Coniglietto disabile

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di Irene Auletta

In una delle mie recenti camminate nel parco vicino casa incrocio un signore che, mentre ci stiamo avvicinando, rallenta fissando qualcosa sul nostro sentiero che attira anche il mio sguardo.

E’ un cucciolo di coniglio, ultimamente nel parco ce ne sono parecchi, che nonostante il nostro avvicinarci rimane immobile, anche se un po’ tremante.

Ha qualcosa che non va, dice il signore, e osservando un particolare strano di una delle orecchie aggiunge, credo sia un coniglietto disabile.

Ecco, penso con una punta di sano cinismo, stamane mi mancava pure il coniglietto disabile!

Proseguendo penso alla tenerezza che attivano sempre i cuccioli e che sembra amplificarsi di fronte alla fragilità.

Per le persone in condizione di disabilità sarebbe bello incontrare quello sguardo più maturo, trasformato in gentilezza e capace di guardarle senza infantilismo ma con accoglienza.

Non sempre accade e con gli anni che passano si incrociano sempre più sguardi sfuggenti, pieni di curiosità, di compassione, di paura e pieni di quella frase  indicibile a voce alta. Per fortuna non e’ successo a me.

Forse sarebbe accaduto anche a me se la disabilità non mi avesse coinvolta come compagna di viaggio. Forse, proprio per questo, noi che ci abitiamo così vicino, non dobbiamo mai smettere di esibire e pretendere sguardi e gesti gentili.

Sempre.

RiflettendoCi

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di Irene Auletta

Il ricordo mi raggiunge forte mentre sto cucinando. Quel gesto, quel movimento, fatto proprio come lo sto facendo io adesso, riflesso in un passato che mi vede spettatrice ad osservare mia madre. Le emozioni  di ieri che ancora oggi si incontrano valorizzando quel filo rosso invisibile ma tenace che ci lega, madre e figlia.

Come posso non pensare, quasi simultaneamente, a che fine faranno i miei gesti? Spariranno con me, perché per te figlia mia sarà impossibile riviverli domani. In questi casi è facile rimanere soffocati dal peso di un’eredità dispersa. I gesti di mia nonna, di mia madre, i miei, sono davvero destinati a morire con me?

Per fortuna l’arte culinaria mi distrae lasciando spazi a recenti memorie di altre narrazioni. Per una serie di coincidenze sono mesi di ricche raccolte nella mia vita professionale. Persone che non vedevo da anni mi raccontano tracce del nostro incontro come importante bussola, mi ricordano maestra, evocano frasi, gesti e progetti che non hanno dimenticato. A volte si scoprono importanti tracce di eredità proprio laddove non si cercano e ancora una volta mi ricordano che spostare lo sguardo, svela sempre possibilità. 

E così oggi, dopo un’intensa e ricca mattina di formazione, io e te ci regaliamo uno di quei nostri momenti insieme che sanno di noi. Facciamo tutto con calma, lentamente, assaporando, insieme al cibo, ogni momento. Tu sei felice di essere libera e io cerco di starti vicina senza ostacolare la tua voglia di esplorare e di curiosare. Sei diventata più sicura nel muoverti anche  fra tante persone e io più attenta a rispettare i tuoi desideri di viverti piccole e importanti autonomie. Stranamente però oggi sei tu che ti allontani ma ogni tanto torni a prendere la mia mano, per poi allontanarti nuovamente.

Che fine faranno i miei gesti figlia mia? La tua mano mi stringe forte riportandomi alla realtà. Gli occhi ti brillano di gioia come sanno brillare solo gli occhi della purezza e in quel momento i miei gesti li ritrovo proprio lì, in quel riflesso.

Il nostro domani, è oggi.

Gesti per te

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di Irene Auletta

Giorni che sono tanto lontana da casa e sarà così anche nelle prossime settimane. Ti aspetto al tuo rientro, con un forte desiderio di stringerti forte. Appena si apre la porta del pulmino ti guardo con un pizzico al cuore. Sembri molto stanca, confusa o forse sei solo accaldata. Subito un po’ di stizza repressa. Ma cavolo, ci sono diciotto gradi come caspita ti hanno imbacuccata per farti salire su questo cavolo di pulmino?

Respiro e lascio andare. Tu mi abbracci forte e ci concediamo, ancora in strada, questo spazio tutto per noi, totalmente ignare di quello che ci gira intorno. Il traffico non lo sento neppure mentre ti sussurro quanto mi sei mancata e quanto mi manchi in questi giorni che corro qua e là. Ma cosa pensi quando la sera vai a letto e mamma non c’è? E poi non c’è neppure al mattino e per giorni? Abbracciate al mistero dei miei quesiti muti saliamo a casa.

La cura è quella cosa che può essere delicata come una magia oppure pesante come un macigno, soprattutto quella ricorsiva, che non finisce mai. Ti accompagno a fare la doccia, giochiamo con gli schizzi e finalmente rivedo quel sorriso quieto che torna a illuminarti e a illuminarmi.

Ora mamma ti fa un massaggio di quelli che portano via le fatiche, ti dico lasciando spazio a quel silenzio pieno dei miei gesti di cura che mi sono mancati. Ed è proprio questa mancanza che mi fa realizzare quello che tante volte raccolgo anche nei racconti altrui, rispetto alla cura dei nostri figli disabili e al timore del dopo di noi. 

Non credo che gli operatori siano poco attenti e ho smesso da anni di incavolarmi per tutte quelle piccole o grandi cose che a me sembrano disattenzioni. Lo realizzo forte proprio in questo momento, pieno del mio amore per te, che riempie il nostro incontro.

La cura per me non è solo la risposta ai tuoi bisogni e un sopperire alla tua mancanza di autonomie. Vista così mi avrebbe già stesa da anni. Prendermi cura di te è il modo in cui si narra la nostra storia d’amore, tra madre e figlia. La nostra possibile e unica.

L’amore fa la differenza e questo non possiamo pretenderlo da nessun operatore, per quanto affettuosamente coinvolto nella sua relazione con le persone disabili con cui lavora. La consapevolezza di questo pensiero mi arriva rassicurante, forte e potente, oltre che valido per tutte le relazioni importanti.

Se ci sarà un dopo di me  le tue relazioni, con chi continuerà a prendersi cura di te, saranno inevitabilmente differenti. Se ci sarà un dopo di me, mi mancherà non amarti.

Il sapore antico dei gesti

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di Luigina Marone

Stamane sto andando al lavoro in macchina e siccome in questo periodo non c’è traffico, attraverso il paese con molta tranquillità, guardando ciò che accade intorno a me.

Ad un semaforo devo girare a sinistra e come previsto dal codice stradale dovrei far passare i pedoni e quindi dare a loro la precedenza prima di svoltare. Rallento e quasi mi fermo perché  intravedo una mamma con due bambini in attesa di muovere dei passi sulla strada e in una frazione di secondo noto che la mamma mi indica con la gestualità del viso “vai pure”, facendomi intendere che lei con i suoi figli avrebbero atteso e avviato il loro passo dopo di me.

La seguo con lo sguardo anche per ringraziarla della gentilezza e proseguo ad osservare la scena dallo specchietto retrovisore perché mi colpiscono inaspettatamente alcuni gesti piccolissimi e silenti fatti alla figlia piccola, al suo fianco in bicicletta, mentre lei è impegnata a spingere il passeggino con l’altro figlio.

La mia mente parte, sollecitata dal dialogo corporeo di questa madre con la figlia, un cenno del capo, uno sguardo, una mano e un dito che le indicano tempi e modi di procedere per la strada. Percepisco e mi arriva un legame tra loro due, sostenuto proprio da questi gesti, dalle reciproche azioni ed è  proprio questa dinamica di unione che mi cattura.

La scena mi riporta immediatamente alle mie esperienze di educatrice di nido di molti anni fa facendo riaffiorare ricordi di immagini, di tanti gesti silenti visti fare dalle colleghe o dai genitori oppure agiti da me e che, pian piano, riportano alla luce anche la lunga strada delle competenze che necessariamente ho dovuto acquisire nella pratica educativa, per imparare a gestire la crescita dei bambini, la relazione tra di loro e con me. E successivamente acquisire il senso dei gesti come coordinatrice che sostengono l’incontro con le educatrici e con i genitori, proprio analizzando anche quelli che non funzionano e che possono disturbare. Insomma una gestualità che può divenire arte e pratica educativa.

Forse, ripensandoci ora, quello che mi ha colpito stamane, nella semplicità di quei gesti e’ stata la fiducia, l’assunzione dei rischi, la volontà di insegnare alla propria figlia che trapelava da quei gesti tranquilli che parevano spiegarle via via come si va in giro per il mondo. Qualcosa che è oltre al sapere andare in bicicletta per la madre e per la figlia quel lasciarsi condurre nel mondo e seguire, in quell’andare, le indicazioni che la mamma in modo quasi impercettibilmente le comunicava. Insegnamenti che al loro interno sono ricchi di tante sfumature, che vanno ben oltre le mere indicazioni.

Non so perché, ma tutto ciò mi rimanda ad un sapere antico e forse per questo mi emozionano e contemporaneamente sento che è qualcosa che ci sta sfuggendo. Una chiarezza di ruoli, tra madre e figlia, tra chi insegna e chi impara, che porta con sé un armonia.

Gesti silenti, che insegnano ad imparare a vivere!

Salutarsi così

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di Irene Auletta

Le volte che al mattino dormi cerco di chiamarti il più tardi possibile per farti godere di quel piacere che puoi assaporarti in poche occasioni. Poi però il ritmo deve necessariamente aumentare per arrivare puntuali all’arrivo del pulmino che ti porterà verso la tua giornata.

Stamane ti incalzo chiedendoti collaborazione sottolineando il fatto che in questi giorni siamo da sole e mi devi proprio aiutare. Quasi a trattenere la mia domanda sei particolarmente disponibile in tutte quelle (tante!) routine del mattino rispetto alle quali purtroppo devi subire i miei ritmi e i miei gesti.

Corri, corri Luna che ce la facciamo ad arrivare in orario anche senza babbo!

Ridi e ridi e questa è la mia carica del mattino e quando ti vedo così serena il respiro si allarga, pieno di sentimenti belli. In effetti sono quasi certa che pochi genitori possono godersi attimi di allegria pura così con una figlia della tua età. Luci e ombre, fatiche e possibilità, gioie e dolori. Così è la vita e stamane mi sta comoda.

Finalmente arriviamo in ascensore ancora alle prese con le maledette zip dei nostri piumini che regolarmente si inceppano nella corsa. Ma nulla sembra turbare il nostro buonumore e così, con il sorriso sulle labbra,  ti vedo salire e accomodarti al tuo posto. Questo è il rituale che conosci bene con tuo padre perché quasi sempre è lui che ti accompagna al mattino mentre io provo a rimettere una parvenza di ordine a ciò che il tuo passaggio ha travolto prima di uscire di casa.

Lo imito in quel comportamento di fare il giro del pulmino per salutarti attraverso il finestrino. Sarà che lo faccio poco, sarà che sono io, sarà questa fredda luce d’inverno, ma gli occhi mi pizzicano un poco.

La tua mano si avvicina alla mia e ci diamo un’ultima carezza attraverso il vetro. Ciao amore, passa una buona giornata, ti dico mentre mi sorridi e capisco che nonostante il finestrino chiuso mi senti. Allora non resisto al nostro gioco.

Ma senti, stamane te l’ho detto già quanto ti voglio bene? 

Ridi, rido e ti guardo andare.

Quanto petit?

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gentilezzadi Irene Auletta

Qualche giorno fa, in un incontro di formazione condotto insieme ad una collega non italiana, rimango colpita da una definizione che utilizza per raccontare di come, anche nei servizi per la prima infanzia, si può assistere a qualcosa di inconsapevole e di cui non vorremmo mai essere testimoni, né raccontare.

Petit mauvais traitements, piccoli maltrattamenti, che sovente vanno oltre la coscienza di chi li compie, spinti da quegli automatismi che trasformano il gesto di cura in un movimento freddo e stereotipato. Da anni non perdo occasione per connettere mondi apparentemente diversi, quello dei bambini piccoli appunto, con quello dei disabili e degli anziani ritrovando, proprio in quei quotidiani gesti di cura, medesimi elementi che necessitano di sguardi attenti.

L’altra mattina, di fronte alla solita scena. Non vuoi fare qualcosa, ti opponi come sai fare con il corpo, in assenza delle parole. E’ facile mettersi in contrasto, opporre fermezza, tirare, arrivare al corpo contro corpo, soprattutto quando i tempi reali non permettono l’incontro con i tuoi, a volte biblici. Tuo padre rallenta, si ferma, aspetta. Non cede alla sfida e lo osservo cercare in un respiro profondo il conforto alle impietose lancette del mattino. Spesso ci alterniamo perché abbiamo scoperto che funziona ma stamane capisco che è meglio non interferire in quel vostro dialogo, pieno di tanti significati.

Passa qualche minuto eterno, prima che tu decida di alzarti da terra, proseguendo nei riti del mattino, con un sorriso sulle labbra, come se nulla fosse accaduto. Anzi no, qualcosa di importate è accaduto. Ti abbiamo ascoltato, hai potuto esprimere una tua volontà, non siamo arrivati al contrasto e al confronto di potere.

Più facile a dirsi che a farsi, perché sono proprio quei gesti di cura rinnovati negli anni, che possono mandare al manicomio soprattutto laddove l’altro, per fortuna, non perde occasione per ricordarti che non è una bambola di pezza ma una persona, con la sua da dire.

Chi lavora con i bambini piccoli, con i disabili o con gli anziani, si misura ogni giorno con situazioni analoghe e i gesti a volte, possono essere assai lontani da quelli che tutti noi vorremmo vedere rivolti ai nostri cari. Per questo, non perdo occasione per parlarne e per attivare luoghi di incontro e confronto che, sospendendo il giudizio, possano pensare azioni alternative e virtuose.

Si può imparare, come genitori o come operatori, ma bisogna mantenere attiva la coscienza di quanto ci accade, a volte prima che nella mente, nel corpo e nella pancia. Da anni mi accompagni nella ricerca di gesti gentili in quella danza muta che mi vede sovente la più goffa e che ti osserva paziente ad attendermi.

Speriamo che le prossime siano petites gentillesses.

Riflessi

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margheritadi Irene Auletta

Entriamo quasi insieme nello stesso piccolo cortile interno e posteggiamo ai due lati opposti le nostre auto. Le portiere si aprono ed entrambi rimaniamo in attesa che il “misterioso” passeggero decida di uscire, con i suoi tempi. Mi sembra di riconoscere gli stessi toni di incoraggiamento e il delicato sollecito e quando i nostri sguardi si incrociano ci scambiamo un timido sorriso pieno di tanti discorsi e commenti muti.

Mentre sto cercando di convincerti a salire la scala, senza dover ricorrere all’ascensore, il signore di mezza età e il suo giovane figlio arrivano dietro di noi. Salite pure prima voi perché noi siamo sicuramente più lente, dico rivolgendomi ad entrambi. Il padre mi sorride e il ragazzo evita il mio sguardo, preso in un dialogo tutto suo. Voi due non frequentate lo stesso Centro e riconosco in quel ragazzo tratti e caratteristiche incrociati tante volte anche altrove e che mi hanno sempre creato tanta inquietudine.

Anche il signore ci rivolge un saluto e tu rispondi con uno dei tuoi sorrisi che cerchi di far passare anche attraverso gli occhi. Come ti chiami? ti chiede e subito, con molta delicatezza, aggiunge che se non ti dispiace può dirglielo anche la mamma. Seguono commenti sul nome, sulla tua espressione e sulla nostra nuova conoscenza con quel contesto. Davvero una bella ragazza, mi dice guardandoti e vedo nei suoi occhi una malinconia familiare che probabilmente rivolge ogni giorno a quel figlio che sembra tutto concentrato in un suo mondo parallelo.

Quando oggi arrivo a prenderti l’episodio mi ritorna subito in mente proprio mentre chiedo ad un operatrice di non tenerti bloccata per il polso, visto che ora ci sono io. Non smetterò mai di star male per quelle mani addosso tante volte inopportune e non smetterò mai di restituirne all’altro l’invadenza e, sovente, il non senso.

Il contrasto tra la delicatezza di quel padre e il gesto dell’operatrice, mi arriva forte come un odore pungente. Per fortuna non è lei la tua educatrice di riferimento, penso con un sospiro di pancia mentre la razionalità mi ricorda di non giudicare frettolosamente da un singolo gesto. Quando qualcosa ti riguarda il confronto fra testa e cuore è spesso un gran casino.

Cosa ne dici della nuova educatrice? ti chiedo mentre siamo in auto dirette verso casa. A me piace e mi sembra molto bello anche il suo nome di fiore, dico mentre mi guardi e mi ascolti ripeterlo scandito. Ridi e muovi le braccia con quel tuo gesto che esprime felicità. Buon segno.

Speriamo nei suoi petali.

Affilare incontri

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affilare parole di Irene Auletta

Un signore che ci conosce da anni e che ogni tanto incrociamo sulla nostra via, non perde mai l’occasione per salutarci e salutarti tentando con goffi gesti piccole gentilezze che raramente sembrano raggiungerti nel tuo mondo di significati.

Tuttavia, proprio grazie ai suoi aspetti più positivi, stona come il gesso sulla lavagna quel tono urlato che utilizza sempre per rivolgersi a te ignaro del mio parlarti a voce bassa. Sempre più bassa per contrasto e nella speranza che comprenda.

Grande classico quello di parlare ad alta voce rivolgendosi ad un disabile oppure ad un anziano. Vuoi dire che il pensiero latente dominante immagina un inspiegabile collegamento tra difficoltà, limiti e sviluppo dei sensi? Bizzarrie degli stereotipi o dei luoghi comuni.

Qualche tempo fa, in un ristorante, una signora accoglie le nostre ordinazioni dimostrandosi molto attenta a tutte le nostre complesse indicazioni alimentari. Dopo averti chiesto per tre volte il tuo nome rispondo al tuo posto e già la guardo con sospetto per il tono insieme mieloso e in falsetto. Tra i miei preferiti per gli eccessi di orticaria!

Non ce la fa a trattenersi e, cogliendo tutti noi di sorpresa, allontanandosi dal nostro tavolo decide di darti una carezza sulla testa esclamando … carina!

Io faccio la faccia truce e per fortuna gli occhiali da sole (siamo in terrazza!) proteggono la signora dalle mie frecce oculari. In queste occasioni mi viene spesso in mente un noto film, tra bellezza e catana.

E’ proprio così, anche quanto si parte bene sembra inevitabile scivolare in quei comportamenti che trovo davvero inappropriati, invadenti e anche insopportabili. Ne ho già scritto tante volte e so di condividere con molte persone la fatica di gestire relazioni e comunicazioni che il più delle volte rischiano di assumere le connotazioni della mitica goccia di troppo.

Ogni tanto mi fermo a immaginare strategie nuove e di recente propria una tua compagna di centro mi ha offerto l’occasione per capire meglio. Sei tra le più grandi di età nel gruppo di ragazzi e ragazze ma, senza alcun dubbio, appari come la più piccola anche a causa di quella tua espressione ancora molto infantile che suscita i classici commenti riservati ai bambini piccoli.

Ciao piccolina, ti dice questa ragazza mentre guarda interrogativa la mia mano che, avvicinandosi all’altezza della tua testa, le impedisce gentilmente di darti una carezza. Che strano tono usi, le dico, sai che lei è più grande di te? Mi guarda attenta e seria.

Scusa, hai ragione. Vi sorridete per salutarvi e anch’io partecipo sentendomi un pochino più leggera.

Lezione numero uno, appresa. Direbbe Tata Matilda

 

Sfidami sempre

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sfidami sempredi Irene Auletta

Ti era già accaduto un paio di anni fa.

Tu, che non hai mai messo le mani in bocca neppure da piccola, un giorno, forse per caso, hai scoperto quel gesto che subito ha raccolto il dissenso esplicito da parte degli adulti a te vicino. Non solo. Come sovente accade, come genitori, educatori e insegnanti, in difficoltà o anche solo presi alla sprovvista, siamo tutti caduti nella trappola della prescrizione accompagnata per alcuni, da quelle mani addosso che purtroppo tu non riesci proprio a respingere.

E così, tu ci hai dichiarato guerra. Nel giro di una settimana ci siamo dovuti tutti misurare con il tuo comportamento divenuto ormai quasi ossessivo. In me madre, hai toccato le corde profonde e di grande sofferenza che da anni mi trovo a gestire nell’incontro con quei tuoi comportamenti che mi mettono spalle al muro. Non tanto per la trasgressione in sè, ma per ciò che comportava rispetto alla nuova immagine che tu offrivi a me e al mondo.

Peccato, mi disse una persona, era una ragazzina così a modo e graziosa! 

Doppia pugnalata. Quella sera stessa, abbiamo cambiato rotta.

Poche parole sostenute dai toni dell’amore e un abbraccio di comprensione per la nuova sfida da affrontare insieme. Ce l’abbiamo fatta.

Oggi è accaduto ancora. Arrivo a prenderti nel nuovo centro che frequenti da poche settimane e subito ti intravedo con il dito in bocca e con quello sguardo inconfondibile di trionfo. Per rincarare la dose, mentre l’educatrice mi racconta cosa è accaduto, afferri un gioco lì vicino e, guardandomi, assaggi anche quello. Ci risiamo, ma stavolta non ci casco.

Le nuove persone che andrai conoscendo dovranno imparare a incontrarti e io farò la mia parte per aiutarti a trovare altri modi possibili per contrapporti, sfidare, farti valere e contrastare gesti e parole che, seppur spinti dalle migliori intenzioni, rischiano di azzerarti e mettere a dura prova la tua volontà.

Naturalmente, mentre ci dirigiamo verso l’auto, quel comportamento pian piano scompare mentre ti racconto quanto mi sei mancata. Mi guardi con quello sguardo che sembra contenere mille domande e io lo sostengo, provando a riempire il silenzio della mia comprensione.

Sai che ti dico amore? Non ti preoccupare, passerà anche stavolta ma tu non arrenderti. Sfidami sempre e abbi pazienza. Se ogni giorno tu riesci a convivere con la tua disabilità, posso farcela anch’io, con la mia.

Ci sono gesti

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IMG_0674di Irene Auletta

Con mia figlia passo il tempo a chiedermi come offrirle possibilità per scegliere, per non farla sentire sempre determinata dalle posizioni altrui, per aiutarla a ritagliarsi una piccola nicchia di autonomia e affermazione della sua persona.

Non è per nulla facile e ogni volta mi interrogo sulla mia parte.

Qualche giorno fa parlavo con i genitori di un figlio adolescente e mi sono ascoltata dirgli che forse era il momento di lasciarlo un po’ andare. Le preoccupazioni della madre mi raggiungono forti. E se non è ancora in grado, se si mette nei pasticci, se combina qualche guaio?

In questi casi uso spesso l’immagine delle ginocchia sbucciate. Se un bambino non cade, non impara a correre e a trovare il suo nuovo equilibrio. I genitori sono lì, sempre pronti a consolare e a medicare le piccole o grandi ferite, offrendo la loro forza per recuperare il coraggio necessario al successivo tentativo.

Quante volte con te, figlia mia, mi percepisco proprio così. Ma come faccio a lasciarti andare ancora un pochino di più e a prepararmi a medicarti la prossima ferita?

Ieri siamo andati a fare un pic nic con amici e la loro figlia di dieci anni. Durante un piccolo giretto nel paese adiacente al parco che ci ha accolto, ti dirigi con decisione verso la mano della bambina e la scegli per passeggiare. Siete belle da guardare voi due, che sembrate quasi coetanee e io mi commuovo.

E’ la tua piccola scelta e mi accorgo di come anche nel nostro mondo su misura ci possono essere nuovi amici, anche per te. Ho paura che tu possa inciampare, che possa farti male e che possa farlo anche alla piccola amica che tieni per mano. Mi trattengo e cerco di controllarmi godendomi quel momento che ricevo come dono prezioso.

Stamane ti sei svegliata di ottimo umore nonostante la tua salute, da tempo, stia mettendo a dura prova la tua pazienza. Sarà anche merito della giornata di ieri?

Mentre sistemo casa non mi accorgo della porta d’ingresso aperta fino a quando il campanello non richiama la mia attenzione. Chi può essere a quest’ora di domenica? Il babbo non lo aspettiamo prima dell’ora di pranzo.

Quando apro ti trovo lì a scampanellare, contenta della tua piccola fuga sul pianerottolo. E’ la seconda volta che accade e ogni volta, il cuore mi balza in gola pensando al pericolo scampato della vicina rampa di scale lì, a pochi passi.

Faccio finta di non riconoscerti e ti chiedo seria cosa desideri. Mi guardi con quel tuo sorriso che contiene mondi di significati nascosti.

Benvenuta figlia. Continua a crescere come puoi e nel frattempo ti prometto di continuare ad imparare a starti vicino lasciandoti andare ogni volta, un po’ di più.

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