Amori orgogliosi

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di Irene Auletta

Qualche giorno fa tuo padre mi ha raccontato di un vostro recente scambio in cui ti ha parlato del suo orgoglio per te. Vi immagino vicini, intimi, profili uguali nelle vostre differenze abissali e mi arriva un’ondata di emozioni. Saremmo stati capaci di provare tanto orgoglio e di esprimertelo se tu non fossi stata tu? Domande mute con risposte impossibili.

Il racconto mi torna in mente oggi mentre io e tuo padre ti osserviamo in acqua, in un momento di valutazione del tuo percorso TMA (terapia multisistemica in acqua). Nonostante questo sia un nostro appuntamento settimanale, durante gli incontri riesco a vederti poco, sia perché spesso la mia presenza ti distrae, sia perché farti vivere momenti in assenza del mio sguardo mi sembra una gran bella libertà. 

Ma oggi è un giorno speciale e anche le tue reazioni in nostra presenza sono un oggetto di valutazione. Come sempre in acqua ti muovi con estrema disinvoltura, diventi leggera e le tue rigidità di movimento sembrano scomparire. Ridi, ti concentri, ti impegni e mostri una fiducia totale nell’istruttrice che da quasi tre anni ti sta accompagnando in questa avventura. Appena puoi ci cerchi con lo sguardo e io mi accorgo di trattenere il respiro mentre ti osservo in alcuni passaggi in cui ti ritrovo la mia figlia coraggiosa. 

Durante la restituzione la supervisora sottolinea, con positiva delicatezza, lo scarto tra le tue possibilità, gli innegabili limiti e la tua tenacia, unita alla voglia di provare e sperimentare. Ogni volta che penso a quanto la vita e’ stata con te avara e a come tu riesci a trasformare ogni occasione in possibilità, sento un pizzico forte al cuore unito a quel moto di orgoglio che non smettiamo mai di dirti e farti sentire. 

Le fatiche immense di tutti i passaggi, compresi quelle che precedono esperienze in cui poi ti butti a capofitto e che ti piacciono molto, in quell’attimo sembrano svanire e io mi riempio gli occhi di tutta la bellezza che fra poco ti sussurrerò nel nostro abbraccio d’amore orgoglioso.

Passa il tempo e i ricordi tornano a trovarmi

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di Franca Rozzoni

Franca nella lettera si riferisce a quando aveva 19 anni ed era il 1949. Oggi è bisnonna. La conosciamo soprattutto attraverso le parole di sua figlia Luigina ma abbiamo avuto il piacere di stringerle la mano.

Carissimo papà Angelo,

Non lo so, ma in questi giorni così bui mi è venuto in mente questo lontano aneddoto.

Ai tempi facevo l’infermiera in convitto all’Ospedale di Cernusco sul Naviglio, ero a cena e mi hanno chiamato dalla portineria dicendo che qualcuno mi voleva. 

Eri tu papà, 

ti visto dopo un po’ in mezzo a tanta gente, tutto nero perché lavoravi a riempire le caldaie che funzionavano così a quei tempi, con il carbone.

Incredula della tua presenza ti ho chiesto: “con chi sei venuto?”, pensando che qualcuno ti avesse accompagnato sino a me da Milano! 

E tu: ” sono qui in bicicletta”.

Ti ho consegnato il mensile che avresti portato con te per la famiglia sino a casa a Castel Rozzone e in questa consegna di una busta, con un occhiata veloce e intensa, ad ognuno di noi due e’ scesa una lacrima. 

Le tue le ricordo ancora, due righe bianche nel tuo viso nero. 

Ricordo che sono corsa via, scappata direttamente in camera, a piangere di nascosto e pensavo a te, ai tuoi sacrifici, alla strada che avresti dovuto fare al freddo e al gelo, coperto solo dal mantello nero e dai guanti di pelle di coniglio. 

E mi dicevo, “perché nella vita tutti questi sacrifici “?

Intorno a me si sono riunite vicino a consolarmi Suor Francesca e le mie colleghe.

Ti chiedo scusa papà perché sono scappata via, non perché eri tutto nero, questo te lo voglio dire, insieme a tanti sacrifici abbiamo aggiunto anche questo!

Ora nel posto dove sei non sei più solo, c’è la mamma Angela, tre nipoti giovani Massimiliano, Eliseo 1 e Eliseo 2, tua figlia Giovanna e mio marito Andrea. Siete una bella squadra e sono sicura che da là mi state dando il vostro sostegno e aiuto. Io continuerò a pregare per voi con un caro ricordo di tutti voi.

Tu mi hai sempre detto di essere forte … scusa papà se qualche volta non lo sono stata!

Un fortissimo abbraccio, Tua figlia Francesca

Riflessi

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margheritadi Irene Auletta

Entriamo quasi insieme nello stesso piccolo cortile interno e posteggiamo ai due lati opposti le nostre auto. Le portiere si aprono ed entrambi rimaniamo in attesa che il “misterioso” passeggero decida di uscire, con i suoi tempi. Mi sembra di riconoscere gli stessi toni di incoraggiamento e il delicato sollecito e quando i nostri sguardi si incrociano ci scambiamo un timido sorriso pieno di tanti discorsi e commenti muti.

Mentre sto cercando di convincerti a salire la scala, senza dover ricorrere all’ascensore, il signore di mezza età e il suo giovane figlio arrivano dietro di noi. Salite pure prima voi perché noi siamo sicuramente più lente, dico rivolgendomi ad entrambi. Il padre mi sorride e il ragazzo evita il mio sguardo, preso in un dialogo tutto suo. Voi due non frequentate lo stesso Centro e riconosco in quel ragazzo tratti e caratteristiche incrociati tante volte anche altrove e che mi hanno sempre creato tanta inquietudine.

Anche il signore ci rivolge un saluto e tu rispondi con uno dei tuoi sorrisi che cerchi di far passare anche attraverso gli occhi. Come ti chiami? ti chiede e subito, con molta delicatezza, aggiunge che se non ti dispiace può dirglielo anche la mamma. Seguono commenti sul nome, sulla tua espressione e sulla nostra nuova conoscenza con quel contesto. Davvero una bella ragazza, mi dice guardandoti e vedo nei suoi occhi una malinconia familiare che probabilmente rivolge ogni giorno a quel figlio che sembra tutto concentrato in un suo mondo parallelo.

Quando oggi arrivo a prenderti l’episodio mi ritorna subito in mente proprio mentre chiedo ad un operatrice di non tenerti bloccata per il polso, visto che ora ci sono io. Non smetterò mai di star male per quelle mani addosso tante volte inopportune e non smetterò mai di restituirne all’altro l’invadenza e, sovente, il non senso.

Il contrasto tra la delicatezza di quel padre e il gesto dell’operatrice, mi arriva forte come un odore pungente. Per fortuna non è lei la tua educatrice di riferimento, penso con un sospiro di pancia mentre la razionalità mi ricorda di non giudicare frettolosamente da un singolo gesto. Quando qualcosa ti riguarda il confronto fra testa e cuore è spesso un gran casino.

Cosa ne dici della nuova educatrice? ti chiedo mentre siamo in auto dirette verso casa. A me piace e mi sembra molto bello anche il suo nome di fiore, dico mentre mi guardi e mi ascolti ripeterlo scandito. Ridi e muovi le braccia con quel tuo gesto che esprime felicità. Buon segno.

Speriamo nei suoi petali.

Riflessi educativi

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riflessi educativi 1di Irene Auletta

Ma io non li voglio i carciofi ripieni! Nessun problema, risponde il padre, vorrà dire che stasera andrai a letto senza cena. E così fu.

Me la ricordo ancora bene quella scena, nonostante siano passati da allora quasi cinquant’anni e mai avrei immaginato di ritrovarmi a fare una parte simile nel ruolo di genitore. Dico simile perché le scene non sono mai uguali e di certo nel mio caso mi sarebbe piaciuto molto trovarmi di fronte ad una scelta o ad una presa di posizione come quella puntigliosa di me bambina.

Da qualche giorno sono aumentati i versi con la bocca che, accompagnati da qualcosa di assai simile a una pernacchia, producono un’inevitabile produzione di saliva che termina in qualcosa di poco gradevole che, anche senza una fervida immaginazione, è possibile intuire. Le spiegazioni ricorrenti su una serie di comportamenti dei ragazzi disabili mi lasciano sempre con molti interrogativi aperti che, a seconda dello stato d’animo del momento, mi deprimono oppure mi irritano. Purtroppo raramente riesco a sorriderne.

In realtà so bene che ogni comportamento nasce per qualche motivo particolare non sempre identificabile e riconoscibile e, molto spesso, esasperato dal tuo modo di affrontare qualcosa che, evidentemente, anche tu stessa non comprendi o non riconosci come familiare. E così l’altra sera, di fronte a questi sputi pernacchiosi, ingaggio una sfida e al secondo tentativo fallito, ti comunico che andrai a letto senza cena. Cerco di farlo come lo fece anni fa mio padre, senza alcuna aggressività ma con la convinzione di poterti insegnare qualcosa.

In cuor mio però non sono serena perché mi chiedo cosa tu possa comprendere e imparare e soprattutto perché sono certa di non aver capito il motivo del tuo comportamento che sospetto legato a qualche fastidio o disagio che non riesci a esprimere diversamente.

Ma tu babbo avrai capito perché proprio quella sera non volevo i carciofi ripieni, oppure avrà preso il sopravvento l’insegnamento che sentivi importante e strettamente legato al tuo ruolo di padre? Credo che il ruolo di genitore sia complesso sempre e forse, figli diversi, chiedono di imparare a destreggiarsi tra differenti trappole. Io conosco solo quelle che incontro nella relazione con te e nelle lezioni che ogni volta imparo grazie alle tue reazioni imprevedibili.

Accetti di andare a letto senza cena senza mostrare alcuna opposizione e ti sento vicina alla mia emozione quando ti dico che in quell’occasione non sono riuscita a fare altro per capire e per aiutarti. Domani andrà meglio ti dico mentre, chissà perché, ho la sensazione che tu mi stia consolando.

Ti assomiglio davvero babbo? Di certo, tu non sarai andato a letto con il magone. O no?

Scope e divinità

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la befanadi Irene Auletta

Ci sono appuntamenti che si ripetono con immancabile puntualità e con essi riti e rituali che, ogni anno, ne confermano il valore e la loro peculiarità. In genere, il giorno dell’Epifania lo trascorriamo con gli zii ultraottantenni di tuo padre che forse, proprio nell’etimo dell’odierna giornata, puntualmente ci rivolgono gli stessi quesiti quasi attendessero fiduciosi la nostra singolare rivelazione.

Ma secondo te, le parole che dici le capisce? Ma come fate a capire cosa comprende? Nel tempo è destinata a migliorare? Io e tuo padre ormai ce le aspettiamo, con un sorriso affettuoso sulle labbra.

Non potevano mancare anche quest’anno e l’interesse attento che soprattutto lo zio Beppe pone di fronte alle nostre risposte, conferma ogni volta che le sue non sono affatto domande di rito o di forma ma, al contrario, sembrano quasi confermare qualcosa di cui pare non riuscire a capacitarsi.

Quando eri più piccola alle sue domande spesso seguiva un’affermazione sentita anche altrove tante e tante volte. Eppure, vista in alcune espressioni e in determinati momenti sembra proprio una bambina normale! Gli anni che passano, seppur nello scarto abissale tra la tua età anagrafica, le tue espressioni e il tuo aspetto fisico, escludono ogni apparenza di normalità lasciando spazio solo a quesiti di miracolosi miglioramenti che faticano a dialogare con la realtà.

Mi viene in mente, quasi come contraltare, quello che sostiene mia madre con grande sicurezza circa la tua intelligenza e le tue capacità che, secondo lei, vanno ben oltre l’assenza di parole. Gli occhi dell’amore sono proprio così, fanno di tutto per non rimanere imprigionati nelle etichette e nelle diagnosi e cercano, in ogni sfumatura, aspetti che leniscano la sofferenza della disabilità.

Per lo zio Beppe il dispiacere riguarda sicuramente il nipote con cui è evidente un rapporto di affetto speciale rimarcato forse anche dal fatto di essere l’ultimo rappresentante di alcune radici familiari ormai in via di estinzione. Per la nonna riguarda te, me e i nostri sogni infranti.

Epifania oltre che ‘apparizione’ o ‘rivelazione’ significa anche ‘manifestazione della divinità’ e forse il mio amore cerca proprio lì la cura al dolore nella ricerca di ciò che, andando oltre qualsiasi spiegazione razionale possibile, chiede un dialogo profondo con l’anima delle storie, la mia e la tua.

Il mondo non smette di ricordarci che le valutazioni delle persone guardano più a quanto sanno fare che a ciò che sono. Io cerco ogni giorno segnali di essenza, di cuore e di anime misteriose.

Non è questo il panorama che si osserva viaggiando in cielo sopra una scopa?

Cuori vicini

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Ciao Davidedi Irene Auletta

“Rovigo, nonno uccide il nipote di cinque anni e si suicida. Il piccolo soffriva di una malattia rara.”

Abituati alle notizie che ci passano attraverso questa, per chissà quante persone, è una tra le tante. Per me e per un ristretto gruppo di persone, no. Forse perchè quel bambino aveva la medesima sindrome genetica dei nostri figli, forse perchè con il padre e la madre era nato un contatto, per molti solo via facebook, di quelli che anche a distanza ispirano fiducia e simpatia. Forse perchè ci sono notizie che vanno a toccare corde che neppure osiamo pensare, figuriamoci nominare.

Io, ho subito sentito forte l’eco del dolore di quella famiglia spezzata, di quel genitore che in un solo momento ha perso padre e figlio e di quelle domande che forse non troveranno mai una risposta.

Magari si è trattato di un incidente, dico al padre di mia figlia. La mia mente, il mio cuore e la mia pancia rifiutano quel gesto che mi appare indicibile.

Eppure, proprio quel gesto, urla forte con grande strazio qualcosa che non osiamo mai dire. Di quanto a volte ci sentiamo sfiniti, senza forze, dubbiosi sulle nostre capacità di portare avanti quello che la vita ci ha riservato. Il grido di quel sentimento che tante volte risuona solo nelle nostre teste silenziose ma che riconosciamo bene negli occhi di chi, come noi, ne ha una grande confidenza.

Si chiama disperazione, la speranza smarrita.

Si sarà sentito così quel nonno? Avrà pensato a un nobile gesto di liberazione? Oppure si sarà trovato travolto da un bambino impacciato che non è riuscito a trattenere e che ha cercato di soccorrere mentre l’acqua li trascinava lontano?

Certo per quei genitori sarà molto diverso il sentimento che accompagnerà la vicenda, in uno o nell’altro caso. Ma in entrambi immagino un dolore senza respiro che stamane, quasi come uno strano contagio, sembra aver tolto il fiato a tutti quei “genitori amici” che rincorrono pensieri sulla pagina facebook che parla di una storia comune.

E con il cuore che batte a fatica sono qui a chiedermi cosa possiamo imparare da questi gesti o da queste situazioni estreme.

La mia parte più selvaggia vorrebbe gridare che queste sono vere tragedie e non tutte quelle cazzate per cui a volte si sprecano tante energie, inutilmente. La mia anima più quieta, in pace con il dolore che mi accompagna da anni, sente la possibilità di un grande apprendimento.

Forse dobbiamo tutti imparare a dire e a dirci, senza vergogna, di quando ci sentiamo disperati. Smetterla di fare sempre quelli forti che, a volte, si sentono pure fortunati.

Chiudo gli occhi e rimango con questa burrasca emotiva. Chissà che nonno e nipote non lascino, ai loro più cari, nuovi doni in riva al mare.

Libertà alla cannella

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libertà alla cannelladi Irene Auletta

Tesoro, dobbiamo assolutamente raccontare alla mamma che hai attraversato la strada da sola!

Tutum. Il cuore batte un colpo in accelerata mentre ti immagino fare qualcosa che per te non è affatto semplice. Penso che il babbo è davvero bravo a spingerti a provare, osare e sperimentare.

Il ruolo dei padri quando si manifesta con tale chiarezza è assai rassicurante e scalda parecchi angoli del cuore.

Ci separiamo perchè devo fare qualche commissione e al mio rientro vi vedo da lontano. Tu che attraversi ancora da sola sulle strisce pedonali mentre tuo padre ti attende sul marciapiede. Il sapore dell’ambivalenza è sempre un po’ dolceamaro ed è solo il gusto che sa di miele che mi spinge ad andare oltre la tua età anagrafica permettendomi così di assaporami con calma la scena. Rimango a distanza perchè non voglio disturbarvi in quel momento tutto vostro e anche da lontano si vede perfettamente il filo invisibile della fiducia e dell’amore che ti lega a tuo padre, tanto da farti sperimentare, con tutta l’evidente fatica, prove importanti.

Un raggio della memoria si illumina. Eravamo proprio lì, allo stesso angolo della strada vicino al nostro portone. Avevi sei anni e per l’ennesima volta avevo provato a invitarti a fare qualche passo da sola. Fino ad allora ogni volta, di fronte al mio invito, la tua mano si stringeva ancora più forte nella mia e, ogni volta, io risentivo nitidamente le parole di Angela, la tua insegnante Feldenkrais.

E’inutile che le gambe vadano avanti lasciando indietro la consapevolezza del gesto. Devono muoversi insieme e solo questo sarà il vero apprendimento.

Quanta sapienza in quell’invito ad attendere l’armonia tra gesto e coscienza. Io aspettavo, pensando spesso che non sarebbe mai accaduto e anche quel giorno ti ho rinnovato la domanda più per abitudine che per una reale convinzione.

Che ne dici, ci provi ad andare da sola per qualche passo? E tu, come al solito mi prendi alla sprovvista, mi lasci la mano e ti dirigi verso il portone, lentamente come a gustarti la tua “prima volta”.

Tutum, tutum, tutum.

Sono passati dieci anni da allora e io e tuo padre abbiamo migliorato l’armonia tra la mano che ti stringe forte e quella che ti permette di andare, lasciandoti. Si impara anche così a essere genitori.

La libertà, l’autonomia e le soddisfazioni hanno proprio il gusto dello sciroppo di Mary Poppins. Diverso a seconda di chi lo gusta e lo assapora.

Virtù in saldo

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Sollevare il figlio

di Igor Salomone

Mio padre mi ha insegnato che fare la cosa giusta non significa fare qualcosa di un po’ meno sbagliato degli altri.
Mio padre mi ha anche insegnato che essere migliore non vuol dire essere “il” migliore, e neppure meglio del peggio che mi sta attorno.
La virtù non può essere comparativa, e neppure superlativa, e nemmeno una somma algebrica con un segno “+” come risultato.
Ho passato l’intera infanzia, in effetti, a veder smantellate ogni sorta di giustificazioni.
Per questo con me non funzionano.
Sono diventato un esperto di fama mondiale in scuse, a forza di cercarne di sempre più sofisticate. Le conosco tutte. Allo stesso tempo, però, so cosa sono. So che giustificare un proprio comportamento a partire da quello altrui è il contrario di ogni forma di virtù. Ci si casca, certo, e spesso. Non si può mica essere sempre virtuosi. E la virtù non è uno stato, è una continua ricerca.
Per questo chi si proclama virtuoso senza se e senza ma, mi insospettisce.
Alla fine il più grande insegnamento di mio padre è che una scusa è una scusa. Può avere delle ragioni, ognuno ne cerca, ma nasconde sempre una debolezza e qualche lezione che deve ancora essere imparata.
La cosa più importante è riconoscerlo.
La cosa più grave è negarlo, trasformandola in un valore che gli altri devono rispettare.

Cercasi senso

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cercasi sensodi Irene Auletta

Avete presente tutti i giochetti di parole attivati dalla nuova definizione diversamente abili? Anche alcuni comici famosi ne hanno fatto cavalli di battaglia, il che mi fa pensare che l’idea sottesa di abilità diversa sia andata un po’ a farsi friggere. Vogliamo parlare dei diversamente belli?

La madre di un ragazzo disabile mi ha fatto riflettere proprio di recente su questo argomento, grazie al suo definirsi diversamente genitore che mi ha ricordato l’identica definizione data di sè stesso anche da parte di un padre separato con tre figli.

Alla fine, non so perchè, ho l’impressione che nell’idea di diverso che sovente raccolgo, si siano concentrate in gran parte valenze negative o problematiche e capisco che forse, proprio lì, confluiscono tensioni quotidiane che faticano ad essere nominate diversamente o altrove.

La differenza pesa come un macigno e al di là degli slogan sbandierati ad oltranza, chi la attraversa, anche per motivi assai differenti, sa bene che farci i conti ogni giorno non è affatto semplice.

Anche in ufficio mi fanno pesare di continuo i permessi che prendo, seppur autorizzati dalla legge, per accompagnare mio figlio alle varie visite mediche. Così mi dice una madre oscillando tra l’amareggiato e il rabbioso. Vorrei dirle che la comprendo bene, che ho sempre cercato di proteggere la mia vita privata da queste interferenze e che spesso, aprendomi, ho raccolto delusioni e comportamenti molto discutibili sia da un punto di vista etico che umano.

Faccio un giro dentro me stessa e mi accorgo che quel tipo di sentimenti li ho lasciati andare anni fa stringendo amicizia con il disincanto. Penso a cosa ho provato a fare io, a cosa sperimento quotidianamente e quindi provo a rilanciare.

Lei sa fare cose che altri genitori neppure immaginano e potrebbe di certo insegnare. Sarebbe bello fare un elenco di quanto la diversità rende possibile, per uscire dai clichè e per iniziare a raccogliere e valorizzare quanto della sua esperienza può dar senso alla fatica che nessuno può toglierle.

In fondo una frase del genere può riguardare una bella varietà di genitori o adulti in genere a patto che ci si liberi di quell’eco spiacevole che spinge a crogiolarsi più nel lamento che nell’attivazione di nuove ricerche di senso.

Ma come si fa? mi dice una madre sconfortata. Non ho ricette magiche da offrirle e mentre le rispondo, esplorando con lei nuove possibilità, la mente veleggia anche altrove.

Ci sono giorni più amari che lasciano il sapore di ferro in bocca e giorni buoni, che sanno di zucchero filato. Proprio come quello che tu, mio tesoro, hai finalmente scoperto il giorno del tuo sedicesimo compleanno.

Sarà mica stato diversamente dolce?

Lasciarsi e ritrovarsi

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lasciarsi e ritrovarsi 1di Irene Auletta

Mi hai accompagnato all’aeroporto e hai voluto per tutto il tempo rimanermi vicino rifiutando con decisione il contatto con Inna, la signora che da molti anni ci e’ vicina.

Mi hai stretto forte la mano ridendo e scrutando ogni particolare di quello strano luogo. Ti ho detto che mi avresti dovuto salutare dopo poco perché dovevo prendere l’aereo e tu, come di tua abitudine, hai mostrato di non ascoltare, facendo “finta di nulla”. La curiosità per quello che ci circonda attira la tua attenzione e ti fa assumere quell’aria attenta ai dettagli e ai particolari che sembra precludere altre possibilità di ascolto.

Inizio a salutarti dicendoti che ci rivedremo il giorno dopo e che verrai a prendermi con il babbo. Tu mi abbracci e poi il tuo sguardo si sposta oltre e interrompi con me qualsiasi tipo di contatto, fisico e visivo.

Non passano molte ore e la scena si ripete, praticamente identica. Solo che stavolta mi aspetti agli arrivi dell’aeroporto, con babbo che ti fa la telecronaca in diretta di tutti i miei movimenti dal momento della partenza, dell’atterraggio e dell’imminente arrivo.

Ti vedo prima che tu possa scorgermi e l’amore mi soffia incontro mentre, con la serietà che ti contraddistingue in alcune situazioni, mi cerchi tra la folla. Appena mi vedi ridi, salti e fai suoni con la voce di saluto e di gioia. Accetti un mio bacio e un breve abbraccio poi, di nuovo, poni tra noi la distanza di sicurezza e ti aggrappi alla mano del tuo babbo.

Quando le emozioni sono così forti bisogna fare una pausa e mettere nel mezzo del tempo che aiuti a ritrovare nuovi equilibri. Negli anni ho imparato a moderare le mie attese e ad aspettarti e forse, ho anche imparato a rispettarti, senza far prevalere il mio desiderio di adulta.

Mentre ero lontana, proprio in occasione dell’impegno che mi ha fatto prendere l’aereo, un padre con una figlia disabile, sapendo di te, mi ha detto che secondo lui il dolore passa quando guardi tua figlia e la smetti di pensare a ciò che avrebbe potuto essere.

Io, sono una madre e può essere che con il dolore stia facendo conti un po’ differenti. So per certo però che i tuoi saluti di questi giorni, non li cambierei con quelli di nessun’altra figlia al mondo.

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