Cura, cuore e grammatica

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di Irene Auletta

In alcune situazioni delicate o di difficoltà ho sentito spesso mia madre ripetere una frase in dialetto che tradotta suona più o meno così. Il male è di chi lo sente e di chi lo ha in mente.

Avere nella mente è un’espressione che mi è sempre piaciuta e che sento più potente del “semplice” pensare, perchè mi restituisce un’idea di continuità, di processo, di una forma di vicinanza e di attenzione particolari.

Forse non a caso questa frase l’ho ritrovata familiare e sentita vicina nel mio percorso, personale e professionale, di ricerca sulla cura e su ciò che le ruota intorno, caratterizzandola.

Avere nella mente a partire da chi “sente il male”, mi evoca anche una condizione di rispetto per chi sta vivendo quel momento e la necessità di sapersi posizionare nel modo adeguato. Siamo circondati da una frettolosità che sovente rischia di farci fare scivolate, dal punto di vista comunicativo, rubando la scena alla storia dell’altro. 

Quante volte, di fronte a chi prova a raccontare, si ascolta subito l’eco di coloro che hanno urgenza di mettersi in primo piano sulla scena narrativa. Si anche a me è successo, anch’io vivo lo stesso, ti capisco perchè anche a me, perchè anche io

Questo IO dominante che, decisamente distante dalla condivisione, interferisce con quell’ascolto profondo fatto  sovente di sguardi, vicinanza e silenzi.

Se fossi una maestra elementare forse approfitterei della grammatica e dell’insegnamento dei pronomi personali per aiutare i bambini a comprendere il valore del tu, noi, loro in un intreccio tra grammatica e significato relazionale.

Mia madre mi ha insegnato ad avere rispetto del racconto dell’altro, perchè lì c’è la sua storia, il suo malessere, il suo male, il suo dispiacere, non il nostro. Il rispetto nella dimensione dell’ascolto, molto difficile da praticare, chiede una delicata  attenzione e una grande disciplina.

Il “male” di mia madre comprende sia il dolore fisico che quello del cuore e, nelle relazioni di cura, fa intravedere la dimensione della protezione, verso chi sta attraversando un momento di fragilità o difficoltà.

In questi casi ho imparato che ciò che rende intensa la scena di tale incontro, può essere solo la comprensione vista a braccetto con la condivisione, nel silenzio pieno di quei significati che tu mi hai insegnato ad apprezzare e ad amare.

La danza della cura, tra la mente e il cuore.

Dialoghi e battiti

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di Irene Auletta

Tutti gli organi hanno bisogno di cura e il corpo trae indubbiamente beneficio da un virtuoso dialogo con loro. Ehi polmone stai meglio dopo le nostre camminate? E poi ormai sono parecchi anni che ho smesso di fumare, lo senti? E voi amici reni, intestino e dintorni, vi accorgete della cura a voi destinata? 

Che dire di tutti gli altri in fila in attesa di battute e commenti? Il dialogo prosegue seguendo dettagli, in tante forme, alcune anche assai spiritose finché non si arriva al cuore. Organo delicato, protagonista di poesie e metafore, vicino ai nostri pensieri forse più di tutti gli altri organi. 

Può essere che tutti noi ci rivolgiamo direttamente a quelli che sentiamo più fragili o a quelli malati ma, il cuore, mi pare essere il protagonista assoluto sulla scena.

Forte, spezzato, da leone, debole, frizzante, pesante. Il cuore del mal d’amore, del battito per gli amori fragili, delle battaglie per la vita e delle emozioni gentili.  

Eccolo lì, come mi ritrovo a pensarlo affettuosamente da qualche tempo, il mio cuoricino, di cui prendersi cura e che ogni tanto mi rimprovera di sentirsi troppo bistrattato. Ci sono periodi così nella vita, gli racconto paziente, e forse il passare degli anni inevitabilmente aumenta la conta delle persone care che si ammalano, invecchiano, muoiono. 

E il cuore patisce, si stringe, ti pizzica forte fino agli occhi. 

Allora, appena possibile, non resta che scappare di fronte ad un orizzonte aperto e fare un gran respiro. Ma di quelli lunghi lunghi. 

Resisti cuore, nutriti di questo bello pieno di speranza e di vita e tieniti forte più che puoi. Da te dipende parecchio per sostenere quegli occhi anziani, quel sorriso più caldo e antico della memoria, quell’incontro che profuma amorevolmente di casa e quell’abbraccio che ogni giorno mi orienta verso l’essenza.

Privilegiando diritti

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di Irene Auletta

In questi anni mi è capitato spesso di raccogliere i commenti di genitori che, come me, si misurano ogni giorno con fatiche gratuite aggiunte alla condizione del figlio. Il posto per disabili riservato e puntualmente occupato, i posti riservati nei parcheggi pubblici “non visti” da chiunque che, per premura o altre motivazioni, decide che un posteggio vale l’altro, gli insulti da parte di chi viene sollecitato a rispettare un semplice diritto, alcune procedure assurde per chiunque ma insostenibili per chi si trova ad accompagnare una persona con fragilità e via di questo passo in una lista tristemente lunga.

Per contro però, mi piace sempre ricordare anche tutte quelle situazioni dove l’accoglienza e il rispetto sono al primo posto tanto che, oltre al riconoscimento del diritto, ci si sente sovente di dover esprimere gratitudine.

Ecco, per il Nuovo Anno, spero che ogni automobilista possa essere ancora un po’ più attendo a dove parcheggia la sua auto e che, la presenza di una persona con disabilità, insieme allo sguardo inevitabile, attivi anche una maggiore attenzione semplicemente per rispetto della condizione altrui.

Qualche mese fa un giovane uomo stazionato con la sua moto sul nostro parcheggio riservato, di fronte al mio sollecito a spostarsi, dopo avermi liquidato con un gesto che sembrava dire Oh con calma, lasciami finire questa telefonata un momento! ha pensato bene di chiedermi, neppure troppo gentilmente, se il posto era mio nel senso che l’avevo comprato. 

Vero che a volte gli occhi lanciano scintille ma in quell’occasione, per proteggere mia figlia seduta al mio fianco, ho scelto di scendere dalla mia auto e di avvicinarmi al Tizio. Lei sa perchè il comune riconosce con un numero riservato un posto per disabili? Non voglio neppure la sua risposa perché le auguro di non doverlo mai scoprire. Ora si sposti immediatamente perchè se esita ancora solo un secondo chiamo i vigili. Meglio cosi?

Risalire in macchina sorridente rassicurando la paziente passeggera è stato l’inevitabile epilogo. Il maldistomaco invece è un’altra storia.

Speriamo che il Nuovo Anno ci riservi sempre meno queste brutture e aiuti tutti a capire meglio la differenza fra diritto e privilegio. Non a caso molti posti auto per disabili sono accompagnati da un cartello dove compare anche la frase “Se vuoi il mio posto prenditi anche il mio handicap”. Ecco. Parliamone.

Già che ci sono poi voglio esagerare e comprendere nei diritti anche un maggiore rispetto nella comunicazione rivolta a persone con disabilità. Proprio oggi al cinema, nella fila davanti alla mia sono sfilati tre uomini maturi in compagnia di due signore all’apparenza coetanee. Avrebbero potuto essere una compagnia di amici di cui tre con qualche leggera fragilità, forse riconoscibile solo da uno sguardo attento e sensibile per vicinanza.

Poi però succede. Adesso prima di sedervi toglietevi la giacca!

Ma perchè? Perchè il bisogno di dirlo a persone evidentemente in grado di farlo anche senza sollecito. O comunque, perchè non aspettare un momento per osservarne il comportamento prima di rivolgersi a tre uomini diventati immediatamente bambini destinatari di quella comunicazione.

Già, vuoi dire che chiedo troppo? Potete fermarvi un attimo prima di rivolgere la parola a una persona con fragilità. Un attimo solo per aspettare che il rispetto si accomodi nello scambio e vi aiuti a selezionare cosa e come dire?

Io ci spero e ci provo con qualche speranza che ci possa accompagnare nel vicinissimo 2023. Auguro a tutti maggiore attenzione, per voi stessi e per tutti gli sguardi che troverete sulla vostra via. Chissà, magari ci incroceremo.

Buon Anno Nuovo!

Ciò che brilla

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di Irene Auletta

Ci sono giorni in cui la cura si presenta con una veste leggera, come un velo trasparente mosso da un vento quieto. Altri in cui è semplicemente un macigno.

Parlo spesso dell’ambivalenza della cura ma credo che alcune mie riflessioni possano raggiungere con maggiore forza proprio chi, come me, da anni vive in compagnia di quelle cure ricorsive che, destinate a un nostro caro, non ci lasciano mai. 

Per questo motivo ho sempre rifiutato con decisione quell’aggettivo “speciale” che, nei giorni più bui, mi restituisce una sottile presa per i fondelli che trovo insopportabile. Avete presente cosa intendo giusto? Le madri speciali, i figli speciali … Insomma, quelle cose lì!  Io passo, grazie per il pensiero.

Eppure, proprio questa responsabilità che non mi lascia mai, mi spinge a interrogare le fragilità e fatiche dominanti che ormai sembrano circondarci, ovunque volgiamo lo sguardo. Ma cosa sta succedendo? Tutti sempre più affaticati, di corsa, senza energie, quasi schiacciati dalla vita anche quando immagino scenari che potrebbero aprire le porte a ciò che ogni giorno è possibile gustarsi.

In questi giorni, riflettendo sulle mie stesse domande e leggendo le parole di Simone Weil, filosofa, mistica e scrittrice francese, rimango colpita ancora una volta dalle sue riflessioni intorno al tema della sventura individuale e collettiva. Secondo alcuni autori la traduzione italiana di sventura non rende a pieno il denso significato della parola malheur che trattiene a fianco della disgrazia e del guaio anche uno spazio per la scoperta di uno stato d’animo (quasi) romantico.

Non so se questa sorta di retrogusto romantico è quello che ho imparato e continuo a imparare da anni al fianco di mia figlia, ma provo un profondo dispiacere nel vedere tante occasioni non viste o sprecate e penso che ancora una volta la fortuna forse splende proprio laddove un attimo prima brillavano lacrime.

Giorni a casa, dove il Covid ha fermato anche noi, finora scampati al contagio. E’ una gara a chi cura chi e a volte lo sconforto delle forze deboli rischia di farmi perdere il sorriso e quell’energia che non smetti mai di infondermi. Dover curare quando si avrebbe bisogno di essere curati è una dura prova che inevitabilmente fa profilare all’orizzonte scenari di paura.

E così stanotte, (già … perchè in tutto questo il peggioramento del disturbo del sonno e delle crisi non potevano mancare!), ci ritroviamo in quel nostro stare insieme che riempie il silenzio delle nostre narrazioni mute. Mi abbracci più volte e  quel comportamento mi arriva quasi come una sorta di rassicurazione. Con le parole e con la mente ti dico di questi giorni un po’ difficili che ora forse stanno già passando.

Con quello sguardo intenso, maturo e profondo che ti fa Luna, allunghi una mano e posi sulla mia guancia un gesto assai simile ad una carezza gentile e delicatissima.

Questo mi insegnai ogni giorno. Che la fortuna, la bellezza, la speranza, non sono quasi mai dove andiamo cercandole ma , al nostro fianco.

Il bello di te

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di Irene Auletta

Chissà quanti genitori sono orgogliosi dei propri figli come lo siamo noi?

La domanda di tuo padre mi raggiunge, non come sorpresa, mentre parliamo di te, raccontandoci quello che osserviamo, i cambiamenti, particolari inediti, nuove speranze.

Per qualche giorno mi rimane a girovagare nella mente e ogni tanto ritorna a fare capolino, confermandomi che di sicuro anche molti altri genitori lo sono. Ma allora perchè torna a incuriosirmi? Il nostro è un orgoglio differente? Sia chiaro, non migliore o peggiore, ma differente?

In effetti non mi capita raramente di raccogliere testimonianze di orgoglio ma forse, pensandoci un po’, mi pare che tanti genitori possano rischiare, più di noi, di rimanere inconsapevolmente intrappolati, nelle reti-mito delle prestazioni e delle competenze. Penso che sia facilmente riconoscibile quell’orgoglio che sboccia di fronte a qualcosa che si materializza in un fare, in un’azione, in un pensiero. Che bella cosa hai fatto, detto o pensato! 

Eccola qui la nostra differenza. Noi possiamo molto, ma molto raramente, essere orgogliosi per ciò che fai, ma lo siamo costantemente per ciò che sei. O almeno, abbiamo imparato ad esserlo. Al tempo stesso, non rischiamo la delusione di quelle attese malriposte, che possono essere un peso non indifferente per qualsiasi figlio.

Gli amori fragili sono spesso i più forti, anche nella tenacia della ricerca, forse perchè si nutrono di fili d’essenza al gusto dello straordinario. Devo ammettere, sinceramente, che la dimensione delle “cose esibite” mi manca e credo mi mancherà sempre senza però nulla togliere a questa forma differente di quel sentimento che quasi accarezza la gola quando si chiama orgoglio.

Essere orgogliosi nel limite, parente stretto della delusione, pare quasi qualcosa di impossibile anche solo da dire e di sicuro, per me, è un percorso di ricerca che mi accompagna altrove, dove non avrei mai scelto di andare, dove devo quasi ogni giorno rianimare la fiducia, dove spesso vorrei richiudermi per scomparire dalla pesantezza degli sguardi altrui.

Ma, stare in questa ricerca, vuol dire anche riemergere nello stupore, ispirare la bellezza dell’inatteso e soprattutto, godersi ogni infinitesimale frammento di possibilità, con un respiro pieno di orgoglio.

Si, di te lo siamo eccome.

Premiata la superficialità

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di Irene Auletta

Ma davvero i problemi seri si risolvono così? Siccome è accaduto che nei luoghi di cura delle persone più fragili, bambini piccoli, disabili e anziani, si siano registrati episodi di maltrattamento, la risposta unica e univoca è quella di riempire i vuoti di significato collocando ovunque telecamere.

Rimango senza parole di fronte a scelte così miopi che rischiano di trovare il consenso di quanti, con lo sguardo superficiale di chi non conosce le realtà dei servizi, possano sentirsi rassicurati da tali provvedimenti.

Peccato che tali scelte omettano in modo assai truffaldino che da anni, proprio in questi luoghi, si stiano tagliano senza tregua i ruoli di coordinamento, i momenti di formazione e di supervisione e tutte quelle proposte orientate a riflettere su quando accade nella relazione con le persone e sulle fragilità costitutive degli interventi di cura. 

Peccato che questi provvedimenti incontrino consensi di pancia e puntino proprio a quello, senza portare a riflettere sulle forme del controllo che, pur ribadendone la necessità, puntino sui processi di apprendimento e non di ammaestramento.

Che poi? Li conoscete questi servizi? Ma davvero pensate che bastino telecamere per evitare che accadano questi episodi?  E tutto quello che abbiamo costruito in tanti anni di lavoro sulle relazioni di fiducia e sull’esigenza di prendersi cura delle persone che curano? E tutte le esperienze di eccellenza frutto di tanti anni di studio e lavoro?

I problemi complessi meritano attenzione, competenza e rispetto. In questi provvedimenti non c’è nulla di tutto questo ma solo tanta superficialità, e tanto spreco di denaro.

Risvegliamoci per favore, perchè il torpore dei cervelli non credo che potrà essere ripreso in video.

Essere tua madre

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di Irene Auletta

Quindi anche sua figlia quest’anno sta facendo gli esami di maturità? Domande buttate lì, tra quasi estranei, che ogni volta mi pongono di fronte ad un bivio. Faccio finta di nulla e rispondo in modo evasivo, oppure? Oppure.

Reduci da una piccola ennesima prova che hai dovuto affrontare, e noi con te, ogni volta mi accorgo ti quanto sei cresciuta, del tuo coraggio e della forza che metti tenacemente nel modo di incontrare la vita. Tu che continui a insegnarmi a vedere il bello tra le ombre, a non perdere occasioni per sorriderci e dare valore a ciò che non può mai e poi mai essere dato per scontato.

Così, come è quasi impossibile aiutarti a prefigurare quanto ti sta per accadere, allo stesso modo il tuo vivere nel presente diventa una possibilità per lasciarsi alle spalle, forse più velocemente, fatiche e momenti difficili. Quante tracce rimangono dentro di te di quello che attraversi? Non lo saprò mai, ma oggi riesco anche a dirmi che non importa, perché questa è la tua storia.

In questi giorni raccolgo commenti su una nostra foto. O meglio, su un’immagine di un tuo profilo vicino alle nostre mani intrecciate. Parlano di madri e figli, del legame forte e di quel patire tutto femminile di fronte alla fragilità di un figlio. Ed è proprio questa la storia delle madri e ognuna, nella sua cornice di vita, lì impegnata a dipingere il suo quadro, ai suoi occhi unico e speciale.

Per me, essere tua madre vuol dire ogni giorno sentirsi un po’ meno originale e cogliere un battito all’unisono che posso condividere con molte altre donne. Madri o non madri, con figli grandi o piccoli, con figli disabili o senza alcuna difficoltà. Proprio questo ho sentito forte nei messaggi ricevuti in questi giorni e nei pensieri di vicinanza che ci hanno fatto compagnia.

Volersi sentire a tutti costi speciali o pensarti così, fa parte di quella storia passata che mi vedeva a cercare nella matassa dolorante di ciò che non sarebbe mai stato, qualche filo risplendente di luce che in realtà rischiava di allontanarmi da ciò che sei. Oggi, essere tua madre vuol dire costruire ogni giorno una nuova possibilità , andare alla ricerca di fonti di forza per potertene fare dono, non perdere occasione per gustarsi la bellezza, vivere l’allegria per continuare a insegnartela.

Ma più di ogni cosa e sopra qualsiasi altra, esserlo vuol dire che tu, e solo tu, sei mia figlia. Tra orgoglio, amore e dolore. Sempre.

La luce dei preziosi

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silenzio 2di Irene Auletta

Allora oggi avete festeggiato un compleanno! dice la mamma spingendo un passeggino su cui è accomodato un bambino di circa tre anni. Il bambino fa un cenno affermativo con il capo mentre chiede quando arriverà anche il suo, di compleanno. Ma tu sei nato a luglio quindi mancano ancora più di sei mesi ed è parecchio tempo. Si, fa eco il bambino, è parecchio tempo. Ma io voglio che sia subito, dice accennando una lieve protesta.

A quel punto mentre mi allontano, sento la madre che prosegue in una dettagliata spiegazione che mi pare si ingarbugli nella teoria del tempo accelerato che, quando sarà più grande, vorrà fare di tutto per voler rallentare, bla, bla, bla.

Ecco, ne parlavo proprio qualche sera fa con una bella platea di genitori, di come il mondo adulto appare travolto da un’onda culturale che, rispetto all’infanzia, sembra aver perso completamente la bussola, a partire dai significati sino al rispetto di quei tempi di crescita, una volta sacri. Senza voler essere nostalgici credo sia importante tornare a chiederci perché tutto questo bisogno di ipercompetenza e di esibizione delle qualità dei figli. Negli ultimi anni mi capita sempre più spesso di incontrare, per il mio lavoro, genitori che sembrano imprigionati in una serie di cliché che forse faticano loro stessi a riconoscere e nominare. Non perché è mio figlio ma devo proprio dirle che è un bambino molto intelligente. Anche le insegnanti lo definiscono un bambino speciale. Ha un livello di comprensione che spesso mi spiazza… mi sembra quasi di parlare con un adulto!

Appunto, quasi.

Ma com’è che nella fascia dell’infanzia, indicativamente i bambini sembrano tutti dei piccoli geni e poi nel momento dell’ingresso alla scuola primaria, iniziano a fioccare deficit di ogni tipo, scarsa stima e fiducia nelle proprie possibilità, frustrazione di fronte all’insuccesso scolastico e via di questo passo in un lungo elenco che ogni anno mi appare più complesso e preoccupante? Mi chiedo spesso se tra i due movimenti non ci sia una importante correlazione, magari poco apparente ma assi incisiva. Se tutti quei bravo, bravissimo, sei un genio, sei super, che abbondano nei primi cinque, sei anni di vita non creino nei bambini un senso di attesa che si impenna verso la richiesta di capacità sempre più precoci e sicuramente orientate ad un successo, possibilmente immediato.

Il tema della fragilità è entrato prepotentemente nella mia vita molti anni fa, prima di figlia e poi di madre. Forse per questo motivo nelle scelte professionali il mio personale ago degli interessi mi ha orientato senza dubbi verso studi umanistici e nella ricerca di significati capaci di andare oltre quella patina di superficialità incollata alle nostre esistenze. Quella stessa fragilità che da mancanza, se ascoltata, è diventata valore.

Il silenzio è oro, si diceva una volta, quando si chiedeva anche ai bambini di prendersi un tempo per pensare o per ascoltare. Il silenzio è oro, direi io oggi a noi tutti che come adulti attraversiamo questa fase della nostra vita. Il silenzio è oro, perché fa brillare qualcosa che l’eccesso di parole rischia di offuscare e soffocare.

Il cuore, la scoperta e lo stupore.

Cuoricini

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cuoricinidi Irene Auletta

Nel mio lavoro incontro spesso genitori che attraversano impegnativi guadi dell’esistenza ma, quando ad essere coinvolti sono direttamente i bambini, le sfumature delle difficoltà si colorano di tinte ancora più intense. Bambini chiamati ad affrontare prove più grandi di loro che mentre hanno ancora il magone ti canticchiano il ritornello di un cartone animato stupendosi del fatto che anche tu lo conosca.

Bambini capaci di tutto, capaci di parlare di fiori gialli mentre stanno attraversando un’esperienza che per molti adulti sarebbe ai confini del sostenibile.

E’ così che ti faccio vedere la mia foto del profilo Facebook con tanti fiori gialli. Che ne dici di questi? Li osservi attento e poi ne cogli uno nella moltitudine di splendenti. “Questo però è appassito … Sembra stanco”.

Io non interpreto, ma sento. Ascolto in silenzio un piccolo cuore che batte forte, incapace di rallentare e travolto dai quesiti impossibili della vita. Ti sorrido mentre continuiamo a parlare e credo che la vita ti debba, seppur ancora così piccolo, una seconda opportunità. Ci sono adulti fragili che hanno figli fragili e non credo sia giusto puntare il dito accusatorio verso genitori che proprio non ce la fanno. Però i bambini, mi colpiscono nelle emozioni più profonde, lasciandomi spesso stordita e incredula non nella testa, ma nella pancia.

Durante la mia lezione Feldenkrais della settimana, l’insegnante ci accompagna in una lavoro di ascolto e ricerca di nuovi equilibri possibili. Le vedete le cinque linee del vostro corpo? Quella della colonna vertebrale e le altre della braccia e delle gambe?

Il pensiero mi scappa ancora a te e ai bambini che, come te, alternano le loro riflessioni sofisticate ad una camminata in punta di piedi che richiama alla memoria quella dei bambini piccoli alle prese con i loro primi passi. Fenomeno in aumento che proprio durante la lezione vedo chiaro nella sua espressione di squilibrio.

Ma lo sai che possiamo sentire e percepire cinque linee nel nostro corpo? Mi immagino la tua faccia attenta, alla ricerca del mistero. Come sarà per te il tuo nuovo equilibrio?

Quasi a destinazione ci raggiunge la pioggia di una nuvola isolata. Forse il cielo piange … ma forse ci sono anche degli angeli. Dici con il naso all’insù.

I bambini caduti sono capaci di guardare oltre e magari, proprio da là, un angelo li sta osservando.

Giganti in ginocchio

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fragilitàdi Irene Auletta

Ne parlavo proprio oggi con un gruppo di educatori, di quelle persone che sembrano intoccabili, forti e sempre sicure del fatto loro. Forse ci piace farci ingannare da tanta sicurezza perchè permette di nascondere un po’ delle nostre difficoltà o forse, a volte, risultiamo solo impreparati e spiazzati di fronte all’evenienza che, dietro all’apparenza, si possano manifestare fragilità o sofferenza.

Non siamo abituati a trattare alcuni temi e, soprattutto come professionisti, corriamo il rischio di sottovalutare la complessità di ciò che ci si dipana davanti agli occhi quando incontriamo le storie delle persone, piccole o grandi che siano.

Ascoltare le fatiche, le attese deluse, il senso di sconfitta e la percezione di impotenza, rischia di travolgere l’operatore  in un luogo con troppe ombre, dalle quali facilmente ci si difende con l’ironia, le battute sarcastiche o il pregiudizio.

Se accade è umano e credo che in alcune occasioni possa anche risultare una buona strategia per rimanere in equilibrio ma, è importante esserne consapevoli e poter tornare sui propri passi recuperando la competenza tecnica del proprio sguardo.

Ho ripensato ad un gruppo di operatori sanitari incontrati qualche tempo fa e abituati a rivestire un ruolo autorevole e di rassicurazione verso i loro pazienti. Quando sono emerse alcune emozioni legate ai temi della malattia, del dolore e della morte, ne ho visti diversi lasciarsi alle spalle l’armatura professionale, insicuri, ma anche molto interessati al nuovo percorso di ricerca offerto dal lavoro che stavamo svolgendo insieme.

Ci vuole molta umiltà e forza per rinunciare ad avere tutto sotto controllo, per riuscire a chiedere aiuto e a condividere delle difficoltà. Riguarda il medico, l’insegnante, l’educatore.

Bisogna stare attenti a non farsi ingannare dai giganti.

Anche per loro a volte urgono disinfettante e garze per medicarne le sbucciature.