima possibile.

Cosa vorreste vi raccontassero dei vostri figli a scuola? Riuscite ad appassionarvi ai loro apprendimenti? Quando vi parlano di alcuni comportamenti come vi sentite, a seconda che siano di lusinga o di critica?

Qualche anno fa, parlando con una mia amica parecchio provata dalla scarsa motivazione scolastica di sua figlia, ho provato a capire del perchè di tanta preoccupazione, prima e dopo il confronto con i docenti. Il fatto è, mi ha detto un giorno, che mi sento sempre valutata e giudicata e, appena torno a casa dopo un incontro, riverso tutta la frustrazione su mia figlia, pur rendendomi conto che non è questa la cosa giusta da fare!

Tante volte ho sentito racconti simili e quindi immagino che ci sia pure qualcosa di vero. D’altronde, nel mio lavoro con gli insegnanti, non mancano le valutazioni di genitori, troppo presenti o assenti, che sottovalutano o sopravvalutano le capacità dei loro figli, che delegano o vogliono sostituirsi agli insegnanti. Insomma, il mare dell’esperienza scolastica attraversato dagli adulti, genitori o insegnanti, mi appare molto spesso in burrasca.

Qualche giorno fa, come genitore, ho avuto due scambi molto interessanti con persone che, a diverso titolo e ruolo, hanno espresso una valutazione su mia figlia.

Da una parte ho sentito forte il codice legato alla “famosa” diagnosi funzionale che qualsiasi genitore con un figlio disabile conosce molto bene. Tuo figlio che cosa è in grado di fare? Quali competenze o abilità ha raggiunto in questo periodo? A quale categoria dei disabili appartiene? Alta o bassa? Grave o meno grave? Il problema non è legato alle singole persone coinvolte in questo tipo di valutazione ma ad una resistente cultura della disabilità che, nei luoghi della formazione e nelle vesti professionali, continuo a discutere criticamente, insieme all’urgenza di una sua evoluzione e trasformazione. Altra storia è ciò che accade nei pressi del cuore.

Angela, la tua insegnante Feldenkrais, mi racconta di come sei cresciuta, delle emozioni che riesci ad esprimere, della persona che sei diventata, della maturità del tuo ascolto, sempre più profondo, di ciò che accade al tuo corpo. Sono incontri e scambi che mi accompagnano da anni e che sempre hanno posto al centro ciò che sei e non quello che sai.

Orizzonti molto differenti che ci costringono ad una valutazione strabica. Se solo i due mondi si parlassero un pochino non potrebbe essere più semplice, per tanti genitori, comprendere il senso di molti momenti di valutazione?

Va bene così figlia, chiediamo aiuto all’ironia. Quale sarà la media tra gravemente insufficiente e dieci e lode?

Lavatrici semantiche

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lavatrici semantichedi Irene Auletta

Giorni strani abitati da parole che mi rimbalzano addosso chiamandomi a scrivere.

Allora ragazzi cosa ne pensate? Espressione abituale e per nulla originale ma abbastanza atipica se calata all’interno di un incontro di supervisione condotto da una psicologa e rivolto ad un nutrito gruppo di operatori con non poca esperienza. E taluni, anche di età superiore alla stessa supervisora.

Ricordo molto bene quando durante i miei primi lavori con le educatrici dei servizi per l’infanzia mi sono sovente ritrovata a coordinare e condurre gruppi composti da donne più anziane e più esperte di me nella loro professione. Sentirle chiamare ragazze da altri colleghi mi ha sempre stonato al punto che non ho mai ceduto a questa tentazione che, oggi più che mai, trovo assai poco pertinente e con una nota di quel velato paternalismo fastidioso tanto da farmelo respingere con decisione.

Guarda che sei proprio una monella!! Da una parte della frase c’è un’educatrice e dall’altra una ragazza di sedici anni. Vi sembra strano? Forse meno se immaginate la ragazza disabile?

Ora, che si debba anche combattere per il linguaggio utilizzato dagli operatori mi pare davvero troppo ma purtroppo da anni mi trovo impegnata su questo fronte, sia come pedagogista che come madre. Ogni tanto vorrei proprio imitare il mitico protagonista di Forrest Gump ripetendo la sua frase celeberrima “sono un po’ stanchino” al termine di una maratona durata anni.

Vuoi dire che è questo che ci aspetta? Una maratona senza fine? Spesso alcuni colleghi mi hanno restituito questo aspetto come un mio eccesso, quasi una pignoleria esagerata e può essere che abbiano anche ragione. Io però non posso smettere di pormi alcuni quesiti che mi sembrano squisitamente pedagogici proprio nell’andare ad interrogare il senso di alcuni scambi comunicativi e di alcune espressioni.

Ma cosa posso rispondere a mio figlio tredicenne quando mi manda a quel paese? mi chiede un genitore. Cosa possiamo rispondere a insegnanti che sembrano aver perso il senno di fronte a studenti che incalzano con epiteti a dir poco sconvenienti?

Una volta si invitavano le persone poco educate a lavarsi la bocca con il sapone. Mi chiedo cosa si possa usare oggi quando il linguaggio è così tanto fuori luogo e stasera, ho paura a rispondermi.

Testardi, tenaci o coraggiosi?

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braveIrene Auletta

Da tanti anni, di fronte al racconto di bambini o ragazzi con qualche tipo di disabilità, ritrovo l’aggettivo testardi ricorrere con grande puntualità ed è praticamente immancabile soprattutto laddove il problema riguarda in modo significativo limitazioni gravi nell’area comunicativa e del linguaggio.

Non solo ne parlano i genitori, ma gli stessi educatori, insegnanti, terapeuti spesso attingono a questa definizione per dare senso a qualche comportamento. Nei casi peggiori non mi è neppure mancata la stupida affermazione “bisognerebbe capire se ci è o ci fa!”.

Se devo essere sincera la storia non mi quadrava neppure anni fa ma oggi mi lascia assai perplessa soprattutto perché definendo un aspetto caratteriale o del comportamento si rischia di lasciarne totalmente sullo sfondo l’origine non genetica, ma ambientale e quindi educativa.

Provate a immaginarvi fin dalla nascita in un mondo che vi invade di parole mentre voi ne avete pochissime e a volte nulla, pensate ad un bisogno anche elementare che non riuscite a far comprendere e, se poi ci addentriamo nell’area dei sentimenti o delle emozioni, che dire?

La cosa poi altrettanto bizzarra è che quando non si parla di testardaggine molto spesso compaiono commenti come apatico, poco motivato all’apprendimento, tranquillo, buono. Da quando la testardaggine, l’ostinazione a esserci o la tenacia sono diventati aspetti problematici o negativi nel percorso di crescita?

Di certo la difficoltà è dell’adulto che non riesce a capire, a trovare strategie alternative o, semplicemente, a gestire comportamenti che, come possono, chiedono ascolto, rispetto della persona, possibilità di scelta.

Rivedo in modo nitido la nostra fotografia del presente che, lungi dall’essere collegata alla tua adolescenza, da anni si ripropone con impeccabile puntualità. Vuoi farti valere, esprimere il tuo dissenso, una protesta, un malessere, un desiderio e allora cosa fai? Hai scoperto che il tuo corpo può compensare l’assenza di parole ed eccoti seduta o sdraiata a terra ogni volta che vuoi dirci qualcosa, preferibilmente in mezzo alla strada, in qualche negozio o in un parco.

E noi annaspiamo, ci guardiamo suggerendoci con gli occhi nuove possibilità, usiamo la nostra autorevolezza che ogni tanto assume i toni severi dell’autorità. Le più recenti strategie ci sostengono con l’utilizzo delle nuove opzioni offerte dai moderni smartphone: FaceTime, piccoli video o foto per anticiparti e renderti visibile quello che ti stiamo proponendo o provando a farti capire. Insomma, di tutto e di più e forse, incrociandoci, appariamo un po’ marziani, in una nostra bolla peculiare che nei momenti critici si nutre solo della possibilità di riuscire a resistere, mentre tu non molli nel tuo tenace tentativo di affermare la tua esistenza.

Mi piaci figlia quando sei così anche se mi poni di fronte a difficoltà che mi sembrano a volte insormontabili. Tu prosegui con coraggio per la tua via e io continuerò a fare del mio meglio per provare a capire e per aiutarti a trovare strade alternative e a non soccombere.

 

Cesti e cestini

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cesti e cestinidi Irene Auletta

Pensate mai a quelle frasi ricorrenti che vi piacerebbe non sentire più o gettare  in un virtuale cestino dei luoghi comuni? Ce ne sono una serie che mi sembrano assai frequenti anche attraversando differenti contesti.

Attirano in particolare la mia attenzione quelle che restituiscono una grande confusione di confini e significati tra la vita personale e quella professionale.

La priorità è la mia famiglia! è tra le più gettonate e resiste stoica a tutte le mode. Poi ci sono quelle di contorno che parlano con esasperazione di grandi fatiche, persone sempre più stressate, rabbie e frustrazioni per scarsi riconoscimenti professionali o economici e via discorrendo in un personale elenco che ciascuno può arricchire a partire dalla propria realtà.

L’atteggiamento trasversalmente comune, in queste circostanze, mostra un andamento che oscilla tra il depressivo e l’aggressivo con tendenze al lamento costante e alla rivendicazione a oltranza, per qualsiasi cosa. Ho la sensazione che proprio i professionisti impegnati nelle relazioni educative e di aiuto siano tra i più colpiti da questi sintomi e da una forma di incontinenza comunicativa che osservo tra il preoccupato e il curioso, anche alla ricerca di opportune e necessarie contromisure.

Poi, per fortuna, arrivano le sorprese.

Sono in pensione da diversi anni ma ora mi sento veramente stanca e annoiata. Ho insegnato per tanti anni e non sentivo mai la fatica. Il lavoro era la mia energia e l’incontro con i ragazzi era per me un continuo stimolo.

Scambio in ascensore con una signora che abita nel mio palazzo e che incrocio spesso costruendo piccole storie a puntate relative alle nostre scelte professionali. Pensando  al suo ultimo commento riconosco che la differenza la fa proprio la passione ed è quella che si sente nelle relazioni che trasmettono buona energia e quella voglia di interrogare anche le difficoltà e le fatiche, alla ricerca di nuove possibilità.

Ma come si fa ad insegnare la passione? mi chiede una giovane insegnante mentre parliamo proprio di tale questione.

Si possono insegnare la curiosità, la fiducia, il rispetto, l’ottimismo, la speranza, l’allegria, l’amore per il sapere? Possiamo immaginare la fatica come portatrice di nuove risorse e il dolore come occasione per dare anche senso alle nostre esistenze?

Quando le mie risposte saranno negative di certo non sarò più qui a scriverne. Per ora, mi sa che impacchetto un po’ di queste domande e ne faccio cesti natalizi!

Disabilità di chi insegna

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sfumaturedi Irene Auletta

Girovagando nel web mi colpisce uno scambio tra alcune persone che immagino essere sia genitori di figli disabili che insegnanti. Si parla di integrazione scolastica, di fatiche, di insegnanti di sostegno che cambiano di continuo. Molte polemiche e poca sostanza ma, proprio mentre sto per passare oltre, mi trattiene una domanda.

A volte ho proprio l’impressione che le diverse insegnanti incontrate da mio figlio abbiano sempre dovuto prima imparare loro cosa fare e poi, quando arrivava il momento buono, se ne andavano. Possibile che rispetto alla disabilità sia così difficile capire quali proposte fare ai ragazzi a scuola o nei vari centri? 

In fondo, prosegue un’altra voce attiva nella conversazione, le insegnanti dovrebbero essere preparate ad insegnare cose ben più difficili.

Ecco cosa mi ha colpito. Proprio quella parola lì, difficile.

Non posso fare a meno di pensare ad aule di sostegno, o centri per ragazzi disabili, dove, soprattutto in passato, mi è capitato di osservare giochi e materiale didattici assai simili a quelli che in tanti anni di esperienza ho avuto modo di incrociare in molti servizi per la prima infanzia.

So bene che la differenza non la fa il materiale in sè ma come gli insegnanti o  gli educatori lo utilizzano, ma non posso fare a meno di pensare che il problema, forse, sta proprio nel rapporto tra facile e difficile. Pensando, attraverso un pensiero che banalizza, che il ragazzino disabile abbia bisogno di fare qualcosa di più facile, rispetto agli altri suoi coetanei senza difficoltà, ho l’impressione che si commetta il medesimo errore di una nota storiella zen.

Una mosca tenta di uscire dalla finestra continuando a sbattere contro l’anta chiusa. Se solo si spostasse di poco potrebbe uscire da quella adiacente aperta. Ma la mosca, non lo sa.

Il problema non è semplificare le abilità altrui ma attivare un processo di scoperta e ricerca rispetto a quelle della persona che si ha di fronte, alle sue abilità e possibilità. Rendere più facili compiti a volte impossibili, non vuol dire accogliere la diversità dell’altro ma schiacciarla sempre di più all’interno di un confronto impossibile da sostenere, perdendo l’occasione di insegnare e imparare qualcosa di nuovo. Ora che ci penso, mi pare che questa considerazione valga anche per molti altri ragazzini senza alcuna disabilità.

Abbiamo urgente bisogno di insegnanti ed educatori con diverse abilità. Ci sono tanti ragazzi più fortunati di altri, ma sarebbe anche ora di smetterla di affidarsi alla fortuna. Troppo facile, no?

La confusione che insegna

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la cunfusione che insegnadi Irene Auletta

Durante le lezioni Feldenkrais  Angela, la nostra insegnante, spesso ci accompagna attraverso configurazioni mirate a differenziare.

Girate la testa a destra e gli occhi a sinistra. Ora invertite la direzione. Ruotate un braccio in una direzione e l’altro in quella contraria. Ricordate che differenziare è importante per rompere gli schemi di molti movimenti strutturati e per creare nuove occasioni di apprendimento.

Una delle partecipanti, durante l’ultima lezione, esprime un senso di confusione che l’insegnante accoglie e rilancia con valutazione positiva dichiarando proprio la sua intenzione di creare disorientamento.

Se attraversate lo stato della confusione nel movimento, potete sperimentare e trovare nuove forme di ordine e quindi raggiungere nuovi apprendimenti.

Penso a quanto le stereotipie del corpo possono insegnarci rispetto a quelle dei ragionamenti e dello sguardo gettato sui problemi quotidiani e mi diverto a fare un elenco di quelle appartenenti a queste ultime categorie. Chiunque può farlo spaziando tra gli ambienti di lavoro o quelli della propria vita personale, anche per sdrammatizzare la pesantezza che caratterizza molti scambi comunicativi.

Attraversando luoghi di formazione mi colpisce sempre la ritualità di alcune affermazioni, l’esibizione di molti luoghi comuni, la povertà di ragionamenti pieni di punti esclamativi. Allo stesso modo però mi giunge piacevole e stimolante il movimento creato dalle domande, dai ragionamenti capovolti, dalle provocazioni intelligenti e da quello stato di confusione che accompagna una riflessione che si sta riorganizzando per esplorare nuove forme possibili.

Con Monica, collega e amica, abbiamo fantasticato di educatori, assistenti sociali, insegnanti, psicologi e pedagogisti, sdraiati a terra a sperimentare ciò che accade attraverso il lavoro sul corpo per poi provare a trasferirlo, analogicamente, alle proprie pratiche professionali.

Qualcuno sta già intraprendendo percorsi simili, vuoi dire che è giunto il momento anche per noi? Le iscrizioni sono aperte!

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