Caino non praticava Mma

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di Igor Salomone

Tutti siamo in grado di uccidere un nostro simile. Una buona dose di rabbia e un bastone, un cacciavite, un coltello da cucina, se proprio non ci sentiamo in grado di farlo a mani nude, sono più che sufficienti.  Non c’è alcun bisogno di allenarsi per anni negli sport di combattimento o nelle arti marziali. Quindi, buona parte del dibattito su violenza e Mma (Mixed martial art) seguito all’uccisione di Willy Monteiro Duarte da parte di un gruppo di criminali, è totalmente privo di senso.

Mi pare del resto priva di senso anche la risposta standard del mondo delle arti marziali. In un dojo, si dice, un maestro degno di questo nome insegna prima di tutto il rispetto per l’avversario. Nel nostro immaginario collettivo, l’arte marziale è quella che insegna il buon maestro Miyagi, non quell’orco a capo del Cobra Kai, e va bene, anche se il mondo delle arti marziali è complesso ed è pieno di sfumature che coprono tutti i gradi intermedi tra il mite vecchietto di Okinawa e il feroce picchiatore che addestrava picchiatori. 

Ma il rispetto dell’avversario non è un esclusiva della pedagogia marziale, lo insegnano, o dovrebbero farlo, tutti gli istruttori, i coach, gli allenatori di qualsiasi disciplina sportiva, è alla base dello spirito olimpico e persino dell’arte delle guerra, per lo meno come l’aveva descritta Sun Tzu.

Quindi, di che stiamo parlando mentre un giovane uomo, per giunta dal nome straniero, muore per la furia assassina di altri giovani come lui?

Forse dobbiamo parlare del senso dell’arte marziale, comprendendo sotto questo nome qualsiasi pratica insegni ad affrontare lo scontro con il corpo dell’altro. Se tutti siamo in grado di uccidere il nostro prossimo, a cosa serve sudare innumerevoli magliette per una quantità improbabile di anni, immaginando di doversi difendere da un aggressore? 

È semplice, serve a evitare di uccidere, o anche di ferire gravemente e, se è per quello, di umiliare, offendere, sopraffare chi ci aggredisce. Serve cioè a condizionare mente e spirito (per usare due categorie care alla tradizione delle arti marziali orientali) allo scopo di tenersi lontani dai comportamenti istintivi, ferini, violenti, quelli dettati dalla parte più primitiva del nostro cervello, quelli per intenderci “uccidi e scappa”. 

L’arte marziale insegna, o dovrebbe insegnare, a non esacerbare i conflitti, ad attraversarli senza creare vincitori, che creano vinti destinati a diventare nemici in cerca di vendetta. Insegna cioè, o dovrebbe insegnare, qualcosa che serve in ogni angolo della vita ed è per questo, solo per questo, che sudore e anni acquistano un senso.

Evidentemente a quel gruppo di sciagurati non è stato insegnato nulla di tutto ciò o, per lo meno, non lo hanno imparato. Hanno imparato invece che un conflitto si regola con la violenza e se qualcuno si mette in mezzo peggio per lui. Non so se glielo abbiano insegnato, forse non hanno fatto nulla per evitarlo.

Non aver paura dei camion bianchi

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“Papà, i camion bianchi sono cattivi?”
“Perché pensi che i camion siano cattivi?”
“Solo quelli bianchi!”
“Va bene, e perché i camion, quelli bianchi, sono cattivi?”
“Me l’ha detto Matteo, che un camion bianco ha ucciso tanti bambini”
“Ne hai visti molti da quando siamo partiti? di camion bianchi, intendo dire”
“Sì…”
“Hai avuto paura?”
“Sì! Pensavo che magari ci venivano addosso”
“Ed è successo?”
“No dai papà, se succedeva eravamo già morti!”
“Sai cosa facciamo? li contiamo. Quanti ne saranno già passati sino ad ora? dieci? venti? dai facciamo venti. Eccone uno là! Ventuno!”
“Ventidue! e guarda dopo il pulman, ventitré!…vale anche se è un po’ bianco e un po’ nero?”
“No no, stiamo cercando quelli cattivi e quelli cattivi sembra siano bianchi…”
“Ma perché quel camion bianco ha ucciso tante persone?…ventiquattro!”
“Matteo ti ha raccontato che quel camion andava in giro tutto da solo…?”
“No…”
“E secondo te?”
“C’era il guidatore”
“Allora sarà stato il guidatore quello cattivo, no? Guarda là! venticinque”
“Sì, sì…ma perché ha ucciso tanti bambini?”
“Di quanti colori vedi i camion?”
“Tanti! guarda là! rosso, e quello è grigio…là là, ce n’è uno tutto nero!”
“Quindi un uomo cattivo che vuole uccidere tante persone potrebbe guidarne uno di qualsiasi colore, non pensi?”
“…”
“Mica è necessario averne un bianco per fare quella cosa orrenda che ti ha raccontato Matteo, non ti pare…?”
“…quindi potrebbe esserci un uomo cattivo su ognuno dei camion che abbiamo incontrato da quando siamo partiti…?”
“Certo! in ogni camion di ogni dimensione! Vedi? quello è enorme, col rimorchio, di quelli che piacciono a te. Quello dietro invece è piccolino, un furgone più che altro, ma se ci investe fa lo stesso di quello grosso grosso”
“Anche quella macchina che sta arrivando velocissima!”
“Giusto! se ci fosse un uomo cattivo su quella macchina saremmo in pericolo lo stesso!”

“Si va bene, papà, ma perché un uomo cattivo uccide tante persone con un camion o un’auto?”
“Perché odia, figlia mio. Odia così tanto tutti da voler uccidere chiunque, senza neppure sapere chi sta uccidendo e quanto dolore provoca”
“Anch’io una volta ho odiato tantissimo un bambino che mi aveva rubato il mio gioco preferito…sono una bambina cattiva…?”
“A tutti capita di odiare, anche a me. Pensa che qualche volta ho odiato persino te…sai quando non dormivi mai la notte.? sapessi quanto ti ho odiato in quel periodo…”
“Allora sei cattivo anche tu?”
“Non so, non credo, quel bambino che hai odiato è ancora vivo? Si? e del resto sei viva anche tu, giusto? Quindi odiare non ci fa diventare cattivi per forza. Forse quell’uomo è diventato cattivo perché non è riuscita a passargli come è capitato a me con te e a te con quel bambino. Sai, l’odio è terribile, ma immagina di provarlo tutti i giorni un giorno dopo l’altro per tanto tempo…”
“Che brutto papà! non riuscirei a respirare!”
“Forse è proprio quello che è successo a quell’uomo cattivo che guidava il camion bianco. Forse non riusciva più a respirare per tutto l’odio che provava ed è diventato un assassino”
“Allora dobbiamo stare attenti a respirare…?”
“Sì, forse sì. L’importante non è odiare, ma smettere il più in fretta possibile, perché quando odi ti vengono in mente i pensieri più terribili e feroci”
“E’ vero, avrei voluto fargli delle bruttissime cose a quel bambino quando mi ha rubato il gioco…”
“E ti sei sentita cattiva per averlo pensato vero?”
“Sì”
“Però non le hai fatte quelle cose, giusto? è questo il punto: non si è buoni se non si hanno pensieri brutti, si è buoni se ai pensieri brutti non seguono azioni cattive”

“Ma papà, sono tanti gli uomini che non smettono di odiare?”
“Non so, nessuno li ha mai contati. Proviamo a farlo noi!”
“Come si fa…?”
“Prendi tutti i camion che abbiamo incontrato oggi, bianchi, gialli, neri, di tutti i colori. Prendi anche tutte le auto grosse che correvano impazzite. Poi pensa a tutti i camion e le auto che abbiamo incontrato ieri e l’altro ieri e l’anno scorso, insomma sino a quando ti ricordi. Quanti saranno stati?”
“Centinaia! No! milioni! Centinaia di milioni…?”
“Magari così tanti no…però, insomma, moltissimissimi! più di quanto non si riesca a contarne. E quanti di questi camion e di queste auto ci sono venuti addosso?”
“Quella volta che ci hanno tamponato…?”
“No, quella non conta, mica l’aveva fatto apposta. Sarà stato distratto quel guidatore, ma non era certo cattivo”
“Allora…nessuno…”
“Vedi? io non so quanti siano gli uomini che non smettono di odiare e diventano cattivi, però io e te sappiamo che le persone normali, che magari odiano più volte nella loro vita ma poi respirano e gli passa e non trasformano i loro brutti pensieri in azioni cattive, sono molte ma molte di più e le incontriamo tutti i giorni, in ogni momento, dappertutto, senza che ci facciano del male. E senza che noi facciamo del male a loro”
“Allora non siamo in pericolo?”
“…”

“Siamo in pericolo papà…?”
“…ti ricordi di quella volta che stavi correndo sul muretto e sei inciampata? sei caduta e hai battuto la testa. Un po’ di ghiaccio e ti è passato tutto. Però hai battuto la testa per terra a pochi centimetri dal bordo del marciapiede. Io e la mamma eravamo terrorizzati quando abbiamo visto che per pochissimo non hai picchiato contro lo spigolo…”
“Vi siete anche arrabbiati tanto…”
“Eravamo spaventatissimi… comunque è andata bene e sapessi quante volte nella vita ci va bene e sfioriamo soltanto un grave pericolo. Perché nella vita i pericoli ci sono sempre, a volte dipende da noi stare attenti ed evitarli, altre volte invece ci capitano e possiamo solo sperare di uscirne senza farci troppo male. Però il più delle volte, nelle vita, stiamo tranquilli e non ci accade nulla. Gli uomini cattivi che non smettono di odiare sono un pericolo raro come cadere da un muretto. Anzi, molto, molto più raro”
“Ma perché papà quell’uomo cattivo con il camion bianco ha ucciso tante persone?”
“Non ne abbiamo appena parlato…? perché odiava e non riusciva a smettere…”
“Sì va bene, ma è morto anche lui. Io non ho mai pensato di vendicarmi del bambino che mi ha rubato il gioco morendo anch’io!”
“Hai ragione, se uno vuole vendicarsi deve restare vivo per godersi la vendetta, giusto?”
“Giusto!”
“Ma quell’uomo non voleva vendicarsi, voleva spaventare, spaventare non quelli che ha ucciso, ma tutti gli altri che sono rimasti vivi e hanno visto quello che ha fatto”
“Io mi sono spaventata tanto…”
“Appunto, era questo il suo scopo: spaventarci tutti…però ora noi siamo in macchina e stiamo andando a fare una gita. Fra qualche giorno saremo al mare e andremo in spiaggia a vedere i fuochi artificiali. Quando torneremo andremo al cinema e poi alle feste di quartiere e in metropolitana e in mille e mille posti dove ci sarà tantissima gente attorno a noi che fa le stesse cose che facciamo noi”
“Tutte persone che respirano…?”
“Sì, che respirano…Quello che vogliono gli uomini cattivi che uccidono tante persone, invece, è spaventarci per farci diventare come loro”
“Io non voglio diventare come loro!”
“E allora odia chi vuoi, persino quegli uomini tremendamente cattivi, ma poi fattela passare. E continua a vivere la tua vita come se non esistessero. E’ questa la punizione più grande che possiamo infliggergli: continuare a vivere la nostra vita indifferenti al loro odio”
“Ma a me spiace che si sentano così…”
“Ecco, così è ancora meglio, si chiama compassione quella che provi. Ed è il miglior rimedio all’odio. E alla paura. Che tu sia indifferente o compassionevole nei confronti delle azioni cattive degli uomini che odiano, quello che conta è che tu continui a fare la tua vita. Perché ogni altra tua reazione, scappare, nasconderti, odiarli con forza, maledire la loro stirpe, chiedere la loro morte, rinunciare ad andare dove vorresti andare e a fare le cose che vorresti fare per evitare il rischio di incontrarne qualcuno, li farebbe vincere. E tu non vuoi che gli uomini che odiano vincano, vero…?”
“No papà!”
“E perché?”
“Perché non voglio smettere di respirare”

Bureaucratic Defence

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di Igor Salomone

Mi chiedono come mai mi incazzo di fronte alle ottusità burocratiche. Dopo tutti questi anni di arti marziali dovrei saper mantenere la calma di fronte a certe cose. In effetti. Non è mai bello perdere le staffe e non mi sento mai bene con me stesso quando succede. E succede.

L’altro giorno apro il frigo, prendo un contenitore con il cibo, mi volto per posarlo, sento uno strano rotolare proveniente dal frigo lasciato aperto, mi attardo a chiedermi che cosa mai fosse quel buffo rumore e, quando finalmente mi decido a voltarmi, tipo dopo un secondo scarso, è troppo tardi per fermare la bottiglia che vedo con effetto slow motion cadere rovinosamente sul pavimento andando in frantumi e spandendo l’intero contenuto sul pavimento, sulla porta, sui miei pantaloni, sul frigo stesso. Era piena, nuova, un Berlucchi d’annata tenuto per le grandi occasioni e dimenticato in frigo dopo l’ultima grande occasione. Naturalmente era l’ora di cena e mia figlia premeva per mangiare mentre nella prossima mezz’ora avrei dovuto raccogliere cocci e spumante e lavare il pavimento.

Non ho fatto neanche un plisset. Neanche un piccolo moto di rabbia. Neppure un fremito. Dopo un paio di secondi di sbigottimento, sono andato in bagno e ho preso il necessario per sistemare il caos.

Allora perché dò fuori di matto davanti a una dannatissima fattura elettronica da compilare on line?

E’ una bella domanda. Ci rifletterò a lungo. Vorrei come il Po di Kung fu panda, raggiungere la pace interiore, possibilmente senza digiunare per cinquant’anni, anche alle prese con la follia delle procedure amministrative e delle logiche organizzative. Ma sarà dura.

Temo che le arti marziali mi abbiano insegnato l’autocontrollo davanti a un avversario in carne e ossa. Anche quando l’avversario è il sottoscritto. Ma l’anonimato delle procedure burocratiche e delle regole organizzative non lo reggo.

Se una persona qualsiasi fa una serie di cazzate, magari mi irrita, ma cerco di capirne le ragioni. E in questo modo difendo me e nello stesso tempo difendo anche la persona che ho di fronte. Ma nel compilare una fattura elettronica mi imbatto in una quantità di codici, numeri, nomi, parametri che non sono mai esattamente quelli che mi aspetto, denominati con un linguaggio imperscrutabile, costruiti su una logica lontanissima dalla mia, con la spada di Damocle della sessione che di lì a breve scadrà e mi costringerà a iniziare tutto da capo e sapendo che, alla fine di tutto, l’operazione probabilmente non andrà a buon fine per mille e uno motivi del tutto incomprensibili, provo un unico sentimento che mi sommerge: l’impotenza.

Non posso difendermi, da chi mi difendo? e come? devo solo subire. Per questo perdo il controllo.

L’impersonale della burocrazia è una finzione: dietro ogni procedura, dietro ogni modulo, dietro ogni format, ci sono persone concrete che hanno preso decisioni concrete scegliendo di fare le cose in un modo piuttosto che in un altro. E quelle persone vorrei averle almeno per una volta nella vita davanti agli occhi. Per chieder loro conto delle ragioni per cui noi tutti siamo costretti a compilare cose assurde, ripeterle un tot di volte, avanzare come in un gioco dell’oca e come in un gioco dell’oca sbagliare e dover tornare indietro per ricominciare da capo.

Se le avessi davanti agli occhi, sono sicuro, saprei come difendere le mie ragioni e accogliere le loro. E non perderei il controllo.

Anche se quelle persone concrete e in carne ed ossa dovessero difendere le loro logiche trattandomi da stupido. Perché una procedura non la capisco, ma le persone sì, nonostante di fronte all’ottusità delle procedure scelgano talvolta di comportarsi in modo ottuso, invece di interpretarle in modo intelligente.

Ticket to stop

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di Igor Salomone

Di ritorno dal San Raffaele. Più che un ospedale, un misto tra un alveare, un centro commerciale e un labirinto. Esami di controllo per mia figlia.
Terminato il da farsi, andiamo a recuperare la macchina in un parcheggio sotterraneo da film dell’orrore con moltitudini di persone che vi si aggirano alla ricerca della propria auto se non dei propri cari smarriti tra corridoi segnalati con una logica imperscrutabile.
B13. Trovato! saliamo e ci dirigiamo verso l’uscita. Sbarra, ticket precedentemente vidimato alle casse automatiche inserito, luce rossa, la sbarra non si alza. Ci riprovo più volte variando il verso di inserimento. Alla fine mi decido e pigio il bottone per le informazioni.

“Mi scusi, ma sono all’uscita e la sbarra non si alza”
“Non si alza perché sono scaduti i 15 minuti che aveva a disposizione dal momento del pagamento al momento dell’uscita”
15 minuti che ho trascorso divertendomi in una simpaticissima caccia al tesoro.
“E quindi…?”
“Quindi deve tornare giù alla cassa, pagare la differenza, rividimare il biglietto e poi può tornare su e uscire”
“Mi perdoni, ma io sono davanti alla sbarra dopo la rampa, non posso tornare indietro…”
“Lasci lì l’auto, scende paga la maggiorazione e torna su in due minuti”
“…ma in auto c’è mia figlia disabile, mica posso lasciarla qui da sola…”
“Questo è un ospedale e ognuno ha i suoi problemi…”

Ecco, appunto, quello è un ospedale, dunque è facile che sulle auto non ci siano atleti nel pieno della loro forma, ma pazienti appena dimessi, bambini, disabili, anziani. Che hanno 15 minuti esatti per recarsi dalle casse automatiche al parcheggio, trovare l’auto, salire, sistemare eventuali carrozzelle, trovare l’uscita, arrivare alla sbarra e inserire il ticket.
Se non fanno a tempo, cavoli loro, le regole sono regole e se il biglietto è scaduto tornano giù a pagare la differenza.

Sono contento di essere stato al San Raffaele oggi. Ogni tanto ho bisogno di ricordarmi perché non mi fido delle grandi organizzazioni e le detesto: sono piene di logiche stringenti che nell’insieme formano un sistema idiota. Probabilmente il parcheggio è appaltato a qualche società esterna. Del fatto che sia situato in un ospedale non potrebbe fregargliene di meno. E all’ospedale che il parcheggio sotto il proprio culo non tenga conto di essere sotto il culo di un ospedale, frega ancora di meno.

“Mi perdoni ma io non posso lasciare mia figlia disabile da sola in auto mentre scendo a rifare il biglietto”
“Non posso farci nulla, io sono qui da sola”
“Certo che può fare qualcosa, mi mandi qualcuno a risolvere il problema”
“Sono sola non c’è nessuno e devo rispondere agli altri utenti”
“Faccia una telefonata al suo responsabile e gli faccia presente che questa situazione è assurda. Io di qui non mi muovo”

A quel punto mi stavo veramente incazzando. Prendo il telefono in mano e cerco il centralino del San Raffaele. Ero deciso a farmi passare un responsabile qualsiasi a costo di arrivare sino a Berlusconi. Perché c’è una cosa che non tollero più della stupidità delle organizzazioni: la stupidità che inducono negli operatori che le abitano. Non tutti per fortuna, sulla mia strada ho incontrato moltissimi ottimi operatori di buon senso. Ma quando vedo l’ottusità delle regole riflessa nell’ottusità dello sguardo, mi incazzo.

Non solo io e mia figlia ci troviamo in una situazione assurda, praticamente in stallo, senza poter andare né avanti né indietro, ma mi tocca pure sorbirmi il pistolotto pedagogico dell’addetta alle informazioni: l’errore è stato mio, non dovevo superare il quarto d’ora a disposizione e ora il problema me lo dovevo risolvere io. Ma ti pare?

Mentre smanetto con l’iPhone alla ricerca della gola di qualcuno da azzannare, arriva un tipo con i guanti da lavoro che mi chiede due euro e mezzo per il conguaglio dicendomi che l’aveva mandato l’operatrice delle informazioni. Pago, richiamo l’operatrice per confermare e farmi aprire la sbarra, nuovo pistolotto pedagogico.

“Si rende conto che ho dovuto mandare un uomo delle pulizie per risolverle il problema?”

Evito di infierire rispondendole che quindi un sistema per venirmi in aiuto l’aveva trovato, dunque poteva fare quello che aveva negato di poter fare. Inoltre la sbarra me l’ha alzata lei, dunque il magico bottone era sotto il suo controllo. Era così difficile dirmi: ha ragione signore mi rendo conto che la sua è una situazione incresciosa, abbia pazienza un attimo che trovo qualcuno e lo mando da lei e regolare la questione? Figurati. Invece rincara

“Ora devo fare anche rapporto per questa faccenda”
“La ringrazio per l’aiuto che mi ha dato, ma sia così gentile da far presente alla sua organizzazione, invece di difenderla inutilmente, che queste regole sono stupide”

Sono contento di essere stato al San Raffaele oggi. Se avevo bisogno di un esempio per capire che il senso non sta nelle singole scelte ma nelle loro connessioni, in assenza delle quali ogni sistema decisionale è fondamentalmente cieco, non potevo trovare di meglio.

Vedrò di farlo sapere anche al San Raffaele. Magari aiutatemi se avete i contatti giusti.

S-GRIDA-RE

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post Nadia 2di Nadia Ferrari

Ho sgridato mia madre si. L’ho fatto “forte” proprio come si fa con i bambini indisciplinati quando si é raggiunto il limite della sopportazione e dopo aver tollerato diverse torture. Uno s-grido! che potesse mettere fine. L’ho fatto prima crocifiggendola con i fatti, poi combattendo contro le sue bugie, le sue fughe, le sue sleali giustificazioni e resistenze ed infine, ammonendo e minacciando una più severa punizione (fantasmatica e impraticabile) se le cose non fossero immediatamente migliorate.

L’ho fatto senza alcuna delicatezza spinta dalla furia, sono stata informata dei suoi litigi e atteggiamenti sociali scorretti verso altre persone anziane e senza sentire ragioni sono scoppiata. Ancora? Ancora problemi? L’ho fatto in realtà non proprio così facilmente, prima dell’esplosione ho attraversato la sorpresa (mia madre ha sempre avuto il dono di sorprendermi, più verosimilmente di allibirmi) poi l’incredulità ed infine la vergogna.

Ecco la vergogna. Una vergogna complessiva a più dimensioni verso di te mamma per come sei fatta o per la mia impossibilità di identificarmi in una anche minuscola parte del tuo carattere; e verso la ricaduta delle tue azioni sugli altri. Quando invecchiano non li si riconosce più, non si sa come trattarli e ci si attacca alla infinita serie di luoghi comuni che soli abitano le nostre interpretazioni: “tornano bambini, fanno i capricci, diventano egoisti, bisogna sgridarli”. Diventano… ritornano… restano… Come se la cosa non ci riguardasse. Sarebbe più corretto usare i verbi in prima persona: diventiamo… ritorniamo … scatterebbe forse anche in me un minimo di empatia.

La verità è che noi mamma non ci riconosciamo e non siamo riconoscenti. Le argomentazioni che mia madre dà dei suoi comportamenti sono desuete, démodé, sono scadute. Non è nemmeno escluso che una volta andavano bene: forse nel suo tempo, nel suo contesto, nel suo mondo si poteva litigare ed offendersi con più leggerezza.

Mia madre ha 84 anni l’ho sgridata “forte” per delle azioni alle quali io non ero presente. Ho infilato una dietro l’altra azioni pedagogiche di sicuro insuccesso lo so. Ad una certa età ti tocca educare tua madre? tocca a me farlo? E’ legittimo accompagnarla così nella fase finale della vita? Domande aperte nella loro chiusura: intesa come combinazione che permetterebbe di vincere la partita.

La vergogna dà un dolore profondo e mina l’identità, dopo averla sgridata “forte” ora, distolgo lo sguardo quando incrocio i suoi occhi desolati e lo abbasso quando entrando al Centro incrocio quello del personale che la accudisce in mia assenza. Si può spiegare la vergogna come eccesso di difesa?

Sono stata sulla difensiva mamma non ti ho compreso e non ti ho difeso… Non l’ho fatto non solo perché tu sei indifendibile ma perché io ho smarrito il valore di ciò che stavo difendendo. Avrei forse dovuto uscire allo scoperto, osare, riconoscere che la vita è comunque è sempre una sfida e provare ad investire energia ancora su di noi ma riuscirò mai a chiudere le crepe con dell’oro rendendole preziose?

Forse sono ancora in tempo.

Punti ciechi

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di Igor Salomone

Se qualcuno tocca mio figlio, lo ammazzo. Quante volte l’ho pensato? Quante volte l’abbiamo pensato. Chi non l’ha mai fatto, chi non è mai stato sfiorato da questo moto di rabbia interiore? Se c’è scagli la prima pietra. Nessuno? eppure di pietre ne stanno volando parecchie in queste ore, in questi giorni. Succede sempre così.

Violenza genera violenza. E, di solito, in quantità maggiore. Alcune persone di una determinata categoria compiono atti tremendi, tutte le persone di quella categoria vanno controllate perché potenzialmente pericolose. E’ normale, lo so. Ci vuole un attimo a scatenare in ognuno gli istinti più primordiali, me compreso. Ho fantasticato più volte di avere per le mani un ipotetico aggressore di mia figlia, almeno cinque minuti, prima di doverlo consegnare alla polizia. Mi sono sorpreso molte volte a sentire dentro di me il germe di una violenza inaudita. Non credo di essere sbagliato, è un istinto primario, è l’altra faccia della cura che non è fatta solo di gesti dolci, morbidi, accoglienti. E’ fatta anche di denti digrignati, urla, morsi indirizzati a chiunque si permettesse di maltrattare chi amiamo.

E’ l’istinto.
Per questo occorre metterci di mezzo la testa. Anche perché, una volta sfoderati, denti, unghie e pugni non si sa mai contro chi se la prenderanno.

Ci vuole un attimo per rendersi conto, usando la testa, che la conseguenza della nostra rabbia va contro i nostri stessi desideri. Ci sono rimedi peggiori del male perché contribuiscono a farlo crescere. E’ già accaduto con il DDT prima e con gli antibiotici poi: abbiamo scoperto a nostre spese che più aumentavamo gli uni e gli altri per sconfiggere zanzare e batteri, più zanzare e batteri si facevano furbi mentre noi ci indebolivamo. Perché con le telecamere da Grande Fratello orwelliano dovrebbe essere diverso? Più ne mettiamo, più la violenza si fa furba, modifica le proprie strategie, impara a muoversi nascondendosi, sviluppa la capacità di esprimersi in forme meno o per nulla riconoscibili.

Girano filmati terribili sulle violenze in alcune scuole dell’infanzia e in alcuni centri per disabili o pazienti psichiatrici. Tutti quelli che chiedono a gran voce, e ne comprendo profondamente i sentimenti, di mettere telecamere ovunque, dimenticano che quei video sono stati possibili perché nessuno sapeva delle telecamere. Ma alla lunga non puoi nascondere ai batteri che fai uso di dosi sempre più massicce di antibiotici…
Vogliamo prevenire le violenze oppure che i violenti imparino a esserlo in modo più sottile?

Non firmerò nessuna petizione, quindi. Credo che le videoriprese debbano restare strumenti nelle mani degli inquirenti da attivare su precise segnalazioni. Altrimenti il prossimo passo sarà chiedere di installare webcam anche nelle abitazioni private. Dopotutto è un dato ormai acquisito che il luogo nel quale si consumano le peggiori violenze contro minori, disabili, anziani, persone mentalmente disturbate (e donne), sono le mura familiari. A meno di non credere che noi siamo gli unici ad avere il diritto di maltrattare i nostri cari.

Per il resto occorre cambiare sguardo e riconoscere che aver cura di qualcuno produce in egual misura empatia e aggressività. Lo sappiamo tutti, dobbiamo solo smettere di negarlo continuando a fantasticare un mondo buono come Il Mulino Bianco. Buttiamo nella spazzatura, magari nell’umido perché si può certamente riciclare, l’ideologia del buon cuore e dei buoni sentimenti e ammettiamo che l’altro, quando ha bisogno di aiuto, spesso fa incazzare. E’ il primo passo per imparare a tenere sotto controllo la propria ira che, come tutti i vizi capitali, è sempre il prodotto di un eccesso di virtù.
Ed è anche il primo passo per chiedere che chi di cura si occupa per mestiere, venga formato a proteggere l’altro anche dai propri eccessi, imparando a controllare l’invadenza dei propri gesti, a chiedere aiuto al collega o a fornirglielo se è il momento di fermarsi o fermarlo, a fare un passo indietro quando è necessario.

Certo, per tutto questo occorre tempo e denaro. Ma probabilmente meno di quanto ne occorrerebbe per trasformare ogni luogo della cura nella peggior edizione del Big Brother sia mai andata in onda.

Io, innamorato dell’Arte marziale

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di Igor Salomone

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Vi piacciono i karategi, i kimoni, le divise variamente colorate e setate, le spade, le alabarde spaziali, gli incensi, la cerimonia del Tè, la danza del leone e tutto l’armamentario che alberga l’immaginario collettivo dai film di Hong Kong degli anni ’70 in poi?
Non vedete l’ora di calzare un paio di guantoni e salire su un ring per tentare di portarvi a casa qualche coppa in qualche campionato, fosse anche quello rionale?
Volete imparare a difendervi da rapinatori, scippatori, stupratori e bulli assortiti?
Insomma, se siete appassionati di arti marziali e appartenete alla folta schiera di coloro che almeno una volta nella vita ne hanno praticata o anche solo desiderato praticarne una, rivolgetevi pure a me, vi indirizzerò da qualcun altro. Nel frattempo potete smettere di leggere questo post.

Se invece di tutto questo non vi importa un bel nulla, o comunque non tanto da farvi scegliere di iscrivervi a un corso di karate o di Kung fu, ma da qualche parte, in qualche modo, in qualche momento della vostra vita, in qualche angolo della vostra mente vi siete chiesti a cosa serve l’Arte marziale, vi prego, continuate a leggere.

Non nego che anch’io sono stato sedotto a suo tempo dai riti, dagli ambienti, dai colori, dai nomi in giapponese in gioventù e in cinese da adulto; non nego di aver sognato qualche momento di gloria o di affrontare dai cinque ai dieci malintenzionati riducendoli all’impotenza a suon di calci volanti. Ma era un’altra stagione della vita. In realtà dei riti mi sono stufato, sono da tempo fuori età per le competizioni sportive e non ho particolare desiderio di allenarmi per ore, mesi e anni, coltivando la sindrome del Deserto dei tartari, in perenne attesa che prima o poi qualcuno mi aggredisca armi in pugno.

Nonostante tutto ciò continuo ad amare l’Arte marziale. E questo potrebbe interessarvi, se non avete ancora abbandonato la lettura. Magari scoprite altri buoni motivi per salire su un tatami oltre a quelli che a voi non interessano, no? In questo caso, se vi rivolgerete a me, potremo fare parecchie cose assieme. Sapete dove trovarmi.

Dunque, perché a quasi sessant’anni di vita e trenta di pratica amo ancora l’Arte marziale, anzi, l’amo più di prima? Andiamo per ordine.

L’amo perché è il mio modo di muovermi, di camminare per strada, di fendere la folla, di scarpinare in montagna. L’amo perché è nel mio respiro, nella mia postura, nel mio sguardo. L’amo perché è nel modo stesso di percepire il mio corpo nello spazio e nella relazione con gli altri.
L’amo perché mi ha sostenuto nelle innumerevoli volte in cui ho rischiato di andare a sbattere contro qualcosa, di cadere malamente o di venire sopraffatto da un pericolo incombente.

L’Arte marziale è al mio fianco ogni volta che incontro qualcuno, che sia una persona cara o una moltitudine di sconosciuti sulla banchina del metrò. Mi aiuta a percepire le distanze, a proteggere le vicinanze, a difendere gli spazi altrui difendendo i miei, a incontrare l’altro miscelando intenzione, prudenza e rispetto.

Infine l’Arte marziale mi ha insegnato e ancora mi sta insegnando a evitare lo scontro. Qualsiasi tipo di scontro: dai pugni che volano per un sorpasso alle liti al veleno con i colleghi, gli amici e le persone care, con le quali magari non rischia di scorrere il sangue, ma fiumi di rabbia e di dolore sì. E se non riesco a evitare lo scontro, mi sta insegnando a ridurlo ai minimi termini e, in ogni caso, mi insegna a sostenerlo quando, fallito ogni altro tentativo, mi tocca di affrontarlo.

E’ questo tipo di amore che coltivo ed è questo tipo di pratica che insegno a quel 10% in cerca di un’esperienza, arte marziale compresa, capace di parlare alla vita quotidiana.
Ho coniato più di dieci anni fa ormai il marchio “Difesa Relazionale”. In tanti mi hanno chiesto di cosa mai si tratti. Ecco “Difesa Relazionale” non è che l’Arte marziale posta al servizio della propria sicurezza, del proprio benessere, della capacità di star meglio con se stessi e nella relazione con gli altri.

Se questo non è amore…

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Igor Salomone

T 3394312466
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corso il mercoledì sera dalle 20.00 in via Tito Livio 23, Milano

 

Intelligenza al tappeto

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di Igor Salomone

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E’ una nuova moda. Giovanile. Ovviamente iniziata negli Usa e ora in approdo da noi. Si chiama “Knock out games”, fatevi un giro in Internet per inorridire, se già non l’avete fatto. Sicché tu passeggi per strada, così, per conto tuo, magari assorto nei tuoi pensieri, oppure tuffato sin dentro lo schermo del tuo smartphone, e all’improvviso sbuca fuori un bastardo che ti ammolla un cazzotto deciso e preciso da metterti Ko. Questo è il suo obiettivo, metterti Ko, se no non vale. Altrimenti non fa punteggio.Non è che ce l’abbia con te per qualche motivo particolare. Tutt’altro. Quasi certamente tu non sai chi sia e lui non sa chi sei tu. Ti ha scelto proprio perchè eri assorto e distratto, sbuca fuori dal gruppo dei bastardi suoi compari e ti salta addosso senza il benché minimo segnale. Da nostalgia per il branco violento in cerca di vittime predestinate che, per lo meno, accompagna la sua violenza con un’aggressività manifesta, percepibile a distanza e dalla quale, con un po’ di training, puoi difenderti imparando a coglierne i segnali per tempo e dartela a gambe.

Qui no. Nessuna aggressività, mica ce l’hanno con te. Nessun preavviso. Potrebbe essere il tipo che è li vicino a te in questo esatto momento. Non ha dato alcun segno, niente che ti possa in qualche modo mettere in allarme. Poi, a un tratto si gira verso di te e sbang: ti atterra. Atterrandoti così, totalmente di sorpresa, ti rompe il naso e qualche dente. Se ti va bene e, cadendo, non batti la testa contro qualche spigolo. Fa scandalo questa violenza del tutto gratuita, ammantata addirittura di gioco sin nel nome. Brutta storia. E ancor più brutta la storia perchè si è trasformata in un fenomeno virale. Picchi a tradimento qualcuno per strada e finisci su Youtube. Sai quante visualizzazioni? Figo. Diciamo che una sola visualizzazione su, quante?, dieci, cento, mille? è accompagnata dagli applausi, sommersa dai fischi e dalla riprovazione con tanto di testa squotente delle altre nove (novantanove, novecentonvantanove). Insomma, non si fa e solo pochi pirla possono riderci sopra. Meno male. Un po’ di senso civico è rimasto persino in Rete.

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Poi, sempre in Rete, trovi anche questo: altri idioti che si divertono a spaventare sulla pubblica via o nel metrò ignare vittime che se non crepano di infarto poco ci manca. In favore di telefonino anche in questo caso ovviamente. Quindi dritti su Youtube alla ricerca di clic: migliaia, centinaia di migliaia, milioni. Molti plaudenti in questo caso, temo, pochi i testasquotenti. Ma che differenza c’è, scusate, con il cazzotto che arriva all’improvviso? Rischiare l’infarto perchè un gruppo di deficenti si traveste da zombie e ti assedia in una carrozza del metrò è meno pericoloso di un naso rotto? Se non ti toccano non è violenza? Certo, se arrivasse a me il cazzotto inaspettato, finirei a terra come tutti, se invece mi fanno per strada un “buu” come quelli che si vedono in Rete, a terra ci finiscono loro. Ma sempre violenza è.

Intravedo un filo rosso che parte dalle gomme tagliate per fare uno sgarro, passa per gli spaventi perpetrati ai danni dei passanti e finisce (per ora) con i Knock Out games. Possiamo fare tutte le analisi sociologiche che vogliamo, ma resta che in ognuno di questi casi i responsabili sono, come li avevo definiti?, “codardi, privi di dignità e imbecilli”. Non serve che dica perchè, l’ho già fatto nel post Fatti non foste a viver come bruti. Buona ri-lettura.

Difendere le relazioni

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Laboratorio di Sintesi Educativa

un’idea di Igor Salomone
Approfondisci il tema di questo post seguendo il progetto in progress sulla pagina del sito igorsalomone.it

Leggevo l’altro giorno su Repubblica questo articolo, annunciato con un occhiello sul fondo della prima pagina. Il titolo è un programma: Studenti contro Prof. Così le nostre classi diventano un ring. Inquietante. Apre scenari destinati a mandare in soffitta tutto un genere cinematografico, da La scuola della violenza, con Sidney Poitier a Meri per sempre con Michele Placido, passando per tutti gli epigoni dell’uno e dell’altro. Almeno lì i “prof” non le prendono. L’articolo invece racconta che le prendono, eccome.

Mi chiedono sempre più spesso cosa mai sia “Difesa relazionale”. Quella che vado proponendo ormai da una decina d’anni nelle situazioni più svariate e che d’acchito appare incomprensibile nel nome stesso. Ecco, una difesa relazionale è esattamente ciò di cui ci sarebbe bisogno nelle situazioni raccontate in quell’articolo.

Nella maggior parte dei corsi di difesa personale, insegnano ad affrontare situazioni di pericolo con un obiettivo unico: portare a casa la pelle. Ammesso e non concesso sia possibile obbligare tutti gli insegnanti “a rischio” a un corso di quel tipo, che se ne farebbero? Nessuna delle aggressioni raccontate mette nelle condizioni di doversi salvare la pelle. Un calcio nel sedere, uno schiaffo, delle spinte, degli strattoni, delle ingiurie urlate a un dito dalla faccia, mettono a rischio la tua dignità se le prendi e la tua libertà se le dai. Dunque saper atterrare o mettere fuori combattimento un minore che ti sbeffeggia non serve a nulla, anzi potrebbe essere pericoloso. Cosa serve allora?

Serve innanzitutto avere coscienza delle proprie reazioni di fronte a un atto aggressivo. Ho visto decine di operatori rispondere a un gesto percepito come violento o anche solo invasivo con l’intero repertorio delle cose che non andrebbero fatte. Tipo irrigidirsi, alzare la voce, alzare il corpo, gonfiare il torace, smanacciare cercando di afferrare le braccia del proprio presunto aggressore e simili. Diciamo che un po’ di consapevolezza, non guasterebbe, perchè non è mai dato sapere se un gesto aggressivo è gratuito, oppure se è una risposta al nostro maldestro modo di difenderci.

In secondo luogo serve chiedersi da dove viene ciò che ci sta accadendo quando l’altro ci mette le mani addosso. I problemi non cadono dal cielo, e se un ragazzo arriva a prendere a calci un professore, quell’atto va letto come l’ultimo di una catena di fatti non governati in precedenza. Esistono le violenze “da strada”, come usa dire, perpetrate da sconosciuti in luoghi sconosciuti per motivi sconosciuti. Ma sono casi estremi. Ciò che mostra l’articolo di Zunnino è quello che sappiamo tutti da tempo ma non ci decidiamo ad accettare: chi ci aggredisce nella maggior parte dei casi è una persona conosciuta, con la quale addirittura abbiamo una qualche relazione se non addirittura una reponsabilità di ruolo. Dunque qualsiasi nostra reazione avrà conseguenze su quella relazione in futuro, e non possiamo escludere che l’attacco subito oggi non sia la conseguenza di qualcosa che abbiamo fatto ieri.

In terzo luogo, ma è il fattore probabilmente più importante, la violenza non va considerata come una qualità del nostro aggressore, ma come una condizione generata dal contesto della nostra relazione. I rapporti di potere (come quello tra insegnante e studente), il sovraffollamento dei corpi, la costrizione fisica e la promiscuità prolungata, sono generatori di stress che possono sprigionare aggressività con esiti anche violenti. Occorre dunque fare un intenso lavoro di prevenzione sia lavorando sulla scena educativa per tentare di renderla meno pericolosa, perchè ogni scena educativa è pericolosa e bisogna imparare a vederlo, sia imparando ad ascoltare come il proprio corpo l’attraversa per poterlo mettere in sicurezza relativa.

Ecco, questo è “difesa relazionale”. E riguarda tutti: insegnanti, educatori, operatori sociali, genitori, donne. Non solo quindi per pochi patiti di sport da combattimento disposti a sudare tre quattro volte alla settimana in una palestra per dieci o vent’anni, ma per chiunque viva contesti relazionali intensi nei quali possa prodursi un conflitto che possa sfociare in uno scontro anche violento. 

Nel Laboratorio di Sintesi Educativa, quando ci sarà e avrà avviato le sue attività, sarò felice di accogliere tutte quelle persone per cercare assieme la via di un’autodifesa etica e consapevole. Che miri a difendere la relazione con l’altro, anche quando ci aggredisce. Che abbia in conto la protezione di entrambi. Che sappia creare le condizioni per evitare l’escalation. Che metta in sicurezza i luoghi dell’incontro.

Fatti non foste a viver come bruti

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Sei un vigliacco. Vigliacco e privo di dignità. Vigliacco, privo di dignità e imbecille. Ora ti dirò perché.

Come definiresti chi si nasconde, dopo aver tagliato tutte e quattro le ruote di un’auto, la nostra, per ben due volte nell’arco di un mese? Volevi dirci qualche cosa? Ho capito solo che sei incazzato con noi, ma perché? Manifestati dannazione, mandaci un maledetto messaggio, anche obliquo, anche in codice, anche per mano di terze persone, lascia un biglietto sotto il tergicristallo, volantina sulla piazza, fa come vuoi, ma non ti sembra dovremmo sapere cosa vorresti espiassimo a suon di centinaia di euro, tempo perduto, rospi ingoiati e preoccupazione crescente? Sarebbe bello anche sapere chi sei, giusto per poter fare ammenda di qualche eventuale colpa commessa ai tuoi danni. Ma sei un vigliacco, e lo sei al punto da nascondere te stesso e perfino le tue motivazioni.

Ti sarai reso conto vero che le gomme contro le quali ti sei accanito a più riprese, appartengono a un’auto parcheggiata  in un’area disabili riservata? E che, in entrambi i casi, aveva esposto il pass in bella evidenza sul cruscotto, come da normativa? La prima volta potevamo pensare di no, che fossi uno sconsiderato in giro con gli amici la domenica notte, tutti ubriachi e in cerca di bravate, e che avessi trovato per caso la nostra auto comoda e disponibile, quasi messa a bella posta per provare la lama del tuo coltello. Ma la seconda volta…stesso modus operandi direbbero nei crime televisivi, non è più un caso, significa che ce l’hai proprio con noi e che la tua rabbia vile si è sfogata fregandosene dei segni che ti dicevano attenzione! qui c’è un mezzo che serve a una persona disabile!

O forse, la tua rabbia nasceva proprio da quello. Avrai pensato: ecco il solito privilegiato che parcheggia dove cazzo vuole con la scusa della disabilità, adesso gliene faccio passare la voglia. Poi sei tornato dopo un mese, il privilegiato era ancora lì con quattro pneumatici nuovi fiammanti, praticamente una provocazione, e hai deciso di dargli un’altra lezione, magari mettendo già in agenda la terza. Ti sei vantato di questo tuo gesto? mi auguro di no, perché la mancanza di dignità è contagiosa e se l’hai raccontato in giro hai costretto altri alla complicità con un gesto ignobile. Sono incazzato, lo ammetto, ma col passare delle ore cresce in me un sentimento di pena nei tuoi confronti. Deve essere veramente brutta una vita dominata dal rancore. Noi abbiamo otto ruote tagliate, tu hai il senso della vita in frantumi.

Sai cosa c’è che alla fine mi rattrista di più? La totale inutilità del tuo gesto. Cosa volevi ottenere? di spaventarci? di renderci la vita difficile? Il problema è che non hai la più pallida idea di quanto la nostra vita sia già difficile e segnata dalla paura. Conviviamo con l’ansia quotidiana per la salute di nostra figlia, sì, quella cui è intestato il pass, la disabile, la fortunata avente diritto a un parcheggio davanti a casa. Le nostre giornate sono scandite dalle fatiche, dai disagi, dalle difficoltà. Trovarsi appiedati un lunedì mattina perché qualche buontempone ha tagliato tutte e quattro le gomme dell’auto impedendoci di accompagnare nostra figlia al centro dove trascorre le sue giornate, è solo una delle mille e mille difficoltà del nostro videogame esistenziale. Non è piacevole, ma siamo sopravvissuti a prove di gran lunga peggiori. Quindi il tuo gesto è inutile. Non ci spieghi il perché, non ci dici chi sei, non sappiamo quello che vuoi e dunque non possiamo neppure provare a dartelo. Aggiungi solo una fatica a un elenco lunghissimo e niente più. Oltre alla vigliaccheria e alla mancanza di dignità, dunque, nel tuo gesto non c’è neppure un po’ di intelligenza. Pura violenza senza una briciola di pensiero. E la debolezza del pensiero è ciò che il dizionario della lingua italiana dà come definizione di imbecillità.

Mi dispiace per te, quindi, nostro sconosciuto persecutore. E già che ci sono, mi dispiace anche per questo nostro mondo. Viltà, perdita di dignità e intelligenza debole, sono mali piuttosto diffusi. Pensavi di essere originale? Ti sbagli, la banalità della tua violenza è addirittura sconcertante. Guardati in giro, troverai mille come te e il motivo è semplice: la via del coraggio, del rispetto, del pensiero, è molto più faticosa. A tagliar gomme nascondendo la mano ci vuol niente. A guardarmi negli occhi per dirmi cosa ti ho fatto e, semmai, perdonarmi, ci vogliono impegno, disciplina, fatica, orgoglio, forza, volontà. Virtù che temo tu abbia smarrito. Usa il coltello per tagliar via questa tua vita grama e piccolina. Virtute e conoscenza sono sempre a portata di mano, se usi la mano per imparare, invece che per colpire.

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