Numeri in libertà

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di Irene Auletta

Ed eccoli in arrivo, fra pochi giorni, i miei prossimi anni con un nuovo zero. Mia madre di recente ha avuto da ridire sulla cifra perchè secondo lei sono dieci di meno. Ma sei sicura? Secondo me ti sbagli e poi comunque la differenza la fa come uno si sente! Il bello di una mente al tramonto è che a volte non smette di riservare sorprese che strappano un sorriso. Va bene mamma, io le età le tengo buone tutte e due e poi decido di giorno in giorno quale scegliere.

In realtà, se proprio devo essere sincera, non saprei dove orientarmi perchè a partire dal numero venti, ogni decennio è arrivato al suo compimento in un momento critico della mia vita personale. Forse questo accade perchè lo zero ricorda un cerchio. Raccoglie, chiude e si ricomincia. Con questo pensiero mi accingo alla mia lezione Feldenkrais che per fortuna in questi tempi mi sostiene e aiuta nel prendermi cura del mio corpo e di me, affinché io possa continuare a farlo nei confronti di chi mi circonda.

Mentre distesa ascolto e mi ascolto, in un bel dialogo muto con il mio scheletro, cosa che sicuramente conoscenti e amanti di questo metodo potranno maggiormente apprezzare, l’immaginazione trasforma le mie braccia da piccole estremità iniziali ad ampie ali.

Negli anni ho imparato a trovare nuove tinte possibili alla libertà, cercando di godermi al massimo attimi rubati in una vita che è la mia. Ho imparato che i voli possono condurre altrove oppure dentro di noi, a scoprire avventure nella ricerca delle nostre possibilità.

Oggi le mie ali, la mia voglia di andare, di scoprire, di sperimentare, hanno trovato nicchie dove tutto è possibile e ancora una volta mi ritrovo a pensare che questa mia figlia con un nome che appartiene al cielo mi insegna ogni giorno a stare con i piedi per terra, a scoprire che anche i pertugi nascondono sorprese di luci inattese.

Per lo stesso motivo devo ringraziare anche mia madre che mi ha insegnato a cercare sempre, soprattutto nel buio, la bellezza e questo non l’ho mai dimenticato.

Con questo stato d’animo ti aspetto nuovo zero, con la voglia di proseguire nell’avventura e la speranza di continuare a imparare attenta a non perdere mai di vista la mia innata gioiosità e con lei me stessa.

A tutto il resto, tanto, ci pensa la vita.

Videofragilità

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di Nadia Ferrari

Sono ormai due settimane che non ti vedo, due settimane interrotte solo da due video chiamate che, più che riempire una mancanza, l’hanno amplificata. 

Un mezzo che non conosci, un piccolo schermo che ci riprende ma tu sei quasi cieca e perciò non mi vedi. Un dialogo monco, stentato, a singhiozzo, interrotto da cose che non senti, da vuoti silenziosi e da continue ripetizioni ad alta voce. Domande disgiunte dalle risposte che cadono nel nulla e che ti fanno cedere velocemente alla voglia di chiudere ed andartene. 

In più la tua memoria fatica a trattenere il senso di quanto sta accadendo e il perché io non posso essere li con te. Due video chiamate in cui tu non riuscivi ad esserci e non c’ero nemmeno io. Afasica ed ammutolita dall’impotenza di poter avere un contatto, del resto tu fai già tanta fatica ad “esserci” in presenza.

Sono innumerevoli le volte che ho immaginato di perderti cosi senza poterti vedere più, perderti, anche solo con la mente, senza poterti salutare, senza poterti accompagnare. Se il destino o il virus decidesse che questo è il momento. Ecco il mio peggiore pensiero. Lasciarsi nell’impossibilità. 

Io intimamente nutro la fantasia, la speranza, che quando arriverà per me quel momento, il fato mi permetterà di salutare tutti, amici compresi. Vorrei congedarmi dall’esperienza quaggiù, l’unica per me, con il tempo di godere delle testimonianze. Sarebbe bello… 

Il film Le invasioni barbariche lo ricordate? Ecco cosi. 

Ma oggi mi hai chiamato, sempre coadiuvata dalle cure delle care operatrici della RSA e immediatamente alle prime battute ti ho sentito diversa.

  • Mamma come stai?   
  • MALE! hai risposto decisa e con un piglio che poi per mitigare la rabbia hai trasformato in un sorriso. Tu che non sorridi mai.
  • Perché mamma? 
  • Perché non ci sei, hai risposto. 

Sei bella nel video mamma, sei viva, ora so che non mi hai ancora dimenticata. Finalmente mamma, eccomi, sono qui. 

Respiri di settembre

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di Irene Auletta

Siamo solo a metà settembre ma sempre più spesso raccolgo commenti che sottolineano riprese già in affanno, settimane molto impegnative e periodi pieni.

Mi sono imposta lentezza al rientro dalle vacanze e forse per questo mi colpiscono questi commenti tanto orientati alla rincorsa di mille cose da fare, che poi, inevitabilmente, qualcuna ne rimane sempre fuori.

Qualche giorno fa, mentre ho rischiato per l’ennesima volta di perdere la coincidenza per ritardo del Freccia Rossa, complici i tacchi, mi sono imposta il mantra della mia maestra Feldenkrais, “velocemente ma senza fretta”. Forse sto invecchiando ma tutto questo affanno da tempo  lo sopporto poco e soprattutto ho maggiore consapevolezza del fatto che mi toglie, oltre al respiro, il piacere dei piccoli particolari di quanto mi circonda. 

Prima della partenza ci siamo guardate insieme il finale del film che ti sei gustata al rientro dal Centro. Mezz’ora tutta per noi, immerse in quel nulla pieno del tanto che ho messo in valigia come compagnia fino al giorno successivo. Il silenzio del nostro amore mi ha insegnato a rallentare per ascoltare e a tacere per sentire.

Ma secondo lei mia figlia, con questa grave disabilità, quando non ci sarò più sentirà la mia mancanza? mi ha chiesto qualche tempo fa una madre che probabilmente neppure immagina quanto la sua domanda mi riguardi.

Il ricordo di questo incontro riemerge, quando meno me l’aspetto, a pizzicarmi gli occhi e, mentre ragiono sulla lentezza, penso che forse la strada è proprio quella di non perdersi occasioni preziose per donarsi quel tempo che lascia segni nella carne e nel cuore. Mi piace pensare che il ricordo rimarrà in quelle sensazioni che l’esperienza ha reso possibili e questo, nella tristezza, come un magico unguento arriva a curare le ferite.

Poco dopo, un sorriso si affaccia a salvarmi da un attacco di malinconia quando ferma al semaforo sento un ragazzo dire: signori e signore aspettate un attimo a mettervi il cappotto, siamo ancora in estate! 

Si, andiamo piano penso, che le tracce della memoria, come i semi più sensibili, hanno bisogno di cure, calore e tempo. E, solo allora mi accorgo che, lentamente, ho ripreso a respirare.

Passa il tempo e i ricordi tornano a trovarmi

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di Franca Rozzoni

Franca nella lettera si riferisce a quando aveva 19 anni ed era il 1949. Oggi è bisnonna. La conosciamo soprattutto attraverso le parole di sua figlia Luigina ma abbiamo avuto il piacere di stringerle la mano.

Carissimo papà Angelo,

Non lo so, ma in questi giorni così bui mi è venuto in mente questo lontano aneddoto.

Ai tempi facevo l’infermiera in convitto all’Ospedale di Cernusco sul Naviglio, ero a cena e mi hanno chiamato dalla portineria dicendo che qualcuno mi voleva. 

Eri tu papà, 

ti visto dopo un po’ in mezzo a tanta gente, tutto nero perché lavoravi a riempire le caldaie che funzionavano così a quei tempi, con il carbone.

Incredula della tua presenza ti ho chiesto: “con chi sei venuto?”, pensando che qualcuno ti avesse accompagnato sino a me da Milano! 

E tu: ” sono qui in bicicletta”.

Ti ho consegnato il mensile che avresti portato con te per la famiglia sino a casa a Castel Rozzone e in questa consegna di una busta, con un occhiata veloce e intensa, ad ognuno di noi due e’ scesa una lacrima. 

Le tue le ricordo ancora, due righe bianche nel tuo viso nero. 

Ricordo che sono corsa via, scappata direttamente in camera, a piangere di nascosto e pensavo a te, ai tuoi sacrifici, alla strada che avresti dovuto fare al freddo e al gelo, coperto solo dal mantello nero e dai guanti di pelle di coniglio. 

E mi dicevo, “perché nella vita tutti questi sacrifici “?

Intorno a me si sono riunite vicino a consolarmi Suor Francesca e le mie colleghe.

Ti chiedo scusa papà perché sono scappata via, non perché eri tutto nero, questo te lo voglio dire, insieme a tanti sacrifici abbiamo aggiunto anche questo!

Ora nel posto dove sei non sei più solo, c’è la mamma Angela, tre nipoti giovani Massimiliano, Eliseo 1 e Eliseo 2, tua figlia Giovanna e mio marito Andrea. Siete una bella squadra e sono sicura che da là mi state dando il vostro sostegno e aiuto. Io continuerò a pregare per voi con un caro ricordo di tutti voi.

Tu mi hai sempre detto di essere forte … scusa papà se qualche volta non lo sono stata!

Un fortissimo abbraccio, Tua figlia Francesca

Addio Luchino

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In morte del comandante Maino

“Mi faresti parlare un’oretta con i tuoi?”, mi avevi chiesto una quindicina d’anni fa quando ancora giravi per le scuole a parlar di Resistenza.
“Sto preparando una lezione sull’8 settembre che devo fare nei prossimi giorni, e vorrei provarla”
Ero a Torre degli alberi, la tua reggia di sempre immersa in una collina densa di serenità in tutte le stagioni, e conducevo uno dei tanti seminari per aspiranti consulenti pedagogici che in quegli anni tenevo alla “Costantina”. Proprio a due passi da casa tua.
Ti avevo conosciuto anni prima, poco più che ottantenne, praticamente un giovanotto, appena reduce da una frattura al femore che ti eri procurato cadendo da una moto. L’incidente ti aveva lasciato solo un incedere leggermente zoppicante, per il resto eri attivo e forte come una roccia. Sapevo già del tuo passato partigiano, ma non avevamo ancora avuto occasione di parlarne, anzi, di sentirtene parlare.
Quel giorno mi cogliesti alla sprovvista. I “miei”, come li avevi chiamati, erano reduci da due giornate intense di lavoro seminariale che li aveva occupati anche la sera precedente, quindi chiedergli di occupare un’altra sera mi preoccupava. Temevo non avrebbero retto o che si sarebbero defilati. Del resto nessuno di loro sapeva chi fossi e chi ha voglia di ascoltare, dopo una giornata di duro lavoro, vecchie storie ingiallite dal tempo?
Poi parlasti, e i volti un po’ scettici e un po’ seccati che ti stavano fissando si trasformarono con la stessa rapidità con la quale raccontasti il crollo del tuo mondo all’indomani dell’8 settembre 1943. Stupore, rabbia, commozione, ammirazione, il gruppo era una tavolozza di emozioni che annodava le gole e inumidiva gli occhi. La tua voce salda, profonda, autorevole, le parole dirette, chiare che snocciolavano fatti impensabili eppure accaduti, la tua postura in mezzo a noi e radicata in in un altro mondo, avevano sospeso il tempo. Non avevamo idea di quanti minuti-ore-anni fossero trascorsi, ma quando terminasti ci sentimmo tutti più piccoli, molto più piccoli.
“Secondo voi può andar bene?”, ci chiedesti alla fine. Non ricordo cosa rispondemmo.
Quel giorno ho imparato molto sulla dignità. Sulla dignità che va raccontata e sulla dignità del racconto. Ho anche imparato molto sulla responsabilità che convoca ognuno di noi sempre, anche e sopratutto davanti al tracollo di ogni punto di riferimento, quando non c’è più nessun Re e nessun Dio a cui dar conto delle proprie scelte e rimane solo la tua coscienza. Ho imparato molto, infine, sulla solidarietà capace di oltrepassare le barriere ideologiche, sociali, di lignaggio e che ti spinge a fare il tuo dovere quando hai deciso quale sia il tuo dovere.
Sei stato un Maestro, Luchino e anche se sono ormai molti anni che non ci frequentiamo, mi mancherai. Mi mancherà sapere che un uomo come te è comunque lì da qualche parte a condividere il senso di questo mondo faticoso e difficile. Mi mancherai e farò del mio meglio per raccogliere quel che posso della tua eredità.

Con gratidudine e affetto
Igor

Pieno di bellezza

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pieno-di-bellezzadi Irene Auletta

Poi ci sono quei momenti in cui il tempo rallenta e il pomeriggio si riempie di incontri, di pensieri, di ricordi. Con mia sorella decidiamo di andare a fare visita ad una cara zia rimasta di recente vedova.

Mentre ci viene incontro per accoglierci la sua immagine si sovrappone a quella di sua madre a noi altrettanto cara, Zia Stella. Il tempo passato ci fa questi scherzi e così, mentre lei ci chiama ancora ragazze, io ritrovo nel suo sguardo maturo e nel suo modo di esprimersi quella stessa persona che tante volte ha ascoltato i miei commenti di bambina e il mio mare in tempesta di adolescente.

In un attimo ci ritroviamo a passarci un magico filo su cui infiliamo racconti, aneddoti, impressioni e ricordi a cui si intreccia il tema della mancanza di chi ci ha lasciato da pochissimo o da più tempo. A volte ci sono le parole e altre solo sguardi che si cercano per dirsi di quel dolore, di quella nostalgia ma anche di quelle gioie condivise e di quelle vicinanze che nel tempo si ritrovano come se non si fossero mai allontanate per tanto.

La profondità dei nostri scambi è tale che a momenti devo ricordarmi che sono una donna adulta e non più quella ragazzina che tante volte ha chiesto Zia Marisa cosa ne pensi?

E lei ci regala racconti di nostra madre giovane descritta così bene che subito la vedo camminare per il paese, con quel vestito bianco a fiori e i capelli raccolti in una coda di cavallo che nel suo movimento esprime tutta la vitalità di quella sedicenne che neppure poteva immaginare che sarebbe diventata mia madre. Vostra madre è stata proprio una bella madre e non dico brava volutamente perché bella, per me, è molto di più!

E poi i ricordi di noi piccole e di mia figlia di pochi mesi che ha ingannato anche lei. Appena l’ho vista ho pensato subito che non poteva che essere tua figlia con tutta quell’energia … chi avrebbe immaginato? E così passano le ore raccolte in uno spazio che diventa caldo di tante emozioni tra occhi lucidi e risate, tra mani strette e sorrisi di grande affetto. Mentre ascolto mia zia parlare capisco perché l’ho sempre riconosciuta tra le persone che hanno lasciato dentro di me tracce indelebili capaci di insegnarmi a incontrare la vita. E lei sembra saperlo in quella stretta con cui ci salutiamo, nei nostri occhi pieni e in quel ringraziamento ripetuto di un pomeriggio che è stato un dono prezioso.

Tornando a casa ti chiamo mamma e ti racconto di te, di quel vestito a fiori, di quei tanti pomeriggi passati insieme con le Zie e parliamo di come entrambe le ricordiamo importanti e capaci di aiutarci in un delicatissimo momento della nostra vita. E tu, come sovente accade, mi stupisci dicendomi che le persone belle rimangono sempre vicino al cuore e bisogna mantenerle preziose nel ricordo. Che dici ‘a mamma?

Poi, ci sono quei momenti in cui il cuore fa il pieno di vita ….

Il dolore e la memoria

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il dolore e la memoriadi Irene Auletta

Ricordare è importante anche se ricordare fa male.

Chi si lamenta sempre dei nuovi veicoli e luoghi di comunicazione moderni dovrebbe forse imparare a gustarsi il tepore della condivisione possibile, proprio grazie ad essi. Attraversando le diverse pagine di facebook, i siti e i blog, oggi, giorno della memoria, ho avvertito un’eco di pensieri, sospiri, dolori, voglia di non dimenticare e desiderio di ricordare insieme.

Come se la memoria, grazie al fatto di essere collettiva, assumesse una nuova forma, più solida, più capace di non dimenticare e di reggere il dolore del passato e del presente.

Le tragedie di ieri mi sembrano tanto più cocenti quanto legate a doppio filo con tante altre ancora attuali nel nostro presente. Probabilmente ogni giorno dovrebbe essere un giorno della memoria per gli uomini, le donne e i bambini di tanti paesi che non hanno mai smesso di soffrire e di morire.

Come nelle storie individuali, anche in quelle collettive ci sono grandi rimossi, parole che non si osano pronunciare, sentimenti che si cerca di nascondere sotto tappeti secolari.

Parlare di dolore, in questa nostra sofferente e ferita epoca storica, è decisamente poco trendy e forse anche poco chic.

Dipende da ciascuno di noi la possibilità di ridargli la dignità di uno spazio, di un respiro e di un pensiero. Diciamo spesso che la luce e l’ombra sono due facce della medesima medaglia dell’esistenza.

Facciamoci dunque coraggio e non rinunciamo a vivere.

Le macchine cambiano i cervelli. Ma non abbastanza in fretta…

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Repubblica, il 5 gennaio 2013, ha pubblicato un articolo dal titolo: “Così le macchine cambiano i cervelli” al scoperta scomoda degli scienziati Usa.  L’articolo è accompagnato da questa immagine riassuntiva che in ben 6 punti elenca i presunti “danni” che ci infliggerebbe l’era informatica.

internet e neurofisiologia da Repubblica 5 gennaio 2013

Se ci riesco, li discuterò un per uno. Iniziamo con il primo…

1. La memoria. La possibilità di trovare informazioni su Google sta facendo diminuire le nostre capacità mnemoniche. Usiamo internet come una memoria esterna

Quand’ero bambino, negli anni ’60, alle elementari mi hanno insegnato che la memoria è come un muscolo: meno la si esercita, meno funziona. E che per esercitarla occorre mandare a memoria le cose. Esattamente come con i muscoli: l’importante è esercitarli, non importa a far cosa, l’importante è che stiano in esercizio.
Questo modo di vedere le cose ingenuo e meccanicistico, è totalmente sorpassato anche per l’esercizio fisico, ma evidentemente i ricercatori americani si devono essere persi qualche annata di Science. Oppure se le sono perse i redattori di Repubblica.
Passo ore con mia figlia rivedendo foto e filmati di famiglia in gita o in vacanza. Accidenti, che peccato. Invece di raccontargli la nostra storia gliela faccio vedere. Pensa, così è costretta a vedere immagini di esperienze che ha vissuto, invece di fidarsi solo delle mie parole. E rischia anche di incrociare particolari che mi erano sfuggiti. E anche di vedere le cose come le avevo viste io che fotografavo/filmavo. Ma come le avevo viste in quel momento, non  come gliele sto raccontando/mostrando ora. Un vero impoverimento mnemonico. Suo e mio.
Babilonia, qualche millennio a.c. Il padre di Hammurabi ad Hammurabi: “Figlio, perchè scrivi le tue leggi su tavolette?”. Hammurabi: “Perchè così siano condivise da tutti i sudditi, padre!”. Il padre: “Ma in questo modo il popolo si affiderà alla scrittura e perderà la sua memoria”
Germania, metà 1400 d.c. Il padre di Gutemberg a Gutemberg: “Figlio, perchè stampi con il tuo torchio tutte queste copie della Bibbia…
Ma la faccenda è probabilmente iniziata in qualche caverna del mesolitico con un padre che diceva al figlio impegnato a dipingerne le volte con scene di caccia che, insomma, usando una caverna come una “memoria esterna” di ciò che viveva la tribù avrebbero rischiato di smarrire la memoria di ciò che facevano e, in ultima analisi, di ciò che erano.
Insomma, passiamo l’intera vita depositando pezzi della nostra esistenza in qualche “memoria esterna”, comprese le memorie degli altri. L’era di Internet non fa che portare alla sua massima espressione la tendenza umana alla condivisione delle esperienze individuali all’interno della memoria collettiva.
Non posso ricordare molto della mia storia familiare, non perchè abbia poca memoria, ma perchè i miei familiari, a partire da mio padre, se la sono tenuta per sè. Ora sto ringraziando moltitudini di internauti che lasciando in Rete racconti, immagini, collegamenti, mi permettono di ricostruirla piano  piano. E non la manderò a memoria, potete starne certi. La affiderò, ancora una volta, a una memoria esterna…

La memoria nel gesto

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Domenica ho fatto fare il bagno a mia figlia. Momento sempre intenso e atteso. Occupa il tempo, convoca il corpo mentre lo alleggerisce galleggiando nella vasca ricolma, accarezza con l’acqua calda che scorre in continuazione e al diavolo ogni preoccupazione ecologica. Luna sguazza, si rilassa, le tensioni provocate dai tremori che l’accompagnano pian piano si sciolgono, si coccola e, soprattutto, si cura da sè senza che qualcuno le stia con il fiato sul collo. Insomma, se riesco ad attorcigliare il flessibile della doccia quel tanto che basta a impedirle di trascinarlo oltre il bordovasca, evitando l’effetto alluvione in giro per casa. Così mi rilasso anch’io e mi dedico a qualcosa d’altro.

Come per ogni altro bagno, anche domenica è arrivato il momento di porre fine alla parentesi di libertà reciproca. Fine dei giochi e inizio dello shampoo. Ineluttabile come la morte. Diluisci, spalma, strofina, sciacqua. Niente di che, ma certo peggio della libertà di sguazzo goduta sino a un attimo prima. Tutti noi sappiamo che il momento peggiore dello shampoo è l’ultimo, quando arriva lo sciacquo. Anzi no, il peggio è il phon, ma per questa storia posso non prenderlo in considerazione. La doccia, solitamente, fa calare la schiuma dalla testa sugli occhi e nessuno trova divertente questa fase del lavaggio. Nemmeno mia figlia. Per questo sono già due o tre volte che ho cambiato strategia: niente più cornetta, aiuto Luna con la testa insaponata a sdraiarsi nell’acqua, le cingo le spalle con un braccio aiutandola a immergere piano piano i capelli lasciando fuori dalla superficie occhi, naso e bocca. Lei si abbandona felice mentre con l’altra mano le sciacquo i capelli in immersione. E d’un lampo, domenica, ricordo.

Sarà che lei mi assomiglia così tanto. Sarà che quel gesto di cura è nato dall’immedesimarmi nel fastidio della schiuma negli occhi. Sarà che i gesti hanno una memoria che non sappiamo d’avere. Sarà che guardavo il suo viso soddisfatto e vedevo me, piccolo, immerso nell’acqua mentre guardavo mia madre che mi sciacquava i capelli immergendomeli per non farmi andare il sapone negli occhi. Ma avevo completamente dimenticato. O almeno credevo di non ricordarmene più. Il mio corpo, si vede, ha più memoria di me e ha messo in campo una sapienza che da qualche parte doveva pur venire.

C’era tua nonna con noi domenica, Luna. Era nei miei gesti e nel tuo sguardo. D’ora in poi il tuo bagno non sarà più lo stesso.

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