Camminare schivando

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di Igor Salomone

Camminare schivando. Stamattina sono uscito per una puntata furtiva sino alla farmacia più vicina e mi sono ritrovato a camminare schivando. Non di quello schivare i corpi per evitare di sbatterci contro come ho sempre fatto sino a un paio di settimane fa. No. Disegnavo sul terreno una traiettoria improbabile per cercare di passare tangente alle traiettorie altrui a distanza di almeno un metro o anche più, se era possibile. 

Mi sono più volte fermato per lasciare il cammino al mio prossimo non per cortesia, ma per tenere la distanza. Sono sceso dal marciapiede, tanto di auto non ce n’erano, per non passare tra due pedoni già troppo vicini. Al semaforo meno male che eravamo in pochi altrimenti avrei dovuto mettermi in fila all’incrocio precedente. Insomma, una bruttissima sensazione. 

Per non parlare degli sguardi. Di solito per strada non ci si guarda negli occhi e se accade il contatto non supera il mezzo secondo. Ma stamattina di sguardi non ne ho incrociato neppure uno. Testa bassa, bavero alzato, non ti curar di loro ma guarda e passa. Anzi, non guardare proprio.  Bruttissima sensazione.  La fiducia reciproca è il cemento della coesione sociale, che ne sarà quando ci saremo liberati dal virus?

Ho visto però persone, che probabilmente non si erano mai parlate in vita loro, discorrere amichevolmente da un balcone all’altro. A Milano. Non nei quartieri spagnoli di Napoli. E nella stessa Milano ho visto centinaia di persone che dal balcone cantavano, applaudivano tutte assieme, agitavano luci di vario tipo. C’ero anch’io.  E’ facile guardare con supponenza a queste manifestazioni emotive. Però dopo che stamattina ho camminato schivando, ne ho capito il senso. Affacciarsi al balcone o alla finestra di casa propria, il punto di maggior contatto con il mondo lì fuori, è come se volessimo dirci: guardate che non siamo quelli lì che si incontrano evitandosi per strada, o per lo meno non solo quelli. Siamo ancora noi e abbiamo ancora voglia di sentirci insieme. Anzi di più.  

Mi sono chiesto cosa avrei detto a un figlio bambino se mi fossi trovato per strada a camminare schivando insieme a lui. L’avessi fatto insieme a lui avrei sentito tutta la responsabilità del messaggio che stava raccogliendo.  Dunque qual è il messaggio che potrebbe raccogliere? che gli altri sono pericolosi, ovvio, e quindi dobbiamo tenerci alla larga. Un messaggio così vale per sempre, come lo facciamo decadere dopo i tempi del virus?

Ho pensato però, anzi sentito nel corpo, che c’era dell’altro. Cedere il passo, scendere dal marciapiede, tenere le distanze non sono solo un modo per proteggersi dall’altro, sono anche un modo per proteggere l’altro da noi. Perchè  siamo tutti in questo momento reciprocamente pericolosi, e ci tocca proteggerci a vicenda.

Quindi probabilmente direi questo a mio figlio bambino se ne avessi uno. Ma per poterlo fare occorre crederci e per crederci occorre sentirlo nel corpo mentre si cammina schivando.  Alla prima necessità uscirò di nuovo per esercitarmi. 

Lezioni impreviste

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lezioni impreviste

di Irene Auletta

A ben guardare non solo insegnamo anche ciò che proprio non vorremmo ma, di sicuro, impariamo molte cose che non avevamo affatto previsto o desiderato.

Stamane ripercorro esperienze attraversate tante volte in questi anni, nella mia vita di genitore. Visita medica, nuovi specialisti, ripetizione anamnesi sanitaria per la duecentesima volta e via di questo passo. Tante domande e tanti puntini di sospensione per tutta la complessità che ti sei portata nella vita, nel tuo speciale zainetto.

La giornata è tutta per noi e la impieghiamo a fare cose che ci piacciono, tanto che fino a sera, non ci penso. Durante la cena, nei nostri silenzi, la mente viene invasa dai nuovi accertamenti, dagli esami da ripetere, dai nuovi suggerimenti di cura.

Le spalle improvvisamente mi diventano pesanti o in realtà, inizio semplicemente a sentirle. Angela, la nostra insegnante Feldenkrais, forse ora citerebbe quell’archivio delle fatiche e delle tensioni che pare albergare proprio lì, da quelle parti del corpo.

Solo qualche anno fa una mattina così sarebbe stata dipinta di ansia, preoccupazione, dolore. Oggi no. Ci si abitua, si fa il callo, si impara? Forse un po’ di tutto. Il corpo stasera mi mette in guardia circa la possibilità di sottovalutare ma su questo mi sento abbastanza serena. Non preoccuparti, ti ascolto, certo che ti ascolto.

Mi sdraio e la terra mi accoglie, fresca e rassicurante, mentre tu guardi curiosa e mi sorridi. Vieni a sdraiarti un pochino vicino a me tesoro e lasciamo un po’ di preoccupazione sul pavimento. Stanotte dici che si dorme?

Riflessi educativi

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riflessi educativi 1di Irene Auletta

Ma io non li voglio i carciofi ripieni! Nessun problema, risponde il padre, vorrà dire che stasera andrai a letto senza cena. E così fu.

Me la ricordo ancora bene quella scena, nonostante siano passati da allora quasi cinquant’anni e mai avrei immaginato di ritrovarmi a fare una parte simile nel ruolo di genitore. Dico simile perché le scene non sono mai uguali e di certo nel mio caso mi sarebbe piaciuto molto trovarmi di fronte ad una scelta o ad una presa di posizione come quella puntigliosa di me bambina.

Da qualche giorno sono aumentati i versi con la bocca che, accompagnati da qualcosa di assai simile a una pernacchia, producono un’inevitabile produzione di saliva che termina in qualcosa di poco gradevole che, anche senza una fervida immaginazione, è possibile intuire. Le spiegazioni ricorrenti su una serie di comportamenti dei ragazzi disabili mi lasciano sempre con molti interrogativi aperti che, a seconda dello stato d’animo del momento, mi deprimono oppure mi irritano. Purtroppo raramente riesco a sorriderne.

In realtà so bene che ogni comportamento nasce per qualche motivo particolare non sempre identificabile e riconoscibile e, molto spesso, esasperato dal tuo modo di affrontare qualcosa che, evidentemente, anche tu stessa non comprendi o non riconosci come familiare. E così l’altra sera, di fronte a questi sputi pernacchiosi, ingaggio una sfida e al secondo tentativo fallito, ti comunico che andrai a letto senza cena. Cerco di farlo come lo fece anni fa mio padre, senza alcuna aggressività ma con la convinzione di poterti insegnare qualcosa.

In cuor mio però non sono serena perché mi chiedo cosa tu possa comprendere e imparare e soprattutto perché sono certa di non aver capito il motivo del tuo comportamento che sospetto legato a qualche fastidio o disagio che non riesci a esprimere diversamente.

Ma tu babbo avrai capito perché proprio quella sera non volevo i carciofi ripieni, oppure avrà preso il sopravvento l’insegnamento che sentivi importante e strettamente legato al tuo ruolo di padre? Credo che il ruolo di genitore sia complesso sempre e forse, figli diversi, chiedono di imparare a destreggiarsi tra differenti trappole. Io conosco solo quelle che incontro nella relazione con te e nelle lezioni che ogni volta imparo grazie alle tue reazioni imprevedibili.

Accetti di andare a letto senza cena senza mostrare alcuna opposizione e ti sento vicina alla mia emozione quando ti dico che in quell’occasione non sono riuscita a fare altro per capire e per aiutarti. Domani andrà meglio ti dico mentre, chissà perché, ho la sensazione che tu mi stia consolando.

Ti assomiglio davvero babbo? Di certo, tu non sarai andato a letto con il magone. O no?

Apprendimenti a sorpresa

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apprendimenti a sorpresadi Irene Auletta

Di recente, dopo diverso tempo, sono rientrata a far parte di un percorso formativo rivestendo il ruolo opposto a quello che da anni indosso comodamente. Ne ho sempre teorizzato l’importanza perché, nella logica maestro e allievo, l’inversione dei ruoli mi ha sempre insegnato molto.

Eppure stavolta l’insofferenza ha preso il sopravvento, condita da una stizza che mi ha colpita non poco, facendomi ritrovare di fronte a nuovi interrogativi, prima di tutto, rivolti a me stessa. Come mai ho sempre sostenuto il valore del “doppio ruolo” e ora mi ritrovo a rivestire i panni dei formandi più odiosi che negli anni ho incrociato sul mio sentiero di docente e formatrice? 

Il senso di disagio poi e’ andato crescendo man mano che altri colleghi, sicuramente meno severi di me, provavano a restituirmi l’importanza di una comprensione verso i formatori del corso, come a dire che, non era di certo colpa loro se alcuni partecipanti avevano al loro attivo un’esperienza professionale (e culturale) non prevista forse dall’accordo e dall’ingaggio formativo.

E, devo riconoscere che, anche questo aspetto, e’ portatore di una sua verità.

Ma allora perché quella stizza pungente che mi ha riportato indietro nel tempo e incontro a sentimenti che credevo sepolti una volta per tutte?

Eppure, sempre di recente, ho conosciuto un nuovo supervisore che mi ha fatto sentire perfettamente a mio agio anche nei panni di “allieva” e che anzi, dopo ogni incontro, mi ha lasciato quel senso positivo e frizzante che riconosco ogni volta che imparo grazie all’incontro con qualcuno.

Quindi, non è che proprio non riesco a fare l’allieva!

Alla fine stamane l’ho capito o forse mi sono semplicemente arresa di fronte ad un’evidenza che in questi giorni mi ha reso sorda e cieca. Ogni ruolo chiede capacità e competenze e, indubbiamente, io in alcune situazioni proprio non ci so stare. Avrei dovuto avvertire prima il pericolo di ritrovarmi in una situazione simile e invece ci sono ricascata. Le motivazioni possono essere molte e tante credo di averle capite e imparate.

Ho imparato (o forse l’ho ritrovato ancora una volta ribadito) che dirsi di non essere capaci non è un valore solo per gli altri, che l’eccesso di umiltà rischia di confondersi con un senso di complicità che non mi appartiene, che ogni stagione, della vita e della professione, ha i suoi tempi e i suoi spazi. Io stavolta ho proprio toppato.

Non saranno contente le docenti del corso di ciò che ho imparato perché probabilmente nel loro intento c’era altro ma forse potrebbero accontentarsi, per quello che mi riguarda, del premio di consolazione.  Loro, intenzionalmente, non mi hanno insegnato nulla circa i contenuti ma mi hanno permesso di afferrare qualcosa di nuovo su di me.

Non importa se quello che ad altri appare come severità per me si inserisce in un orizzonte etico e neppure importa la mia critica che credo assai fondata rispetto alla povertà dei contenuti proposti dalle due formatrici. Importa che ho sbagliato posto, che detesto troppo perdere tempo per permettermi di farlo e che non mi sono ascoltata a sufficienza per dire basta, ammettendo il mio limite.

Stavolta punteggio equo per maestre e allieva. Entrambi insufficienti.

Insegnare e lasciare il segno

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Ero tentato di non datare questo scritto. Appartiene alle mie pagine dal sapore diciamo così più visionario. Mi piace ogni tanto assumere toni profetico-messianici. Mi diverto un sacco. E rileggendolo, mi sconcerta come alcuni riferimenti appaiano fatalmente datati, mentre certe considerazioni credo siano ancora assolutamente attuali. E aggiungo purtroppo…
Comunque, erano gli inizi degli anni ’90. Redassi queste pagine in vista di una serie di incontri con le scuole e gli insegnanti nell’ambito di un megaprogetto sull’educazione alla salute condotto per conto dell’Iref Lombardia (attuale Eupolis). Fu un progetto epico. Forse per questo il tono… Non so più quante centinaia di operatori, della sanità e della scuola, ho incontrato in giro per tutta la Lombardia.
Il tema caldo era quello dell’Aids, e la sua prevenzione la strada maestra per veicolare soldi e progetti.
Il problema da affrontare era la percezione che gli insegnanti avevano del loro ruolo educativo in proposito, da non ridurre a una questione di informazioni sanitarie facilmente delegabili agli “esperti” del sistema sanitario. Per questo mi è venuto fuori un cipiglio del genere…
Fatta la tara del tono ed epurato dei riferimenti troppo contestualizzati, mi pare che questo breve documento, possa fornire spunti di riflessione ancora (maledettamente) attuali

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L’allegria è cosa seria

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l'allegria è cosa seria

di Irene Auletta

Quello dell’intreccio tra educazione e allegria è un tema che mi gira in testa da tempo ma, nonostante il consenso che questa mia proposta ha raccolto in svariate occasioni di iniziative culturali, l’argomento è sempre rimasto tra quelli un po’ in fondo alla lista e rinviato a successive occasioni.

Platee di genitori, insegnanti ed educatori mi sono apparse negli anni sempre più interessate ad altre tematiche come se, parlare di regole, di premi o punizioni, di rapporto scuola e famiglia o, ultima moda, del rapporto con il mondo del web, fosse di gran lunga sempre più urgente, attuale o interessante.

Poi, in questi giorni ho incrociato una recente intervista in cui una famosa attrice, pur non nascondendo i segni inconfondibili di una grave malattia con cui convive da anni, racconta della sua vita con un’indicibile e contagiosa allegria, dichiarando “sono ghiotta, sono obesa di vita … sono così interessata alla vita, che me ne interessa anche la morte.

La ascolto accompagnata da un profondo respiro perchè in questa sua frase sento la bellezza vibrante della vita e del modo di guardarla e attraversarla. Esattamente il contrario di quanto accade negli scambi in cui predomina il lamento insieme al dettaglio, sovente esasperante, delle proprie fatiche. Avete presente no?

Sia ben chiaro. Una cosa è raccontarsi, condividere e scambiarsi storie ed emozioni, diverso è rovesciare addosso all’altro quello che affronti e ti accade. Forse la differenza la fa proprio l’atteggiamento verso la vita, le cose che accadono, che è necessario affrontare. Tutto questo non ha a che fare anche con l’educazione?

Quando incontro i genitori spesso mi ritrovo a fare paralleli tra ciò che raccontano del loro rapporto con i figli e le caratteristiche dei figli stessi. All’inizio sono fili invisibili e delicati che pian piano si fanno sempre più evidenti e, quando riesco a farli vedere anche ai protagonisti del racconto, so che è accaduto qualcosa di molto importante.

Ciascuno di noi si porta appresso un bagaglio di storie, esperienze e modelli educativi. Alcuni, più fortunati, nella loro educazione hanno incontrato anche l’allegria e quel modo gioioso di guardare alla vita, sempre. I figli sono una bella occasione per continuare a insegnare quello che ci pare importante e anche per scoprire qualcosa di nuovo che vale la pena non trascurare e magari imparare.

Penso al racconto di un’amica che mi descrive un figlio, giovane uomo, molto arrabbiato perchè sta facendo da qualche mese una dieta particolare. Penso a quello che affronti tu da una vita, al tuo sorriso sempre presente, alla grinta che ogni volta metti in campo di fronte alla nuova difficoltà.

Tu neppure lo immagini, ma tempo fa mi sono impegnata ad insegnarti l’allegria  perchè il modo in cui incontriamo la vita, fa la differenza.

Impegno d’amore o impegno educativo? Probabilmente entrambi.

Giovinezza matura

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giovinezza maturadi Irene Auletta

La vecchiaia non corrisponde alla maturità del corpo ma la anticipa attraverso posture stereotipate, movimenti che pian piano vengono esclusi, consolidamento di posture rigide. 

Così Angela, la nostra insegnante Feldenkrais, apre la lezione della sera, mentre invita il gruppo dei presenti ad ascoltare il proprio corpo sdraiato a terra.

Interessanti riflessioni soprattutto se collocate in questo momento storico che vieta l’invecchiamento ricorrendo ad una serie di strategie assai discutibili, senza curarsi affatto della dimensione della cura e dell’atteggiamento amorevole verso se stessi.  Il  corpo pare così sovente associato ad un oggetto da manutenzionare rispetto alle possibili crepe della superficie, ignorandone totalmente la sua completezza e l’intreccio meraviglioso con la mente e con l’anima di ciascuno.

La lezione ci porta a ripercorrere movimenti appresi e sperimentati durante l’infanzia con l’intento di sentire le possibilità da esplorare e, possibilmente, di recuperare insieme all’apprendimento rinnovato, leggerezza e divertimento.

Angela continua dicendo che il cambiamento della postura e dei movimenti, coinvolge anche il nostro umore, il nostro sentire e il nostro atteggiamento nei confronti del mondo.

Penso ad un bambino incontrato di recente, alle sue posture rigide, alla mascella serrata e alla voce stridula. Un dolore bloccato in un piccolo corpo che non riesce a tradire la postura e un residuo di brillio negli occhi. Penso alle persone sempre stanche, affaticate, malinconiche, afflitte dalla vita.

Quando, parecchi anni fa, ho iniziato a lavorare sul corpo, ho ingaggiato una sfida con me stessa e con tutte le resistenze inculcate da una cultura che ci vuole a segmenti separati e banalizzati. Ritrovare un armonia sconosciuta, ha spalancato porte inattese che ancora oggi attraverso con atteggiamento euristico, proprio come fanno i bambini quando provano e riprovano, senza stancarsi mai e, soprattutto, divertendosi.

Forse, se come adulti ci riprendiamo alcuni piaceri, saremo più in grado di insegnarli a bambini ed adulti perchè imparare può essere molto divertente, ma tanti di noi lo hanno completamente dimenticato.

Osservo mia figlia mentre compie le sue imprese o quelle che a casa chiamiamo con molto amore “acrobazie”. Sono piccoli movimenti ed esperienze che gran parte dei genitori ignorano considerandoli di poca importanza o comunque smarrendoli nelle competenze superiori. La sua gioia per un risultato raggiunto e per il nuovo apprendimento, fa sempre la differenza e, senza alcun metro di valutazione, ogni giorno mi guida verso la direzione da seguire per nutrire, insieme alla giovinezza del corpo, quella dell’anima, che più sa brillare.

Cuori analfabeti

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cuori analfabetidi Irene Auletta

Com’è noto, quando gli eventi accadono nelle nostre vicinanze, ne sentiamo più forte la tensione e il calore, così come mi è accaduto qualche giorno fa rispetto ad un grave incidente stradale che ha coinvolto la giovane figlia di conoscenti.

Ho saputo di tua figlia, mi dispiace molto, immagino la vostra paura e preoccupazione.

Il padre, esibendo una chiara dissociazione tra ciò che contengono i suoi occhi e le sue parole dichiara quasi con tono freddo che sono cose che succedono.

Quante volte ho sentito questa frase da mio padre e da mia madre, di fronte all’inspiegabile, al dolore insopportabile e allo smarrimento provocato da notizie incomprensibili. Ero molto giovane e ricordo ancora bene la voce rotta di mia madre mentre mi annunciava per telefono, la morte di sua madre, mia nonna. Lo stesso ricordo mi raggiunge rispetto ad un’analoga comunicazione da parte di mio padre, ma questa volta riguardava suo figlio, mio fratello. Entrambi incapaci di accogliere una solidarietà dolorosa respinta quasi sempre prontamente con la solita frase, sono cose che succedono.

E’ in tal modo che, molto spesso senza alcuna consapevolezza, si insegna ai figli come rapportarsi con le emozioni forti e affrontare le situazioni di grande difficoltà. Si finisce così, sin da bambini, con il ricevere messaggi precisi che veicolano significati e indicazioni di modalità per stare al mondo.

Smettila di piangere, non ti sei fatto nulla!

Quante volte l’ho sentito dire a genitori o a educatori nei servizi per l’infanzia. Li osservo di fronte al mio invito che interroga il senso di quell’affermazione e la possibilità di introdurre cambiamenti che consentano al bambino di esprimere con maggiore libertà le proprie variegate emozioni.

Mi ci sono voluti anni di lavoro, a volte durissimo, per evitare di ringhiare nei momenti di sofferenza e, ancora oggi, ogni tanto mi scappa. Sono cresciuta confusa rispetto alla gestione del dolore e come molti, da adulta ho dovuto scoprire nuove strade e possibilità per affrontare le “cose che succedono”.

Invito spesso gli adulti, genitori o educatori, a proporre ai bambini la possibilità di piangere e ho di fronte agli occhi alcuni dei loro sguardi perplessi e quasi sospettosi.

Per me è stato un successo poterci arrivare pian piano e di sicuro mi sento bene quando mi ascolto dire piangi pure, ne hai tutte le tue ragioni e la mamma rimane qui, vicino a te.

 

Strani cervelli

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strani cervellidi Irene Auletta

Riesco a prendere raramente i mezzi pubblici ma, quando accade, mi trovo immersa in mondi paralleli che mi piace osservare con curiosità antropologica.

La scuola oggi è proprio peggiorata, le maestre e i professori non sono più quelli di una volta. Ne ho fatto direttamente esperienza con i miei due figli e le enormi differenze che ho visto tra l’esperienza del primo e l’ultima del più piccolo. 

E poi, con questa storia di tutti questi nuovi strumenti, i cervelli dei giovani sono proprio atrofizzati! Se uno strumento si rompe non sanno più come vivere e non sono in grado di fare un ragionamento sensato.

Il tutto avveniva tra il conducente dell’autobus e una passeggera, particolarmente ciarliera e desiderosa di scambiare piccole perle di saggezza con l’autista. Naturalmente ho riportato solo alcune tracce di uno scambio ben più lungo ma tutto centrato sullo stesso oggetto e con gli stessi contenuti a fare da sfondo allo scambio.

Quante persone finiscono con il fare o l’ascoltare affermazioni analoghe che, alla fine, assomigliano tutte a non c’è più la mezza stagione?

I due protagonisti dello scambio erano relativamente giovani, soprattutto l’autista ma, chiudendo gli occhi, potevo immaginarmi tranquillamente due anziani seduti accanto sulla panchina del parco.

Sono questi i cervelli e i discorsi che i ragazzi dovrebbero rimpiangere o che non saranno più in grado di fare ed esprimere senza avere di fronte uno schermo? Mi sa che questo potrebbe essere un valore aggiunto inatteso!

Attraversando la strada osservo un vigile che con uno sguardo severo ferma un ragazzino in motorino per una manovra vietata. Mentre mi avvicino alla strana coppia, sento che il vigile, per questa volta, non intende fargli una multa ma sta cercando di farlo ragionare, senza prediche, sul rischio appena corso e su quanto, guidando così, potrebbe farsi molto male.

Uno a zero per il vigile.

Sono certa che come adulti abbiamo tanto da insegnare ma credo anche che si debbano con urgenza trovare nuovi modi per guardare il mondo che ci circonda e trovarne il bello  e il curioso da condividere ed esplorare, con i bambini e con i ragazzi.

Dopo cinque minuti trascorsi in autobus, stufa di ciò che mi circondava, mi sono messa ad ascoltare la musica che usciva dai miei auricolari. Mi sono sentita una ragazza.

Misure di vita

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misure di vitadi Irene Auletta

Mi ritrovo spesso a riflettere intorno al rapporto con le fatiche e alle diverse percezioni individuali di cui ciascuno di noi è portatore. Ci sono persone che si lamentano quasi per nulla e altre che sopportano pesi incredibili mantenendo la capacità di non smarrire il sorriso. E’ vero anche però che, nelle storie, si incontrano strani intrecci e che non esistono linee di demarcazione così nette nelle varie modalità di reazione e a volte, le differenti possibilità, convivono nella medesima persona a seconda dei momenti, della peculiare fatica e dello specifico stato d’animo.

Per anni ho nutrito un significativo fastidio nei confronti di coloro che definivo lamentosi rischiando di rimanere io stessa intrappolata nella rete del mio pregiudizio, senza cogliere il valore di ciò che realmente mi suscitava una reazione negativa. In realtà oggi sono arrivata a comprendere che, al di là delle particolari caratteristiche di ciascuno, quello che mi fa pensare e mi dispiace è il rischio di mettere tutto sullo stesso piano, di non riuscire più a discernere i livelli delle preoccupazioni, di trasformare tutto in un dramma e il dramma stesso in una sorta di farsa.

Mi piace nominare quanto accade e provare ad aiutare anche gli altri a farlo, immaginando di attribuire agli eventi un loro posto ipotetico, attraverso parametri che non siano rigidi ma di senso. Chiedersi qual’è il reale peso di quello che stiamo affrontando dandosi il tempo e lo spazio anche per valutare gli scarti tra il percepito e il reale è un’importante occasione di crescita, di maggiore conoscenza e consapevolezza. Farlo per sè e poterlo insegnare ad altri, un’occasione imperdibile.

Ogni volta che mia figlia ha un malore o una semplice influenza di stagione, come sta accadendo proprio in questi giorni, mi misuro con l’ansia e la preoccupazione legata alla nostra storia e alla sua delicata condizione di salute. So bene che a volte le mie reazioni emotive sono eccessive ma so anche che testa e cuore, in alcune occasioni, sembrano proprio non capirsi e allora ci vuole tanta, ma tanta, pazienza.

La ricerca della misura inizia sia da piccoli e forse nella vita è un crescendo di nuovi equilibri possibili. Non smettere di farlo è quasi un’impresa, che però credo valga la pena per non smarrire la via dei significati legati alla nostra esistenza.

Stamane, in preda alla febbre alta, rimanevi immobile, dolorante e quasi timorosa di rompere uno stato di quiete faticosamente raggiunto. Quando ti ho convinta a muoverti per le necessarie pratiche di cura ti ho visto trasformata, in giro per casa a curiosare, come di tua abitudine. Hai trovato un modo tutto tuo per sopportare e affrontare le fatiche e la vita, in questo, ti ha resa maestra.

Penso ai lamentosi, alle occasioni perse di imparare dalla fatica, alle nostre ultime notti insonni che hanno fatto assumere a questi giorni di pausa tinte quasi un po’ oniriche. Penso alla tua grinta, al tuo modo di reagire, al valore che dai alle cose pur senza saperle nominare.

Ora ho ben in mente cosa augurare e augurarmi per il nuovo anno.

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