
(Parte prima, parte seconda, parte terza)
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“Ti faccio vedere il certificato di scarcerazione”, dice mentre con la mano libera dal trolley armeggia con la cerniera dello smanicato. “Ti credo sulla parola”, lo stoppo per evitare di veder sparire la sua mano in qualche tasca interna poco rassicurante e di dovermi fermare per leggere un documento del quale non poteva fregarmi di meno.
Avevamo ormai superato l’area binari e ci stavamo rapidamente portando verso l’uscita.
Dovevo sganciarmi.
Il mio temporaneo amico mi si era incollato alla spalla e temevo di non riuscire a schiodarmelo di dosso sino al parcheggio. Mi aveva appena detto che abitava in zona Ticinese, praticamente di strada per me, e l’idea di dargli un passaggio non mi sorrideva per nulla. MI era balenata come possibilità, dunque non l’avevo esclusa a priori. Dopotutto se davvero tornava a casa dopo decenni di galera, un piccolo gesto di solidarietà poteva anche starci. Ma cazzo, non dopo che mi hai confessato candidamente il proposito di derubarmi!
Puoi anche avere sulle spalle venti e passa anni di arti marziali, ma come accidenti puoi difenderti se, mentre guidi, il passeggero che ti sta a fianco ti minaccia con un coltello, o peggio? Non ti difendi. Gli dai tutto quello che vuole. A meno di non lanciarti in una corsa impazzita minacciandolo di schiantarti insieme a lui. Grazie no. Oltretutto l’auto è quasi nuova.
Dunque devo sganciarmi, e subito.
Valuto rapidamente il vantaggio di cui godo. Il mio viaggio è durato molto meno del suo e tutto quello che ho con me sta nello zainetto. Lui invece trascina faticosamente una valigia all’apparenza pesantissima. Scarto le scale mobili e mi dirigo deciso verso la scalinata laterale della Stazione Centrale. Quella più lunga e ripida.
Ora siamo arrivati sul ciglio. Il primo gradino verso una riconquistata solitudine è a un passo da me. Ci fermiamo. Mi volto leggermente verso di lui con l’evidente intento di congedarmi. Un gesto, un sorriso, una postura che dicono ok, ora devo andare, immagino che tu da qua non scenda, a casa mi aspettano, è stato un incontro simpatico, grazie ancora per non averlo trasformato in uno scontro. Insomma, chiudiamola qui. Gli porgo la mano, preparandomi a dirgli un “auguri” di commiato. Lui mi anticipa: “puoi darmi qualcosa per mangiare?”
Non era ancora finita.
Vuoi dirmi che tutta questa manfrina da bordo treno sino a qui era solo per spillarmi qualche euro? Può darsi. Come può darsi sia un ultimo tentativo di tenermi agganciato. “Dopotutto non ti ho rubato l’iPhone…” aggiunge risfoderando il sorriso sornione di prima. Sta a vedere che oltre a ringraziarti per il mancato furto, devo anche pagarti. E quanto mi costerebbe la tua “protezione”? Pensieri che trattengo opportunamente entro i confini del mio cranio.
Decido che sì, glielo dò qualche euro. Il problema è che per farlo devo togliermi lo zaino, aprirlo, pescare dall’interno il portafoglio, aprirlo davanti a lui. Per qualche brevissimo secondo, armeggio nel tentativo di prendere i soldi senza tirar fuori il portafoglio. Ma è un’operazione tutt’altro che facile, i movimenti risultano impacciati e rischiano sfacciatamente di comunicare timore e sfiducia, ovvero l’esatto contrario di quello che ho fatto sino a quel momento. Ho sempre odiato perdermi sui finali.
Estraggo senza enfasi ma con decisione il portafoglio, lo apro davanti a lui. Ci sono una banconota da cinque e una da cinquanta euro. Il prezzo del mancato furto la seconda, un contributo per un panino la prima.
“Non ti dò certo dei soldi perché non mi hai derubato”, gli dico sorridendo. Poi prendo i cinque euro, glieli allungo, metto via il portafoglio, chiudo lo zaino mettendomelo in spalla e gli stringo finalmente la mano.
“Ciao allora. E auguri per la tua nuova vita”
Lo lascio mentre borbotta una risposta che non comprendo e non indago, gli giro le spalle e scendo le scale senza voltarmi indietro.
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Fine
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