Se l’educazione la fanno tutti

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Di Igor Salomone

Sequel di AAA educatore cercasi

Dunque ci risiamo. C’è chiaramente un’emergenza ponti nel nostro Paese, ma non si trovano gli ingegneri, non ce n’è a sufficienza, molti tra loro hanno cambiato mestiere, altri hanno preferito restare a casa, altri ancora sono semplicemente scomparsi dai radar.
Cosa si può fare in un simile frangente? Pensa che ti ripensa, a qualcuno viene una geniata: assumere avvocati, medici, sociologi, biologi per coprire i posti vacanti: purché laureato, ognuno può dare il proprio prezioso contributo. E poi, dai, che ci vuole per costruire un ponte?

Naturalmente, una quota minima di ingegneri deve esserci per dare le dritte a tutti gli altri dottori convocati nei cantieri, ma non è chiaro se chi ha avuto la geniata, l’abbia poi tradotta in delibere vincolanti. Tipo: assumete chi cavolo volete ma, se il vostro obiettivo è costruire ponti, l’x per cento deve essere di ingegneri.

Il punto è che in un mondo nel quale tutti pensano che i ponti li può costruire chiunque, se gli ingegneri ancora interessati a farlo non sono in grado di dire ciò che solo loro possono fare e gli altri non sono in grado, alla fine tutti faranno tutto, e speriamo che qualche ponte resti in piedi dopo l’inaugurazione.

Dunque, se non si può fare altro perchè mancano i ponti, almeno proviamo a differenziare: da una parte tutti quelli che non saprebbero costruire neppure una capanna di paglia, ma certamente sono in grado di tenerla pulita, di sanificarla, di arredarla in modo carino, di proteggerla dal fuoco, di inserirla in una rete di capanne. E se non lo sanno fare possono imparare in fretta. Dall’altra quelli che la sanno costruire, rimasti però in pochi per farlo, che si concentrano sulla sua struttura, lasciando agli altri i dettagli e supervisionandone l’operato.

Non sarebbe male come idea. Ma occorrono alcune condizioni:

A) la prima è che gli ingegneri abbiano chiaro quale sia il proprio compito specifico e il bagaglio tecnico che possiedono per assolverlo. Senza questa chiarezza che dipende dalle capacità effettive e non dal titolo di laurea, non si capisce perchè tutti i non-ingegneri non possano fare esattamente ciò che fanno gli ingegneri
B) la seconda è che l’impresa costruttrice si assuma la responsabilità di indicare una gerarchia tecnica all’interno del cantiere che stabilisca la priorità del parere ingegneristico su tutte le questioni ingegneristiche
C) la terza è che il mondo-cliente fondi la sua fiducia nei ponti sulle competenze di chi li costruisce e non sulle chiacchiere da bar o da Facebook per le quali uno vale uno e chiunque può sparare cazzate su qualsivoglia argomento allo stesso titolo di chiunque altro

Educatori, organizzazioni e soggetti decisori, saprebbero rispettare queste condizioni? Mi auguro di sì, ma temo di no.

A) l’educazione, a differenza dei ponti, la fa veramente chiunque e chiunque la faccia intesse relazioni educative, presidia regole, trasmette valori, immagina futuri, fa i conti con i passati. Quindi perchè no sociologi, psicologi e quant’altro si presentino al tavolo delle assunzioni? In fondo è semplice, si tratta di farsi pagare (male) per qualcosa che il mondo fa da sempre gratis. Se poi non mi riconosco in questa professione, ma si tratta di parcheggiarmi per qualche anno prima di dedicarmi a tutt’altro, ci può anche stare. E rispondere con il solito ma io c’ho la laurea è veramente triste oltreché inutile. Occorre dire: io so fare questo e questo e tu non puoi e non sai farlo. Ovviamente per poter sostenere questa affermazione occorre sapere cosa si sa fare di diverso che nessun altro può fare. E qui le note si fanno dolenti.

B) le organizzazioni che erogano servizi educativi, scuola a parte in larghissima percentuale costituita da cooperative sociali, vengono da una storia che non ammette gerarchie interne tra operatori. Ogni educatore davvero vale uno e tutti sono chiamati a fare tutto sin dal primo giorno della loro carriera. Come cogliere quindi l’occasione per identificare degli “educatori esperti” specializzati nel far funzionare parti della struttura educativa se siamo ancora alle prese con le uniche differenze interne ammesse: le attitudini laboratoriali da una parte e la referenza per i singoli utenti dall’altra?

c) non potendo cambiare il mondo, l’unica via è cambiare le narrazioni con le quali ci si presenta al mondo, imparando a dire che tipo di educazione si offre in quel particolare luogo educativo non sovrapponibile all’educazione offerta altrove, superando le trite litanie sul benessere e l’autonomia dei singoli utenti, ripetute da tutti e dunque legittimamente recitabili da tutti. Se racconto la stessa cosa sempre e ovunque, non mi posso lamentare che altri raccontino le stesse cose che racconto io, svilendone il valore.

Ma la vedo dura. Temo il prevalere delle spinte rivendicazioniste da parte degli operatori, dei bisogni di sopravvivenza delle organizzazioni e del clima generale di sfiducia e di sospetto nei confronti di tutto ciò che si presenta come competenza.

Nel frattempo sto elaborando da anni, sia in formazione che scrivendo, il quadro delle competenze educative professionali non riducibili all’educazione diffusa che più o meno son capaci tutti a fare. Troppa materia per questo post, però se qualcuno è interessato ad approfondire o anche ad approcciare cosa penso debba saper fare un educatore, sono a vostra disposizione. Scrivetemi, mandatemi messaggi, fatemi interviste, quello che volete. Purché proviamo ad andare a fondo della questione, quell’andare a fondo che permetterebbe di dire con chiarezza non perchè un sociologo o uno psicologo non dovrebbero esssere assunti per fare gli educatori, ma cosa si può chiedere loro e cosa invece deve rimanere in capo all’educatore professionale.

AAA Educatore cercasi

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Di Igor Salomone

Va bene, ora faccio sintesi dei miei quarant’anni di professione pedagogica e dico la mia sulla formazione degli educatori. E’ un bel po’ che manco da questo blog, in realtà è un bel po’ che manco e basta. E può essere pure che questo sia un episodio unico, di quelli che chiudono una serie televisiva strappandola dal pantano narrativo nel quale spesso le saghe, a lungo andare, affondano.
Dunque, pare che la bolla sia esplosa. Gli educatori sono spariti dalla circolazione, i servizi educativi chiudono, o non partono, per mancanza di personale, tutti al capezzale del malato ad analizzare cause ed eziologia del malanno. Semprechè non si tratti in realtà del letto di morte e le litanie in corso non siano orazioni funebri,

Non entrerò nel merito delle polemiche, nè delle dotte analisi, l’ho fatto per decenni e francamente sono stufo. MI limito a cogliere l’occasione per provare a declinare il curricolo che non c’è, dove non abita per altro nessun Peter Pan, e lo farò per brevi e ampie pennellate. Tanto non ascolterà nessuno, ma sono giunto a un’età che non importa chi ascolta quello che hai da dire, importa solo non ti resti nel gargarozzo.

Mi concentrerò invece sul problema della formazione degli educatori, giusto per ricordare a me stesso, e di rimbalzo a tutti quanti, che l’attuale crisi della professione e dei servizi educativi non è solo un problema sindacale o politico o generazionale o vocazionale o quant’altro in questo momento viene chiamato in causa.

L’orgia di professionalizzazione consumatasi negli ultimi decenni, ha fatto credere che un percorso di studi adeguato, ovviamente universitario, avrebbe fornito al lavoro educativo il riconoscimento sociale ed economico che meritava. Mi pare del tutto evidente che questo piano sia miseramente fallito. Il fatto che in Lombardia ben cinque corsi di laurea per educatori professionali (Bicocca, Cattolica, Don Gnocchi, Bergamo e Insubria) non riescano a formare un numero sufficiente di educatori lasciando il mercato scoperto, sarebbe già una prova sufficiente. Aggiungiamoci anche che gli educatori non solo non si trovano ma scappano, o non arrivano proprio in luoghi di lavoro estremamente impegnativi dove vengono pagati meno di una badante, senza alcuna prospettiva di carriera e certamente senza alcuna possibilità di veder migliorare la propria remunerazione. Sin qui i discorsi sulla bocca di tutti.

Ma c’è da considerare anche un altro fattore di crisi, più difficile da nominare: la capacità professionale degli educatori in tutti questi anni non è cresciuta affatto e, per molti versi, è anche peggiorata. Difficile ammetterlo nei convegni, di solito organizzati da quell’Università che avrebbe dovuto far sbocciare queste professionalità. Però non c’è operatore anziano, coordinatore, responsabile delle risorse umane che non borbotti amaramente questa verità sotto gli occhi di tutti. Dunque lo farò io, visto che incontro educatori da quarant’anni, sia nei servizi sia in Università, e un qualche valore di testimonianza posso permettermi di averlo.

Dunque, cosa dovrebbe studiare un educatore per diventare educatore? Secondo me (non faccio altro ormai che scrivere a partire da questo incipit, almeno non tocca di giustificare tesi ovvie appoggiandole a quintali di citazioni altretttanto ovvie o, peggio, di dover dimostrare tesi eventualmente importanti appoggiandole a una letteratura che non le ha nemmeno intraviste) secondo me, dicevo, nel curricolo formativo di un educatore dovrebbero campeggiare:

A) Uno o più percorsi di esperienza ad alta densità corporea. Non importa quali, purchè sin dalla formazione di base si insegni che l’educazione è una questione di postura e che la postura ha sempre a che fare con il corpo

B) Esperienze di teatro. Anche qui di qualsiasi natura, con lo scopo specifico di sviluppare la capacità di muoversi in situazione interagendo con il contesto spazio temporale e con gli altri attori in scena

C) Un intenso training di problem solving, a scolpire indelebilmente l’idea che educare significa affrontare, capire e governare problemi, per trasformarli in occasioni educative

D) Un altrettanto intenso percorso di analisi pedagogica per iniziare a ricostruire le traiettorie educative personali lungo le quali si è definito il processo formativo di ognuno

E) Studi di pedagogia, storia del pensiero pedagogico, antropologia dell’educazione, sociologia dell’educazione, storia dell’educazione, diritto dell’educazione, politiche educative, filosofia ed epistemologia dell’educazione, psicologia dell’apprendimento. Studi da effettuare in un’ottica interdisciplinare finalizzata alla comprensione del fenomeno educativo nella sua genesi

Per intenderci sul piano ponderale: i punti A B e C devono costituire l’ossatura portante della formazione di base, non essere conditi via con qualche laboratorio. Il punto D non va sbolognato rinviando ogni studente a qualche forma di psicoterapia, ma va costruito organicamente nel percorso universitario. Il punto E comprende tutti i saperi scientifici a mio parere necessari per fare l’educatore con una ampia prospettiva culturale dei quali del resto sono già saturi i curricola universitari, ma non dovrebbero superare il terzo del tempo a disposizione e, sopratutto, ognuna di queste discipline va modulata sulla prospettiva particolare che può offrire sull’oggetto educazione che può offrire. Altrimenti restano dei bigini di materie importanti, semplificate per una laurea di serie B.

Il tirocinio, in una prospettiva di questo tipo, potrebbe essere superato, visto che una formazione così delineata non potrebbe che essere caratterizzata da un’altissimo tasso di esperienza pratica. Il superamento del tirocinio, inteso come momenti trascorsi sul lavoro durante il periodo universitario, può aprire la strada a forme di apprendistato, inteso come periodo di entrata al lavoro concentrato sula traduzione nei compiti operativi del sapere acquisito in Università. Inoltre l’istituzione stessa dell’ apprendistato sancirebbe che non basta fare qualche esame per diventare educatori, che occorre invece un congruo periodo di tempo per apprendere le pratiche lavorative concrete dopo gli studi di base. Infine, iniziare una carriera professionale come apprendista educatore, implica creare un percorso di carriera professionale per gli educatori, attualmente inesistente e appiattita sui compiti quotidiani rispetto ai quali tutti hanno la medesima responsabilità e le medesime funzioni, dall’ultimo arrivato sino al senior in servizio magari da decenni.

Per poter realizzare tutto ciò serve una cosa sola: fare spazio. Perchè i curricola universitari sono già sin troppo pieni e non è pensabile pigiarne a forza altri contenuti. In particolare:

A) Tutta una serie di saperi connessi a condizioni specifiche di lavoro, che quindi orientano a questa o quella fascia d’utenza o problematica sociale o modello di intervento, vanno opportunamente posticipate al periodo di entrata in servizio. Studiare un po’ di adolescenza, un po’ di disabillità, un po’ di infanzia, un po’ di alzheimer, un po’ di servizio sociale, non serve a nulla, o per lo meno, serve a molto poco rispetto ai cinque ordini di saperi che ho descritto all’inizio. In compenso porta via un sacco di tempo e a quei cinque ordini vengono dedicate quando va bene scarne ore di laboratorio

B) Vanno invece semplicemente eliminate tutte quelle discipline impartite a mo’ di bigino solo perchè hai visto mai che potrebbero servire tipo, pediatria, neuropsichiatria, genetica, igiene, linguistica, diritto amministrativo, che poi servono senz’altro: servono a creare cattedre per permettere l’inizio di carriere universitarie.

Come promesso, un curricolo formativo molto stringato, andrebbe poi declinato punto per punto. Io sono qui, se qualcuno è interessato ho parecchie idee in proposito. Perdonatemi invece qualche temperie polemica, non ce l’ho fatta a evitarle proprio tutte tutte. Ma vi prego di capirmi, sono un vecchio guerriero stanco di combattere battaglie inutilmente vinte.

Il valore dei resti

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di Irene Auletta

Mi hanno detto che i miei ultimi post sono molto amari e può essere che la vita, sfuggendo un po’ al mio controllo, si sia intrufolata tra le righe anche laddove non invitata. Succede. E’ un equilibrio che si impara in anni di ricerche, tentativi e nuove sperimentazioni.

Tante volte mi sono ritrovata a chiedermi cosa possiamo imparare da quello che ci e’ accaduto, individualmente e collettivamente, nell’ultimo anno e mezzo e solo ora mi rendo conto di aver passato gli ultimi mesi di fronte alla bilancia dell’esistenza nel tentativo di inventare nuove alchimie.

I segni, le vicende e le narrazioni con segno negativo non hanno bisogno di essere condivise perché hanno invaso sovente tutte le nostre scene familiari e professionali ma, attraversando luoghi educativi, l’idea di tenermi stretta l’educazione e’ rimasta sempre la mia ancora di salvataggio.

Oggi ascoltavo il video di un collega e amico che parlando della storia attraversata dalla sua organizzazione, anche nella direzione di prospettive future, parla di nuove esigenze e ricerche. “L’arte di rendere fecondi i resti”, così nomina il nuovo orizzonte educativo. Grazie Maurizio, sicuramente porterò questa tua sintesi intensa, ricca e preziosa, nel mio pellegrinaggio professionale. 

E allora ancora una volta, vita è professione si intrecciano, in modo indissolubile?

Ma quanto e’ felice appena sente che stai arrivando? In questo periodo il vostro legame sembra arricchito di una nuova gioia e di un’intesa sempre maggiore. Così mi dice la tua maestra Feldenkrais in uno dei nostri ultimi incontri. Il tuo giovane corpo ti ha messo di fronte ad una nuova prova, quasi sintonizzandosi con le difficoltà  del resto mondo, richiedendoci di inventare e nutrire nuove alleanze.

E siamo ancora qui a chiederci cosa possiamo imparare dall’ennesima caduta!

Le affermazioni di Angela mi spingono a riflettere sull’intensità di alcune nostre nuove complicità, sul bisogno di rinascere ogni giorno raccogliendo nel nostro personale bilancio quelle possibilità che strappano un sorriso insieme ad un respiro ampio. La gioia, lo sappiamo bene, va coltivata come il più delicato dei fiori, anche nelle tempeste.

Con te ho imparato sofisticate strategie per rialzarsi e tu, figlia mia, non hai neppure idea di quanto siano preziose come bagaglio da condividere. Le persone come te vengono sovente viste per i loro aspetti di fragilità ma chi ha potuto, come noi, avvicinarsi alla tua immensa forza, porta con sé la certezza di quella magica  e lunare marcia in più. Questo, fa e farà davvero la differenza. 

Ripartiamo dai resti.

Madri insopportabili

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Mi capita spesso di raccogliere dagli educatori che lavorano in servizi rivolti a persone con disabilità, bambini, ragazzi o adulti, commenti un po’ aspri rivolti ai genitori. Ma soprattutto alle madri.

Ma secondo te perché sempre le madri? ho chiesto a tuo padre qualche giorno fa. Forse perché loro ci sono sempre, mi ha risposto.

Già, forse.

Le madri vengono descritte sovente come troppo esigenti o deleganti, troppo severe o incapaci di un minimo contenimento, lamentose o tigri, insomma, sempre eccessive.

Dovessero fare una classifica delle insopportabili temo mi piazzerei abbastanza bene ma, anche se negli anni ho imparato a sdrammatizzare, mi rimane nel cuore un profondo dispiacere e una solitudine incurabile che mi accompagna ormai da molto tempo, continuando a orientarmi, sempre con più forza, come professionista.

Ascoltando i racconti che sto incontrando proprio in questo fine anno scolastico, prima della pausa estiva, trovo nelle parole ricorrenti degli operatori le origini di alcune distanze siderali.  Le ho nominate spesso nei miei scritti ma oggi ho la consapevolezza, amara e asciutta, che deve cambiare qualcosa di radicale perché operatori e genitori possano parlarsi e, soprattutto, intendersi. 

Un genitore non può ritrovare il figlio solo in un elenco di comportamenti, quasi sempre problematici, e di certo fatica a far dialogare alcune immagini esterne con quelle che vive nel suo ruolo affettivo. Nei racconti degli educatori a volte non intravedo quelle connessioni di cura che parlano proprio del “prendersi a cuore” di Don Milani e che invece, quando si incrociano, raccontano anche di relazioni positive e ricche con i genitori. Ma questo non vale per tutti i genitori?

Io tante volte non ti ritrovo in alcuni racconti e quasi mai quelle narrazioni sono occasioni di confronto e sostegno. La persona che sei per me non nega alcune dimensioni legate alla tua condizione ma, ogni giorno, prova ad andare oltre l’apparenza stupendosi di quello che è possibile far emergere da uno sguardo curioso.

Penso che l’automatismo sia uno dei mali più critici dell’educazione ma forse il fermarsi all’apparenza e stare sulla superficie non è da meno. Così scompaiono le essenze e con loro le persone, soprattutto quando hanno corpi, comportamenti e gesti che ricordano in ogni istante le loro differenze.

Vedere la persona straordinaria che sei diventata, e che mi ha aperto e apre ogni giorno porte per nuove conoscenze, mi sostiene per noi e mi sconforta per la cecità altrui. E allora sarò sempre insopportabile a causa di questo scarto abissale? 

Probabilmente sì.

https://danzareiltempo.blogspot.com/2021/05/a-occhi-chiusi.html

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A occhi chiusi

Un post che può essere un passo di danza tra due BLOG

Donne coraggiose

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di Irene Auletta

Ci sono due donne fondamentali nella mia vita e a loro devo la possibilità di non perdere mai di vista l’orizzonte, anche nei momenti di smarrimento.

Mia madre, oggi ottantaseienne, dall’età di trentasette anni ha iniziato il suo personale calvario che l’ha vista tante volte cadere e altrettante rialzarsi con la forza del sorriso. Come dice lei, la vita è già pesante, tanto vale essere sempre di buon umore! In ginocchio mia madre ha affrontato, insieme a diverse gravi malattie, la morte di un figlio e oggi, per fortuna, l’oblio del tramonto sembra renderle tutto più ovattato. 

Che ci sto a fare ancora qui se non posso più darti una mano? mi ha detto pochi giorni fa. Eccola quell’essenza di cura che appena può riemerge, anche se tinta di malinconia. E chi ti dice che non dai più una mano? Forse lo fai e neppure te ne accorgi? E così dalle ombre si apre un piccolo squarcio pronto ad accogliere la tua risata cristallina. Ecco mamma, anche per oggi, missione compiuta! 

E poi c’è la mia piccola donna, ancora e faro, con il suo zainetto di vita ben pesante sin dalla nascita. Lei mi insegna ogni giorno il valore dell’allegria che io stessa non smetto mai di nutrire. In questi giorni abbiamo ripreso i nostri rituali di scherzi e di risate per affrontare insieme alcune nuvole un po’ dense. Quando ridiamo la vita rimane un attimo sospesa e subito dopo tutto sembra più sostenibile. Mi inchino a te maestra Luna, che ogni giorno ti misuri con le tue piccole/grandi fatiche per affrontare la vita e nel farlo mi restituisci significati preziosi da trattenere.

Ma tu non sei mai stanca? Sembra che le fatiche che travolgono tutti noi neppure ti sfiorino. Non di rado mi sento rivolgere domande di questo tipo, soprattutto di questi tempi in cui ciascuno sembra fare a gara per rivendicare la sua personale fatica. 

Ogni tanto, mi piacerebbe anche lamentarmi ma poi vi penso, esempio di vita e di forza e, con la vostra immagine nel cuore, mi ritrovo ancorata ogni volta ai significati per me più forti e importanti. 

Mi volto, guardo chi mi ha rivolto la domanda e senza commentare, sorrido.

I bambini mostrano le cicatrici come medaglie. Gli amanti le usano come segreti da svelare. Una cicatrice è ciò che avviene quando la parola si fa carne. (Leonard Cohen)

Figli miei ricordiamoci di imparare

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Mercoledì alle 18.30, come ormai consuetudine ogni due settimane, il Salotto Pedagogico è aperto a tutti con la collaborazione del laboratorio di consulenza pedagogica.

Il tema caldo sarà: Figli miei, ricordiamoci di imparare – ovvero le cose sulla vita che questo periodo difficile e straordinario potrebbe insegnarci

Ormai moltissimi si stanno cimentando nelle previsioni di cosa diventeremo, il punto è chiedersi cosa dobbiamo imparare ora

Viscere e cuore

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di Irene Auletta

Ci sono espressioni che negli anni hanno finito con il crearmi spesso disagio e che mi spingono a fermarmi ogni volta che le incontro. Solo ad esempio ne cito due ricorrenti. Te lo dico di pancia e Io non ho peli sulla lingua. Spesso queste due espressioni sono inserite in un contesto di significato che pare dare valore assoluto alle comunicazioni senza filtro e non troppe mediate da una riflessione intermedia. Che questo sia un valore, mi lascia con qualche dubbio.

Ultimamente, anche grazie all’aiuto della mia maestra Feldenkrais sto ragionando, e lavorando, sulla modalità di “prendere le cose di petto” e sulle conseguenze che questo atteggiamento ha sul nostro corpo. Nonostante le conoscenze, molti di noi sottovalutano quello che accade al corpo in relazione al nostro modo di affrontare la vita e, purtroppo, il tema torna tristemente alla ribalta quando il corpo urla attraverso blocchi fisici o malattie.

Le scoperte che faccio lavorando sul mio corpo non possono non intrecciarsi con lo stesso lavoro fatto da mia figlia e tante volte tra di noi avverto quel filo silenzioso fatto di esperienze condivise. So che, durante le tue lezioni, rimani lì ferma ad ascoltare cosa ti accade e che negli anni hai sviluppato un ascolto sempre più profondo. Chissà che nome darebbero a questa capacità gli esperti di diagnosi funzionali? 

Noi due non abbiamo le parole per condividere e allora i nostri corpi devono ingegnarsi per raccontarsi e, di nuovo, tu mi diventi maestra.

Sveglie molto presto ci ritroviamo nel buio nella notte, come ahimè ci succede non di rado. Sdraiata a terra recupero movimenti delle lezioni Feldenkrais e ti invito a stenderti al mio fianco. Dopo avermi osservata un po’, apparentemente distratta e disinteressata,  arrivi vicina. Pochissime parole intrecciano gesti e respiro e così ci prendiamo cura della nostra insonnia.

Quando ti allontani il mio corpo riposa e penso che dovremmo davvero ascoltare le nostre viscere ma per poter tacere e poter dar tempo al pensiero di maturare prima di investire l’altro, magari in modo inopportuno. Mi hanno insegnato che affrontare le cose in un certo modo vuol dire essere forti e invece, nel silenzio di questi anni, ne sto scoprendo le molteplici fragilità che parlano di costi eccessivi.

Sapersi ascoltare, nella mente e anche nel corpo, può dare spazio a quella comunicazione che per molti di noi sa di orizzonti lontani. Togliendomi le parole mi hai costretta tante volte al silenzio e proprio lì mi aiuti, ogni volta, a risentire quel battito che, guardandoci negli occhi, trova nuove vie per raccontarci.

Tenerezza e inferno

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di Irene Auletta

3 dicembre, giornata internazionale delle persone con disabilità. Avrei voluto scrivere qualcosa direttamente ieri ma per me e’ sempre difficile esprimere pensieri “a comando” e di fronte a giornate che sembrano un sollecito a non dimenticare o a non perdere di vista importanti condizioni di vita.

Grazie a occasioni come questa, credo sia importante continuare a chiedersi cosa vuol dire vivere accanto a persone con disabilità e, pensando a me e a molti genitori che incontro, vedo emergere racconti ricchi di tante zone di luce che non negano, né nascondono, le ombre che si attraversano ogni giorno. 

“Ci sono giornate in cui l’inferno è a portata di mano” scriveva qualche giorno fa Manuela, una mamma che incontra ogni giorno questo tema, nella relazione con suo figlio. Chi condivide esperienze analoghe di sicuro sentirà in tale affermazione echi assai familiari e quella sensazione di morsa allo stomaco che a volte, andando oltre il dolore, ti lascia sfiancata dalla fatica.

Come mi è capitato spesso di dire, esiste un livello di fatica che è difficile da immaginare per chi osserva dall’esterno e non tanto per l’esperienza in sé, quanto per la crudele ritualità con cui si ripete per anni. Bambini piccoli, persone care malate o genitori anziani, possono chiamare alla stessa condizione legata proprio alla cura ricorsiva. Ma in tutte queste situazioni, con differenti sfumature e stati d’animo, si intravede una fine. Qui, molto spesso no.

Di fronte alla disabilità di un figlio, gli anni che passano sottolineano per molti genitori la fisiologica preoccupazione di avere sempre meno energie per affrontare i variegati bisogni di cura dei propri figli, siano essi legati all’aspetto fisico o a quello più prettamente relazionale. Spesso ci sono entrambi.

Nell’incontro con te, figlia mia, come vedo nello sguardo e nei gesti di tante persone che condividono la mia stessa esperienza, ho bisogno di riempire sempre l’altro piatto della bilancia con quella tenerezza che non smette di riservarti un posto speciale nel mio cuore. La tenerezza, secondo la filosofa Luigina Mortari, è capace di far nascere e crescere l’anima di chi scegliamo di curare con amore sensibile e spirituale. Richiede tanta generosità, rispetto, per la persona che curiamo e per la vita, capacità di tenere la giusta vicinanza/distanza, di dare speranza e fiducia.

L’inferno che a volte sbarra la strada può farci precipitare nell’abisso del cuore e solo la tenerezza può salvarci. 

Ti osservo mentre accogli sulla lingua i fiocchi di neve che qualche giorno fa ci hanno fatto una sorpresa inattesa e ridi, ridi, ridi. Con quella risata che, pur stonando con la tua età anagrafica, o forse proprio per questo, mi riempie d’amore. Nella tua vita ti ho vista tante volte precipitare e ogni volta riemergere più forte.

La tenerezza è sempre lì, pronta a consolarci e vivendo al tuo fianco ho imparato a prendermene cura. Ogni giorno.

Il mito del Benessere e il consumismo dell’anima

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Mamma…quando finirà il MannaggiaVirus?”

“Marco…non so quando finisce il MannaggiaVirus…, nessuno lo sa, ma di certo finirà come finiscono tutte le brutte storie….

Con questo episodio iniziamo una nuova serie dedicata all’analisi dei miti dell’educazione. Iniziamo con quello, diffuso e dominante, del Benessere, entrato in crisi profonda a causa della pandemia. Come dobbiamo affrontare le domande di rassicurazione dei nostri figli?

E, some sempre, cosa impariamo sull’educazione nel tentativo di dar loro una risposta?

Ascoltalo sul podcast Pillole pedagogiche con..

Per fare educazione devi capire com’E’ FaTTA

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