Corpi che imparano

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di Irene Auletta

“La vita non è statica fluisce cambia di continuo, l’unico elemento costante è il cambiamento” (Moshe Feldenkrais)

Reduce da un seminario Feldenkrais mi ritrovo davanti alla tastiera del mio portatile con l’esigenza e il desiderio di trattenere, anche attraverso le parole, un’esperienza importante, ricca, generativa.

Otto donne, comprese la maestra storica e una sua collega, in una location incantevole e accogliente, a contatto con una natura fresca e rigogliosa capace di sostenere, con tutta la sua bellezza, un percorso di scoperte e ricerca.

Il femminile, unitamente alla professionalità delle insegnanti e alla disponibilità dell’intero gruppo di stare nell’esperienza, ha fatto sentire forte la sua peculiarità connotando in modo inequivocabile la possibilità di guardare la cura di sé e delle proprie relazioni, attraverso quello che più volte è stato definito e presentato come “apprendimento organico”. Il corpo ascolta, impara, modifica, producendo cambiamenti rispetto a quanto gli ruota intorno. 

Parole e significati ormai familiari, dopo anni di incontro con questo metodo, si rivelano preziosi e graditi compagni di viaggio. La ricerca della grazia, il valore della gentilezza, la possibilità di imparare grazie alla lentezza e al “fare meno”, il dedicarsi tempo in un dialogo continuo rivolto alla conoscenza di sé e al riverberare di questa nelle relazioni circostanti.

Le lezioni si intrecciano al quotidiano che, l’esperienza stessa della residenzialità, rende speciale. Le storie dei corpi si raccontano nei gesti e attraverso le parole, condite di variegate tinte di emozioni e significati, senza rinunciare a musiche e danze. 

La cura prende forma e luce, tono e colore, mostrando vie possibili di crescita e cambiamento. Ciascuna porterà via con sé un piccolo tesoro a cui poter attingere nel tempo, per continuare ad apprendere qualcosa che avrà a che fare con quell’intreccio indissolubile che riguarda il corpo, la mente e le possibilità di dare significato alla vita, continuando a cambiare e quindi a imparare.

Grazie Moshe!

Anima e terra

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La-perfezione-e-le-cicatrici-doro-UYM

di Irene Auletta

Giorni tristi e difficili a rincorrere notizie, pensieri di amici, storie e testimonianze di chi si è trovato più vicino a quel tremore della terra che in un attimo ha restituito a ciascuno il proprio essere minuscolo e di passaggio. Io, che l’ho sentito forte come mai mi era accaduto, dopo averne realizzato l’assenza di conseguenze ho avvertito il mio pensiero volare veloce in direzione di quanti ho immaginato travolti dalla tragedia, pronti a raccontarla o come parte di quel numero inquietante di quanti ne sono rimasti inesorabilmente travolti per sempre.

E allora penso. Un’amica cara che sta combattendo una sua personale battaglia contro un sisma che si chiama malattia, chi si muove con cautela tra le crepe lasciate da recenti mancanze, il sussulto continuo di quanti attraversano un dolore condito da una fatica che sembra senza fine. Non sono forse simili i terremoti esistenziali a quelli della terra, che ti raggiungono all’improvviso lasciandoti incapace di pensare, segnando un irreversibile traccia tra il prima e il dopo? Eppure, proprio in queste occasioni riemergono valori, risorse e possibilità inattese.

Sia chiaro, nessuno vorrebbe mai essere travolto da eventi simili, della terra o dell’anima, anche a costo di attraversare una vita meno ricca di apprendimenti. Tuttavia, mi sa che abbiamo poche possibilità di scelta e quindi, che farcene di quanto ci accade se non trasformarlo in occasioni vitali pena un infinito ciondolamento depressivo?

Le tragedie fanno emergere bellezza e lati oscuri, solidarietà ed egoismi vili, vicinanza e abissi, coraggio e fragilità. Il problema non è tanto, a mio parere, quanto emerge spontaneo ma ciò che è possibile trasformare grazie alla nostra consapevolezza. Pensare a sé, avere voglia di scappare, ringraziare la sorte che non sia toccato a te o ai tuoi cari li penso come sentimenti e reazioni semplicemente umane. Iniziare a cavalcare polemiche, sottolineare solo le mancanze, proclamare che qualcuno ha più diritto di aiuto di qualcun’altro, avviare la caccia ai colpevoli, fare domande assurde finalizzate all’audience e quanto altro ognuno di noi può seguire facilmente in questi giorni, credo siano solo una perdita secca. Per fortuna, ognuno può scegliere dove collocarsi.

E allora, cosa farsene di esperienze che bloccano il respiro, che sembrano farci toccare la fine, che ci lasciano immobili, impotenti e incapaci di dire qualsiasi cosa dotata di senso? Diventando grande ho imparato che le domande strizzacuore sono tra quelle senza risposta ma anche che, a furia di ascoltarne il  silenzio, mettono in forma straordinarie sorprese.

  • (Nota relativa all’immagine) Il kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”, è una pratica giapponese che consiste nell’utilizzo di oro o argento liquido o lacca con polvere d’oro per la riparazione di oggetti in ceramica (in genere vasellame), usando il prezioso metallo per saldare assieme i frammenti. La tecnica permette di ottenere degli oggetti preziosi sia dal punto di vista economico (per via della presenza di metalli preziosi) sia da quello artistico: ogni ceramica riparata presenta un diverso intreccio di linee dorate unico ed ovviamente irripetibile per via della casualità con cui la ceramica può frantumarsi. La pratica nasce dall’idea che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore

Terra che accogli

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cammino-sulla-spiaggiadi Irene Auletta

Ci sono lezioni Feldenkrais, durante le quali continuo a stupirmi di quanto accade, meravigliandomi delle trasformazioni messe in luce da nuove forme di ascolto del corpo.

Rimanendo sdraiate sulla schiena, ascoltate l’appoggio del vostro corpo a terra. Angela, la nostra insegnante, ci guida in un sentiero di ascolto che a partire dai talloni giunge fino alla sommità della testa. Il corpo, prima e dopo la lezione, incontra sempre belle trasformazioni e coglierle diventa occasione di apprendimento.

Durante la lezione sento gli spigoli ammorbidirsi pian piano fino a cogliere una piacevole sensazione di terra morbida. Il pavimento sembra diventare sabbia e con gli occhi dell’immaginazione mi pare di vedere l’impronta lasciata dal mio corpo supino.

Ed eccoci di nuovo di fronte ad uno dei nostri scambi non facili. Io che ti chiedo di fare qualcosa e tu che mi dici no con quel tuo corpo disteso sul pavimento che non intende offrirsi a nessuna collaborazione. Siamo appena rientrate a casa e mi accorgo di non aver neppure tolto le scarpe. I tacchi di certo non mi facilitano nel movimento e quindi parto proprio da lì per provare a mettermi comoda e a prendermi il tempo per incontrarti. Penso alle fatiche della cura continua e a me che preferisco condividere ciò che intravedo da pertugi di luce.

Supina sul pavimento mi guardi curiosa, attenta ai miei movimenti come ad ascoltare anche i rumori dei miei pensieri. Mi sdraio al tuo fianco e dopo qualche minuti recito con enfasi terra, terra che accogli portaci l’energia per alzarci come ci insegna Angela, la nostra maestra!

Vedo comparire un mezzo sorriso dietro quella tua espressione da temporale. Insisto e nel frattempo mi diverto a sbirciare le tue buffe espressioni. Poco dopo siamo in piedi abbracciate.

Domani magari non funzionerà ma per stavolta ci siamo risparmiate una battaglia. Grazie terra!

Stabilmente instabili

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stabilmente instabili jpgdi Irene Auletta

Da quanto seguo le lezioni Feldenkrais la questione dell’equilibrio è tra quelle che ricorre sovente e ciò mi intriga parecchio.  Ne avevo già scritto qualche anno fa, ma ogni volta mi sembra di aggiungere nuovi livelli di ascolto, comprensione e consapevolezza.

Rispetto a questo percorso è forte il legame, sempre più chiaro, che tiene per mano dimensioni della mia vita privata e altre legate alla mia professione. Quando penso ad Angela, la nostra insegnante, ne sento sempre la doppia relazione che mi lega a lei come madre, che da anni le affida la figlia e come allieva, che da meno tempo le affida anche la cura del proprio corpo. Un filo leggero, che brilla di poche parole e che trattiene sedici anni di storia con moltissime sfumature di emozioni.

Allo stesso modo gli apprendimenti legati al corpo hanno assunto nel tempo uno spessore sempre più consistente che, con grande fluidità, incontra e attraversa anche le riflessioni che accompagnano le mie pratiche professionali nell’incontro con operatori e genitori dei servizi socioeducativi.

Mettetevi in questa posizione, ascoltate i punti di appoggio, immaginate che linee ideali formino figure …. Trattenete le immagini. Provate a fare questi movimenti dandovi la possibilità di sperimentare e provare forme di movimento non abituali, concedendovi la possibilità di perdere l’equilibrio, fidandovi della vostra capacità di riacquistarlo, trattenendo un’esperienza di apprendimento organico.

Ma è poi così differente con quanto accade circa le altre dimensioni dell’apprendimento? Quando Angela dice che la vera stabilità è quella che sa misurarsi con la perdita dell’equilibrio, con l’errore e con la possibilità di ritrovarsi, penso istintivamente a quante volte nel mondo dei servizi educativi, nominando l’esigenza di autorevolezza, si fatica a delinearne i confini. Viene più facile dire cosa non è scartando gli opposti di istanze autoritarie piuttosto che quelli di un lassismo permissivo.

Oggi penso che essere figure adulte autorevoli forse vuol dire proprio questo. Esibire una stabilità capace di rassicurare per gli aspetti di forza e di fermezza, non nascondendo al tempo stesso le dimensioni di perdita di equilibrio che permettono movimento, scoperte e nuove possibilità.

Camminate sentendo forte il contatto con la terra e al tempo stesso non dimenticate di volgere lo sguardo all’orizzonte e di guardare il cielo e le stelle.

Ancora una volta mi penso e ti penso. Noi pellegrine alla ricerca costante di modi per essere e per attraversare la vita. Alcuni ingredienti non possono mancare.

Sole e vento, lacrime e sorrisi, radici e ali.

 

 

Quando sei nativo, non puoi più nasconderti

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nativo digitale

Questo post è un po’ tardivo. Mi ci è voluto del tempo per digerire l’articolo di Paolo Attivissimo, “Per favore non chiamateli Nativi Digitali”,  dal quale nasce. Attivissimo e il suo blog, Il disinformatico, sono per me da diversi anni un punto di rifferimento fondamentale per districarmi in Rete. Quante volte grazie a lui sono riuscito a sgamare le bufale che arrivano da Internet avvisando a mia volta le persone che conosco? moltissime.

Dunque se trovo un suo post che  smonta l’idea appena nata e da poco diffusa dei “nativi digitali”, lo leggo con attenzione, lo rileggo e poi ci rifletto sopra. Anche in virtù delle riflessioni e degli interventi che in materia ho già avuto modo di fare e pubblicare.

In sostanza la tesi di Attivissimo è che l’enfasi sulla supposta abilità digitale dei ragazzi nati dal 2000 in poi, è mal riposta. Muovendo dalla sua pratica di insegnamento nelle scuole, dove va ad alfabetizzare sulil tema della sicurezza in Rete, sostiene che al contrario i giovanissimi sanno sempre meno di  informatica, sono sempre più semplici utenti e persino del tutto acritici. Arriva addirittura a definirli “polli da batteria”. O che, per lo meno, rischiano di diventarlo.

Hai molte ragioni Attivissimo. Iniziando dal fatto che mode e grancasse mediatiche finiscono sempre col creare immagini semplificate  e di comodo della realtà. Però rovesciarle nel loro opposto non è che aiuti  granché. Hai certamentrre ragione nell’indicare tutti i singoli segnali che fanno temere scarse competenze da users in chi fa coincidere la Rete con Facebook e non riesce a distinguere un Url farlocco da uno credibile. Ma che c’entra tutto questo con la denuncia accorata della progressiva separazione tra uso di uno strumento e la conoscenza del suo funzionamento?

Andiamo per gradi.

I ragazzini, denuncia Attivissimo, non sanno distinguere tra un’applicazione e l’infrastruttura di rete sulla quale viaggia. E allora? Se chiedi a un bambino se viaggia in autostrada è probabile che ti dica di no, che lui viaggia in automobile. E mi pare del tutto logico. Il passaggio dall’uso dei browser all’uso delle app che ti permettono di navigare in modo più mirato, mi sembra francamente un guadagno netto. Esattamente come lo è stato a suo tempo cliccare un’icona sul desktop con il mouse, invece di digitare faticosamente stringhe di comando su uno schermo verdognolo. Sembra che ogni progresso tecnologico preluda alla nascita di una qualche forma di rimpianto nostalgico per quando le cose erano meno evolute. Non mi è mai appartenuto un simile sentimento, non ho mai rimpianto i  primi giochi elettronici che facevano bip bip rimbalzando una palllina virtuale da una parte all’altra dello schermo. Non sbavo davanti alle auto degli anni ’60 e non mi dispero per il fatto di usare molto più la tastiera che la penna. Però evidentemente un certo feticsmo la tecnologia lo suscita sempre: quello per le cose nuove e luccicanti e quello, opposto, per ciò che era nuovo e luccicante quando eravamo più giovani. E ci sta. Però non posssiamo imputare a dei ragazzini il fatto di non sentirsi attratti da quest’ultimo….

Seconda considerazione di Attivissimo. I ragazzini usano sistemi chiusi che non sanno smontare e non possono costruire. Questa francamente mi pare una nostalgia da ingegneri. Sarà che io non ho mai saputo montare un pc per conto mio e ho iniziato a usare il portatile quando non  è stato più necessario assemblare pezzi e scrivere stringhe di comando, ma non capisco proprio perchè questa dovrebbe  essere un sintomo di una perdita di competenza.

All’origine, trent’anni fa, chi si avvicinava al mondo dell’informatica era destinato a occuparsi di informatica. Ma per questa via l’informatica sarebbe rimasta una bizzarria da tecnofili. I primi possessori di auto alla fine dell’800 erano anche provetti meccanici. Non poteva essere diversamente considerata l’assenza di infrastrutture e la necessità di provvedere da sè per ogni evenienza. Quando ho preso la patente, era ancora di qualche utilità conoscere a grandi linee il funzionamento del motore. Ho personalmente smontato lo spinterogeno e pulito le candele più di una volta, ma oggi non ha più alcun senso. Quello che ci si deve aspettare da un automobilista in termini di competenze è ben altro. Tipo usare la freccia per farmi capire dove va mentre io sono lì fermo che sto aspettandolo a un dare precedenza e poi lui gira prima. Chissenefrega se non sa come funziona l’iniezione elettronica! A ben vedere, il rapporto tra Uomo e strumento muove  da millenni nella direzione di dividere il mondo tra chi fabbrica e chi usa e la tendenza è da sempre che ognuno usi il 99 per cento delle cose che non  sa assolutamente fabbricare. La chiamano Civiltà…

I ragazzini, infine ricorda sempre Paolo Attivissimo non hanno  alcuna idea della sicurezza dell’uso degli strumenti che hanno per le mani. Vero. Ma vale anche per tricicli e  palloni. Qualsiasi bambino impara prima a usare una cosa e poi a usarla con criterio, cercando di non romperla e di non farsi male. Si chiama sviluppo. E, fra parentesi, una quota più che importante di sventatezza è fondamentale per imparare qualsiasi cosa. Senza incoscienza, i processi di apprendimento si bloccano di fronte alla paura di sbagliare, di rompere qualcosa o di farsi/fare del male. Lo dimostra la maggioranza di quelli che hanno dovuto alfabetizzarsi in età adulta davanti a un pc, quasi del tutto incapaci di avventurarsi in un qualsiasi clic se non glielo dice qualcun altro o non ci sono istruzioni precise che consigliano, meglio, impongono di farlo. La competenza digitale chiede di misurarsi con un’intelligenza stocastica, fondata sulla prova-errore, che la maggior parte di noi ha perso e i bambini, fortunatamente, possiedono in abbondanza. Finchè non gliela tarpiamo, ovviamente.

nativi digitali

Dunque, caro Paolo, secondo me i Nativi Digitali sono tali perchè nati in un mondo digitalizzato, non perchè siano campioni di quel mondo o destinati a esserlo. Nè più né meno dei nativi delle isole Samoa che non nascevano campioni di pesca delle perle, dovevano diventarlo. Nè, del resto, lo diventavano tutti. Il punto, quindi, è cosa possiamo fare noi adulti per aiutarli i Nativi Digitali a diventare buoni cittadini del mondo nel quale sono nati, visto che noi le perle non le abbiamo mai pescate, a differenza dei genitori samoani… Mi permetto da educatore, pedagogista e immigrato digitale di suggerire alcune raccomandazioni in proposito.

Prima di tutto, senza abbandonare una legittima nostalgia per un mondo che non c’è più. occorre liberarsi dell’idea che quel mondo fosse migliore di quello attuale. Come si fa a imparare a stare in un certo posto, se chi dovrebbe aiutarti non perde occasione per dirti che in un altro tempo e in un altro posto le cose erano decisamente migliori? E rimpiangere le lavatrici a mano, le tv in bianco e nero o il commodore 64, piuttosto che il pc autoassemblato, è una differenza esclusivamente generazionale. Con l’aggravante che quando ero ragazzo io i nostalgici dei bei tempi andati avevano 30/40 anni più di me, oggi se la giocano tra i ragazzi del 2000 e quelli dei “mitici” ’90. Di questo passo aspettiamoci che, al prossimo giro, i ragazzini di oggi rimpiangeranno le tavolette solide e lucide con le quali sono cresciuti e hanno imparato, giocato, incontrato amici, guardando con sospetto i ragazzini futuri usare fogli digitali trasparenti e arrotolabili, o magari dei device epidermici o direttamente connessi alla rete neurale, e li rimprovereranno per qualcosa che oggi non riusciamo neppure a immaginare.

In secondo luogo, occorre che gli adulti acquisiscano una cittadinanza digitale, smettendola di nascondersi dietro paure e pruriti antiteconologici. Sopratutto quegli adulti che hanno responsabilità educative nei confronti dei Nativi Digitali. perchè per accompagnarli a prendere possesso del loro mondo, custodendolo, arricchendolo senza farsi stritolare e senza smarrirsi, occorre che sappiano in che mondo si trovano e che imparino ad abitarlo.

Infine, e questo è il consiglio che dò in particolare a te caro Paolo, te lo devo dopo tutti quelli che tu hai dato a me, occorre non confondere la competenza digitale con l’ingegneria informatica. Noi dobbiamo attenderci e dobbiamo lavorare duramente affinché ragazzi e giovani diventino utenti evoluti e critici di ciò che usano. Questo vale per gli strumenti informatici, ma in realtà è un principio educativo contemporaneo universale. Essere utente evoluto di qualcosa non significa affatto conoscere come funziona la cosa che si usa, o come è stata fabbricata, o essere in grado di farlo in prima persona. Per lo meno può essere così per una nicchia di utenti, quelli che chiamiamo “appassionati”, non per la maggioranza.

La maggioranza degli utenti di qualcosa è bene che impari a usare quel qualcosa nel rispetto degli altri, in sicurezza, per gli scopi che si prefigge, limitandosi nell’uso quanto basta, esagerando quando si può, capendo quali siano i diritti e i doveri connessi al suo uso, distinguendo ciò che serve da tutto ciò che è possibile sapere ma non è necessario, analizzando criticamente ciò che dovrà usare, smettendo di usarla quando diventerà inutile e riciclandola attentamente.

Come si può capire facilmente, si può essere dei veri campioni del mondo digitale, senza avere la minima idea di cosa sia uno script, un byte, il codice binario, il kernel, un sistema operativo, un dns o cosa significhino www e http.

Quindi io credo che Nativi Digitali sia proprio un bel nome collettivo per la generazione nata dopo il 2000. Nel senso che sono nativi di un mondo affascinante e pericoloso nel quale viviamo però anche noi adulti. Ci piaccia o meno. E non possiamo star qui ad aspettare che siano loro a salvarci da un mondo che ci trova impreparati e riottosi. Dobbiamo condividere l’avventura della sua esplorazione: loro ci devono mettere curiosità, intraprendenza, energia; noi responsabilità unita al coraggio, prudenza unita alla determinazione, saggezza unita alla voglia di imparare.

La confusione che insegna

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la cunfusione che insegnadi Irene Auletta

Durante le lezioni Feldenkrais  Angela, la nostra insegnante, spesso ci accompagna attraverso configurazioni mirate a differenziare.

Girate la testa a destra e gli occhi a sinistra. Ora invertite la direzione. Ruotate un braccio in una direzione e l’altro in quella contraria. Ricordate che differenziare è importante per rompere gli schemi di molti movimenti strutturati e per creare nuove occasioni di apprendimento.

Una delle partecipanti, durante l’ultima lezione, esprime un senso di confusione che l’insegnante accoglie e rilancia con valutazione positiva dichiarando proprio la sua intenzione di creare disorientamento.

Se attraversate lo stato della confusione nel movimento, potete sperimentare e trovare nuove forme di ordine e quindi raggiungere nuovi apprendimenti.

Penso a quanto le stereotipie del corpo possono insegnarci rispetto a quelle dei ragionamenti e dello sguardo gettato sui problemi quotidiani e mi diverto a fare un elenco di quelle appartenenti a queste ultime categorie. Chiunque può farlo spaziando tra gli ambienti di lavoro o quelli della propria vita personale, anche per sdrammatizzare la pesantezza che caratterizza molti scambi comunicativi.

Attraversando luoghi di formazione mi colpisce sempre la ritualità di alcune affermazioni, l’esibizione di molti luoghi comuni, la povertà di ragionamenti pieni di punti esclamativi. Allo stesso modo però mi giunge piacevole e stimolante il movimento creato dalle domande, dai ragionamenti capovolti, dalle provocazioni intelligenti e da quello stato di confusione che accompagna una riflessione che si sta riorganizzando per esplorare nuove forme possibili.

Con Monica, collega e amica, abbiamo fantasticato di educatori, assistenti sociali, insegnanti, psicologi e pedagogisti, sdraiati a terra a sperimentare ciò che accade attraverso il lavoro sul corpo per poi provare a trasferirlo, analogicamente, alle proprie pratiche professionali.

Qualcuno sta già intraprendendo percorsi simili, vuoi dire che è giunto il momento anche per noi? Le iscrizioni sono aperte!

Giovinezza matura

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giovinezza maturadi Irene Auletta

La vecchiaia non corrisponde alla maturità del corpo ma la anticipa attraverso posture stereotipate, movimenti che pian piano vengono esclusi, consolidamento di posture rigide. 

Così Angela, la nostra insegnante Feldenkrais, apre la lezione della sera, mentre invita il gruppo dei presenti ad ascoltare il proprio corpo sdraiato a terra.

Interessanti riflessioni soprattutto se collocate in questo momento storico che vieta l’invecchiamento ricorrendo ad una serie di strategie assai discutibili, senza curarsi affatto della dimensione della cura e dell’atteggiamento amorevole verso se stessi.  Il  corpo pare così sovente associato ad un oggetto da manutenzionare rispetto alle possibili crepe della superficie, ignorandone totalmente la sua completezza e l’intreccio meraviglioso con la mente e con l’anima di ciascuno.

La lezione ci porta a ripercorrere movimenti appresi e sperimentati durante l’infanzia con l’intento di sentire le possibilità da esplorare e, possibilmente, di recuperare insieme all’apprendimento rinnovato, leggerezza e divertimento.

Angela continua dicendo che il cambiamento della postura e dei movimenti, coinvolge anche il nostro umore, il nostro sentire e il nostro atteggiamento nei confronti del mondo.

Penso ad un bambino incontrato di recente, alle sue posture rigide, alla mascella serrata e alla voce stridula. Un dolore bloccato in un piccolo corpo che non riesce a tradire la postura e un residuo di brillio negli occhi. Penso alle persone sempre stanche, affaticate, malinconiche, afflitte dalla vita.

Quando, parecchi anni fa, ho iniziato a lavorare sul corpo, ho ingaggiato una sfida con me stessa e con tutte le resistenze inculcate da una cultura che ci vuole a segmenti separati e banalizzati. Ritrovare un armonia sconosciuta, ha spalancato porte inattese che ancora oggi attraverso con atteggiamento euristico, proprio come fanno i bambini quando provano e riprovano, senza stancarsi mai e, soprattutto, divertendosi.

Forse, se come adulti ci riprendiamo alcuni piaceri, saremo più in grado di insegnarli a bambini ed adulti perchè imparare può essere molto divertente, ma tanti di noi lo hanno completamente dimenticato.

Osservo mia figlia mentre compie le sue imprese o quelle che a casa chiamiamo con molto amore “acrobazie”. Sono piccoli movimenti ed esperienze che gran parte dei genitori ignorano considerandoli di poca importanza o comunque smarrendoli nelle competenze superiori. La sua gioia per un risultato raggiunto e per il nuovo apprendimento, fa sempre la differenza e, senza alcun metro di valutazione, ogni giorno mi guida verso la direzione da seguire per nutrire, insieme alla giovinezza del corpo, quella dell’anima, che più sa brillare.

Imparare comodamente

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comodamentedi Irene Auletta

Prima lezione Feldenkrais dopo la pausa delle vacanze natalizie.

Angela, la nostra insegnante, ci introduce alla lezione della serata attraverso l’invito a trovare una posizione comoda per iniziare il lavoro. Ci raccomanda di cercarla con attenzione, ognuno quella giusta per sè, finalizzata a creare una situazione ideale per migliorare l’ascolto, potenziare le possibilità di apprendimento e cogliere al massimo le opportunità di conoscenza e cambiamento del corpo.

Rimango ogni volta colpita dalle analogie tra quello che accade in questo spazio e quello che riguarda i luoghi dell’incontro educativo, nei vari servizi e nelle aule scolastiche. Quante volte mi è capitato di sentire insegnanti o educatori che volgessero ai loro interlocutori una raccomandazione simile e quante volte io stessa ho pensato di farla ai destinatari delle mie prestazioni professionali?

L’invito a mettersi comodi è già un modo per dare importanza a quello che ci si accinge a fare insieme, per prendersi il tempo necessario a non pensarsi sempre di premura e già proiettati verso la cosa successiva da rincorrere. Ma, ciò che trovo davvero importante e potente, è l’idea di creare un filo magico di incontro e dialogo tra l’idea di comodità e quella di apprendimento.

Pensate che effetto può fare immaginare di rivolgere lo stesso invito ad una classe, ad un gruppo di operatori in un contesto di formazione professionale o  ad un’equipe durante una supervisione.

In questo tempo che rischia di sommergerci con i vari disturbi dell’apprendimento, dell’attenzione, della capacità di leggere, scrivere e far di conto, sento il bisogno di nuovi sguardi e di nuove ventate interpretative. Che sia questa una nuova strada percorribile?

Spesso per prendermi in giro, nella mia famiglia, mi definiscono come quella sempre contro il “deboscia” e lo “sbracamento” a oltranza, insomma una fanatica dell’efficientismo.

Oggi vi frego tutti e inneggio alla comodità e al tempo per accomodarsi, per pensare, pensarsi ed imparare.

Per prima cosa, mettetevi comodi.

Fermarsi di corsa

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di Irene Auletta

L’appuntamento del martedì sera con le mie lezioni Feldenkrais è diventato un rito insostituibile che ogni volta mi permette di raccogliere nuove perle di saggezza.

Aprendo l’incontro della serata Angela, la nostra straordinaria insegnante, ci anticipa un lavoro che coinvolgerà in particolar modo le spalle, la cassa toracica e le sconosciute costole che, non ci crederete, si muovono!

Come accade sovente, anche durante questa lezione, Angela invita ad andare piano, a compiere i movimenti con molta lentezza e ci ricorda che la fretta, favorisce un movimento superficiale e impedisce un ascolto profondo dello stesso e di quanto accade.

Ad un certo punto sottolinea di andare ancora più piano chiedendoci di pensare ad una lentezza particolare, di quelle lentezze che sanno aspettare.

Meraviglioso. Ci avevate mai pensato a qualcosa di anche solo vagamente simile?

Non posso non pensare alle nostre frenesie quotidiane, a come la fretta e la velocità sono diventate oltre che un must sociale, un valore educativo.

I bambini, sin da piccolissimi, sono invitati a correre e ad anticipare il più possibile le tappe. Tutto sempre prima: lo svezzamento, il togliere il pannolino, imparare l’inglese, far  di conto, leggere e, via di questo passo. Peccato che in parallelo assistiamo ogni giorno alla nascita di nuovi fenomeni regressivi, come recita la famosa pubblicità del bambino di circa sette/otto anni che può indossare una fantastica mutandina pannolino per la notte e all’aumento di una serie molto variegata di disturbi dell’apprendimento.

Cosa sta succedendo? Non è che in tutto questo caos la fretta, il non rispetto dei tempi personali e naturali e l’angoscia di arrivare sempre primi, in qualche modo centrano?

La cosa che più mi colpisce è che tutti noi siamo molto consapevoli dell’ondata che ci ha travolti ma fatichiamo a frenare, a rallentare, a prenderci tempo.

Quante volte, figlia mia, ho pensato a te come ad una punizione dantesca, per questa madre a dir poco anfetaminica?

Torno a casa, mi sdraio accanto a te e, come una nuova favola, ti racconto della regina Lentezza, che aveva imparato con tanta fatica ad aspettare e ad andare piano ma, ogni tanto, se lo dimenticava e allora la principessa, sua figlia, la aiutava a ricordarselo.

Indovina un po’ amore, come si chiamava la principessa?

 

Leggerezze possibili

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di Irene Auletta

Da qualche anno, parlando di proposte di vario genere rivolte a famiglie con bambini o ragazzi disabili, si parla sovente di attività o momenti di sollievo.

Non ho mai capito perchè il termine utilizzato mi ha sempre creato una sensazione di disagio.

Non che l’idea di sollievo non renda bene la situazione che molte famiglie si trovano ad attraversare, ma forse questo riguarda una pluralità di persone che va ben oltre una determinata categoria di genitori.

Forse, la mia perplessità è di ordine più generale e corrisponde alla difficoltà a stare dentro, e a riconoscersi, in un mondo che mi pare molto organizzato in definizioni di categorie.

Può essere anche però, che l’idea di sollievo, così come dice la parola stessa, rimandando ad un alleviamento di un dolore o di un disagio fisico o morale, mi evochi interrogativi rispetto al suo intreccio con quella peculiare relazione che riguarda genitori e figli.

Mi chiedo spesso se il sollievo, nominato pensando alle fatiche dei genitori, non debba essere allargato a tutte le dimensioni di fatica che possono attraversare anche i bambini e i ragazzi disabili, per il fatto di essere costretti, inevitabilmente, ad una presenza massiccia e continua dei loro genitori.

Ogni tanto, dietro gesti di stizza di mia figlia, che non si possono esprimere con le parole, mi immagino di sentire l’eco di quella frase spesso mormorata dai figli : “che palle, ‘sti genitori!”. E lei, neppure lo può dire. Spero solo che lo pensi spesso.

Dunque, tornando al sollievo per i figli, mi piacerebbe che si potesse dire, raccontare e presentare, anche come occasione per separarsi e per ritrovarsi, per sperimentare il mondo accompagnati da adulti diversi dalla mamma e dal babbo, per sentirne la loro mancanza e per incontrare adulti un po’ meno disponibili a capire sempre, che chiedono la fatica di esprimersi e di farsi comprendere.

Non succede forse così anche a tutti i bambini e ragazzi senza disabilità?

A me pare di si e, certamente, molti dei loro genitori, avrebbero lo stesso bisogno di proposte di sollievo.

Mi piace pensarla così. Ben vengano tutte quelle proposte di sollievo che vanno ad alleviare fatiche e dolore ma, al loro fianco auspico, sempre di più, momenti che permettano apprendimento, leggerezza, divertimento e nuove possibilità.

In fondo, che permettano di vivere e non solo di sopravvivere.