Viaggiando pensieri

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di Irene Auletta

I nostri viaggi in auto sono da anni uno spazio sacro che ci permette di attraversare alcuni momenti vivendo una quieta tregua. Da quando poi sei diventata abbastanza grande per viaggiare seduta al mio fianco, mi godo quasi sempre pause di pace serena, osservandoti.

Quando eri piccola, molto spesso ero travolta dall’esigenza di riempire il vuoto del tuo silenzio, soffocando con le mie parole vuote e inutili tutto l’indicibile che stavo attraversando. Poi, pian piano, e’ arrivato l’ordine a sistemare i pensieri e i battiti del cuore e da allora il tuo silenzio e’ diventato uno dei momenti più pieni e intensi del nostro stare insieme. 

Ti guardo seduta al mio fianco mentre guido tranquilla in una città quasi deserta per le festività natalizie. La musica ci accompagna dolcemente a sostegno di quegli sguardi pieni che ci scambiamo ogni tanto. 

In realtà io cerco di ascoltare il più possibile il racconto dei tuoi occhi e provo a immaginare cosa ti arriva oltre, nella mente e nelle emozioni. Mondi imperscrutabili a cui ormai mi sono completamente arresa.

Eppure, in questa bolla c’è tanta energia e io stessa, come te, ci metto un po’ a decidermi di lasciare quel luogo sicuro per gettarmi nel mondo. 

E così tu, per farmi sentire proprio intensamente il rifiuto di quell’idea di gettarsi oltre, fai di tutto per rendere complicato il passaggio successivo. Non vuoi scendere, poi non vuoi salire in ascensore, non vuoi togliere il capotto. Non, non, non, moltiplicato parecchie volte. Anche per te e’ difficile vero amore?

Inutile ripetere (ma forse no, continuerò fino alla nausea!) che ripenso a queste scene ogni volta che sento alcuni operatori che lavorano con persone disabili parlare di comportamenti testardi, oppositivi, poco collaboranti. E via di questo passo in una fiera di banalità a cui, per fortuna, non mi sono ancora arresa, forte anche dell’incontro con tanti altri operatori sensibili, competenti e attenti.

La povertà dell’altro sovente riflette la povertà degli sguardi che incontra e ahimè ancora oggi, con la disabilità di strada ne abbiamo da fare parecchia. Ma se lo immaginano questi operatori, il peso di alcuni zaini di vita, le fatiche di ogni giorno, il bisogno di farsi capire da un mondo sordo? E poi, sia chiaro, non parliamo di una fatica o sofferenza di passaggio, che questa appartiene all’umano, ma di una condizione di vita che, a fianco della persona disabile, diventa quella della sua famiglia. Iniziate a moltiplicare per quindici, venticinque, trentacinque, quarant’anni.

Forse, dove non riesce ad arrivare la competenza professionale e il sapere tecnico, potrebbe esserci uno sguardo capace di cercare senza smarrirsi in facili etichette. Io, in tutti i luoghi professionali che attraverso, non perdo l’occasione e la speranza di continuare a nominare altro, quanto meno, fa bene a me.

Con le stampelle dei tanti non alla fine riusciamo a voltare pagina e anche stavolta buttarla in musica e’ un modo per salvarsi. 

E poi Luna, guarda un po’ cosa troviamo ad aspettarci?

Hey, hey, hey, hey, hey 
Proverò a pensarti mentre mi sorridi 
La capacità che hai di rasserenare 
Mi hai insegnato cose che non ho imparato 
Per il gusto di poterle reimparare 
Ogni giorno mentre guardo te che vivi 
E mi meraviglio di come sai stare 
Vera dentro un tempo tutto artificiale 
Nuda tra le maschere di carnevale 
Luce dei miei occhi, sangue nelle arterie 
Selezionatrice delle cose serie 

…….

I bambini ci guardano

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di Irene Auletta

Ho parlato molte molte del peso degli sguardi e della fatica di farci i conti ogni giorno ma in questi ultimi giorni mi hanno colpito in modo particolare gli sguardi dei bambini, anche molto piccoli. All’inizio ho pensato che fosse solo una coincidenza ma poi, incuriosita da alcune osservazioni ricorrenti, ho iniziato a farci caso con maggiore attenzione.

Ora, è cosa certa. Anche i bambini nel passeggino vengono raggiunti dalla tua diversità. Si fermano attenti a osservarti, curiosi di quella curiosità infantile, senza giudizio o pregiudizio. Già nel giro di pochi anni, il loro sguardo non mi pare più così limpido ma diventa carico di quelle domande che si intravedono senza neppure troppe censure nelle espressioni dei grandi.

Ieri ci siamo regalati il primo picnic della stagione, all’aperto e sempre un po’ isolati nella nostra bolla che, in verità, esisteva ben prima della pandemia.  Mentre siamo all’interno del parco, nel percorso verso la nostra meta, un papà passa in bici con la sua bambina, di non più di quattro o cinque anni, seduta nel seggiolino posteriore. Ci passano a fianco diverse volte e ogni volta la bambina non ti stacca gli occhi di dosso e quasi si contorce sul seggiolino per non perderti di vista fino all’ultimo istante per lei possibile, mentre il babbo si allontana pedalando.

Una, due, tre volte. Sarà pure una bambina ma oggi mi scoccia in modo particolare e così metto in atto alcune delle strategie inventate negli anni, forse per proteggere più me che te.

Però, poco dopo, non posso fare a meno di continuare a pensarci e la mia anima pedagogica continua a chiedersi cosa riescano a cogliere i bambini e perchè, sin da così piccini, siano tanto attratti dalla differenza. Forse per parlare di inclusione dovremmo partire proprio da lì, da quegli sguardi innocenti, da quella curiosità, da quella voglia di capire.

Forse, così facendo, potremmo sperare in un mondo più leggero anche per noi, che ci faccia passare felicemente inosservati. Forse.

Te lo racconto addolcendo tutte le parole tra noi possibili e come sempre ti curo e mi curo, ti guardo e mi guardo. Per oggi il verde e l’azzurro sono nostri amici. Per oggi, può bastare.

Pensieri in vacanza

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di Irene Auletta

Cos’è la normalità? Difficile dirlo e forse proprio per questo a me risulta ancora più immediata la percezione di sentirsi fuori luogo proprio grazie all’attraversamento di esperienze comuni. Il momento della vacanza in fondo è uno di queste e spesso sembra sottolineare quelle sfumature che nella quotidianità tendono a scomparire o ad apparire più sbiadite.

Appena arrivati in montagna ci cimentiamo con il repertorio delle tue variegate reazioni, con cui conviviamo non facilmente da sempre e che evidenziano il tuo modo di reagire alle novità e al cambiamento. Il dettaglio rimane nella protezione della nostra storia ma le reazioni altrui, come uno specchio impietoso, ci riflettono nel loro sguardo. 

E’ malata? Si sente male? Avete solo lei? Che peccato!

Io e tuo padre ci sosteniamo a volte anche con una buona dose di cinismo perchè in talune circostanze questo nostro mondo parallelo assume tinte assai fosche e a tratti bizzarre. Le cose apparentemente più semplici diventano immediatamente diverse e la scommessa continua è trovare sempre nuove strategie per non soccombere e per trovare rinnovati equilibri possibili.

Penso lo stesso guardando fotografie estive di tante altre famiglie con i loro figli disabili e dietro ogni risata, immagine simpatica e riflessi di bellezza, intuisco quel non detto a noi assai familiare che mi pare importante non smettere mai di proteggere dall’invadenza del facile giudizio.

Che peccato! Rifletto su quell’espressione ascoltata tante volte e che negli anni ha assunto sempre nuove tonalità. Molti di quelli che parlano con leggerezza del bello della differenza temo siano assai lontani da molte storie analoghe alla mia e sovente lo fanno comodamente affacciati dal loro balcone che non vorrebbero mai immaginare differente.

Io credo al contrario che non smarrirne i costi, che rimangono altissimi, sia una via per non rimanerne schiacciati e per imparare a gustarne quelle peculiarità che diventano la bellezza della nostra normalità. Quel tu, noi, vita che è esattamente questo e che, tra burrasche e quiete, ci definisce, nel riso e nel pianto. Tanto, tantissimo nelle nostre risate.

E così ho trovato una risposta, che ho già messo nella valigia per il mare.

Amore arcobaleno

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di Irene Auletta

Ed eccoti qui con me mentre sono in viaggio.

A Modena sale sul treno una madre che vedo passare dal finestrino e che arriva proprio qui, nel mio scompartimento, insieme a sua figlia disabile. Come faccio sempre, evito di orientare dalla loro parte il mio sguardo, consapevole delle pesantezze che ogni giorno noi genitori portiamo nel nostro personale zainetto.

La signorina in questione però non ne vuole sapere di non attirare l’attenzione, nonostante gli inviti della madre ad abbassare il tono. Canta e chiacchiera a suo modo e, grazie al fatto che è seduta alle mie spalle, incrocio la curiosità e i punti di domanda nelle facce degli altri passeggeri. Quanto li conosco quegli sguardi!

Mi raggiunge il tono delicato e sottovoce della madre e mi accorgo di sorridere con un pizzico al cuore, mentre apparentemente sono intenta a digitare sul mio Mac, come una qualsiasi donna diretta da qualche parte, evidentemente per motivi di lavoro.

Ripenso ad uno scambio di post su Facebook avvenuto proprio poco fa. Una madre con una bambina piccola che pone timide domande, non nascondendo paure, angosce e tanto dolore. Mi sveglierò e scoprirò che era solo un brutto sogno? sembra chiedersi nei suoi commenti.

Le storie sono tanto diverse e tanto uguali. Le prime osservazioni di ritardo nello sviluppo, i dubbi, il sospetto della diagnosi e infine, più o meno rapidamente, la sentenza. Io ricordo bene una sensazione quasi contraddittoria di un rumore fortissimo di sogni infranti e attese deluse, accompagnata da un dolore sordo che prima di uscire mi ha fatto rantolare per parecchio, nella mia casa e nel mondo, per me rimasto ovattato e lontano per diversi anni.

Non so quanto i terremoti dell’anima assomiglino a quelli della terra, ma io ho tremato parecchio tra sconquassi e crepe profondissime. Poi, ricordo con esattezza quel giorno. Ci ho guardate riflesse in una vetrina e mi sono vista tristissima mentre tu cercavi di attirare la mia attenzione. Un triplice colpo al cuore. Ora basta.

Da lì in avanti la storia è cambiata e il diritto all’allegria, alla gioia e all’amore incondizionato diventando il condimento di tutte le mie giornate con te, alla fine, hanno finito per contagiare tutta la mia vita. La felicità non ha solo un colore e ogni giorno mi impegno a non perderne nessuna sfumatura, nel nostro arcobaleno di madre e figlia. 

Te lo devo, me lo devo. Oggi diversamente non potrebbe essere. Domani, si vedrà.

Il tepore degli sguardi

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di Irene Auletta

Ultimamente mi sono ritrovata a riflettere sui gesti delle madri. Su quelli che agiscono e quelli che ricevono, anche in termini di sguardi. Non ho potuto evitare di pensare a me e a tante madri che, come me, a fianco di figli disabili incontrano un mondo differente, anche nei gesti e negli sguardi. 

Ricordo ancora molto bene la sensazione di parecchi anni fa, quando  prestai le mie braccia al figlio piccolo di un’amica. Eravamo in giro a fare una passeggiata e, proprio per differenza dalla mia quotidiana esperienza di madre, mi colpirono molto gli sguardi aperti e sorridenti, i commenti piacevoli e i sorrisi. Niente di particolare o straordinario, si potrebbe pensare. Le altre madri conoscono molto bene queste reazioni, spesso femminili e può essere che proprio la familiarità con queste esperienze, le trasformi in normalità quotidiane.

Io invece appartengo a quella categoria di madri non abituate a sguardi gentili. Anche se il passare degli anni ha reso il fardello assai più leggero, ancora oggi racconto spesso del carico che mi riporto a casa ogni volta che esco con mia figlia. 

Curiosità, compassione, timore, paura, dispiacere. I primi anni vedevo solo questi. Oggi il panorama è decisamente più ricco e, a fianco di queste reazioni ed espressioni, ogni tanto intravedo dolcezza, tenerezza e stima. Certo, inosservate mai!

Strade lunghe e tortuose le nostre che ingaggiano noi madri pellegrine in percorsi di crescita, tra dolori e nuovi possibilità, sconforti e sorprese, conferme e apprendimenti inediti.

A noi tutte, per la nostra festa, voglio fare l’augurio di sentirsi ogni giorno più leggere,  con la speranza di uscire per strada e incontrare, sempre più di frequente, sguardi tiepidi.

Al tepore dei pensieri

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PENSIERI in cittàdi Irene Auletta

E’ sera tardi, di ritorno dalla mia lezione Feldenkrais mi sto pregustando il ritorno a casa dopo una giornata molto intensa e sono in attesa dell’ascensore. Vedo al cancello un giovane uomo che so abitare nel mio stesso palazzo e gli apro dall’interno. Mi ringrazia sottovoce. E’ una persona molto riservata che evidentemente fa qualche fatica a entrare in relazione con il mondo e, anche lui, sembra impegnato a vedersela con i suoi demoni.

Entriamo nella nostra piccola ascensore e, sempre guardando il pavimento, sento che mi chiede “ma è tua figlia?”. Al momento, essendo lì da sola, non capisco e mi accorgo che ho paura di metterlo a disagio. Immagino il pensiero completo che l’ha portato a quella domanda e quindi dico che se si riferisce alla ragazzina che vede spesso in mia compagnia, sì, è proprio mia figlia. E lui? Lui è tuo marito?

Rispondo e sempre molto sottovoce lui inizia a ripetere che è assurdo, veramente assurdo. Pochi scambi, lui arriva al suo piano e ci salutiamo cordialmente.

Ripenso all’intensità del suo commento, alla fatica fatta per entrare in relazione con me, alla voglia di condividere un pensiero colorato di una peculiare sfumatura di solidarietà. Di solito le domande dirette su mia figlia e sulla mia famiglia mi colgono abbastanza sulla difensiva grazie alla mia natura un po’ orsa ma quest’incontro mi lascia una piacevole sensazione.

Ieri ci stiamo concedendo una pausa. Godendoci il tepore del sole del tardo pomeriggio, siamo di fronte all’aperitivo mentre nostra figlia guarda piccoli video sull’Iphone sperimentando nuove tecniche per far scorrere le foto.

Mara, la signora che insieme alla sua famiglia gestisce il bar sotto casa, viene a salutarmi e, chiedendomi come sto, sottolinea che non mi vede da tanti giorni. Le dico che sono stata un po’ presa, perchè mia figlia non è stata molto bene. Sorride comprensiva quando il mio compagno di aperitivo non perde l’occasione di sottolineare che quando la nostra ragazzina ha qualche difficoltà, io prendo distanza dal resto del mondo e vado solo in un’unica direzione. Quando ci salutiamo la ringrazio per il pensiero e lei con leggerezza mi dice che domattina mi aspetta per il caffè. Avvicinandosi con la cautela e il rispetto che in tutti questi anni le ho visto esibire nei nostri confronti, non perde l’occasione di dirmi che mi pensa sempre e se per qualche giorno non mi vede passare per il caffè di rito si chiede subito se c’è qualcosa che non va.

Spesso gli sguardi altrui sono molto pesanti e faticosi da sostenere. Pensando a questi due recenti scambi ne gusto la delicata leggerezza e penso che ci sono incontri belli che vanno proprio raccontati per trattenerli.

Mi sono persa via scrivendo e mi accorgo che è ora di iniziare a organizzarsi per affrontare questa nuova giornata. Stamane non posso mancare ad un appuntamento.

Mi aspetta un profumatissimo caffè.

Domande impossibili

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di Irene Auletta

Ogni volta ci provo, mi impegno e ritento. Ma non c’è niente da fare, l’eccesso di convivialità, i ritrovi in grandi gruppi, lo “stare tanto insieme”, non fanno per me.

Poi però, proprio in questi giorni, mi sono chiesta se anche per me non valga la storiella della volpe e dell’uva.

Cioè, se mi fossa ritrovata in un gruppo di adulti, bambini e ragazzi, con una figlia diversa dalla mia, sarebbe cambiato qualcosa? Magari, in un’altra vita, anche a me sarebbe piaciuto scambiare chiacchiere al parchetto sotto casa, intrattenermi con le altre mamme davanti alla scuola, trascorrere fine settimana con altre famiglie permettendo ai nostri figli di giocare tutti insieme, inventandosi ogni volta, in posti nuovi, nuovi modi per stare insieme.

Chissà. Questa è una delle tante cose che non saprò mai anche se, a naso, ho qualche perplessità.

Però ogni volta ho la conferma di cosa mi rende l’esperienza ancora più insopportabile, proprio a partire da quella che è la mia realtà.

Sfilare quasi sempre sotto sguardi che ti inseguono, tollerare le solite domande di adulti e bambini, sentirsi sempre un pianeta altro. I ragazzi  per fortuna non si filano nessuno e quindi ci graziano! E ancora. Tollerare le frasette quasi sempre in falsetto, come quelle un po’ schiocchine che si utilizzano con i bambini piccoli, nel linguaggio dell’amore o con gli anziani non più tanto in sè.

Intendiamoci, a me queste frasette piacciono assai, ma se a pronunciarle sono appunto i protagonisti delle relazioni d’amore o di affetto, gli amici, i nonni. Altrimenti mi mandano al manicomio.

Facile a dirsi tutte le spiegazioni super razionali del caso e a darsi le varie motivazioni. Provate però a moltiplicare tutto, ma proprio tutto, per quasi quindici anni e poi provate a chiedervi quanto vi sentireste tolleranti e disponibili a comprendere che anche l’altro, ha le sue difficoltà.

Insomma, anche questa volta non esco dal garbuglio. Mi piacerà l’uva?

Figli da lontano

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di Irene Auletta

Proprio ieri,  guardando una foto di mia figlia, mi hanno ricordato che un medico antroposofo anni fa,  a proposito del suo sguardo, disse “viene da lontano”.
Non ebbi allora la prontezza di chiedere come sono i bambini che arrivano “da vicino” forse perché in cuor mio già la sentivo una figlia che mi avrebbe fatto attraversare mondi di esperienze e di significati.
Ma l’esperienza di diventare ed essere genitori non offre a tutti la medesima possibilità?
Quanti di noi guardando le prime ecografie e poi il proprio figlio appena nato hanno avuto la sensazione di trovarsi di fronte ad un vero miracolo?
Forse, anzi quasi certamente, quel medico voleva anche dire altro, ma mi piace l’idea di trattenere qui solo alcuni aspetti della sua affermazione per parlare delle misure dell’incontro tra genitori e figli.
Perché di incontro si tratta e troppo spesso rischiamo di dimenticare che il bello e’ di scoprirsi e conoscersi pian piano, di non darsi per scontati e di non abbandonare la meraviglia della sorpresa che può risultare’ offuscata dalle nostre aspettative deluse.
In fondo, ripescare quel commento e quel ricordo, ha dato voce, dopo parecchi anni, alla domanda “che figlia sei ?” .
Può essere che ogni genitore abbia in mente lo stesso interrogativo che magari ogni tanto fa capolino in particolari occasioni della sua storia.
Ricordarlo, o anche solo provare a nominarlo, può essere un modo per riportare alla memoria le tracce dell’incontro, le sorprese della nuova conoscenza e il proprio essere e percepirsi in una storia che si costruisce e si protegge narrandosi.
Te l’ho già raccontato figlia mia? Quando eri piccola un medico guardandoti ci disse….

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