Ciao Davidedi Irene Auletta

“Rovigo, nonno uccide il nipote di cinque anni e si suicida. Il piccolo soffriva di una malattia rara.”

Abituati alle notizie che ci passano attraverso questa, per chissà quante persone, è una tra le tante. Per me e per un ristretto gruppo di persone, no. Forse perchè quel bambino aveva la medesima sindrome genetica dei nostri figli, forse perchè con il padre e la madre era nato un contatto, per molti solo via facebook, di quelli che anche a distanza ispirano fiducia e simpatia. Forse perchè ci sono notizie che vanno a toccare corde che neppure osiamo pensare, figuriamoci nominare.

Io, ho subito sentito forte l’eco del dolore di quella famiglia spezzata, di quel genitore che in un solo momento ha perso padre e figlio e di quelle domande che forse non troveranno mai una risposta.

Magari si è trattato di un incidente, dico al padre di mia figlia. La mia mente, il mio cuore e la mia pancia rifiutano quel gesto che mi appare indicibile.

Eppure, proprio quel gesto, urla forte con grande strazio qualcosa che non osiamo mai dire. Di quanto a volte ci sentiamo sfiniti, senza forze, dubbiosi sulle nostre capacità di portare avanti quello che la vita ci ha riservato. Il grido di quel sentimento che tante volte risuona solo nelle nostre teste silenziose ma che riconosciamo bene negli occhi di chi, come noi, ne ha una grande confidenza.

Si chiama disperazione, la speranza smarrita.

Si sarà sentito così quel nonno? Avrà pensato a un nobile gesto di liberazione? Oppure si sarà trovato travolto da un bambino impacciato che non è riuscito a trattenere e che ha cercato di soccorrere mentre l’acqua li trascinava lontano?

Certo per quei genitori sarà molto diverso il sentimento che accompagnerà la vicenda, in uno o nell’altro caso. Ma in entrambi immagino un dolore senza respiro che stamane, quasi come uno strano contagio, sembra aver tolto il fiato a tutti quei “genitori amici” che rincorrono pensieri sulla pagina facebook che parla di una storia comune.

E con il cuore che batte a fatica sono qui a chiedermi cosa possiamo imparare da questi gesti o da queste situazioni estreme.

La mia parte più selvaggia vorrebbe gridare che queste sono vere tragedie e non tutte quelle cazzate per cui a volte si sprecano tante energie, inutilmente. La mia anima più quieta, in pace con il dolore che mi accompagna da anni, sente la possibilità di un grande apprendimento.

Forse dobbiamo tutti imparare a dire e a dirci, senza vergogna, di quando ci sentiamo disperati. Smetterla di fare sempre quelli forti che, a volte, si sentono pure fortunati.

Chiudo gli occhi e rimango con questa burrasca emotiva. Chissà che nonno e nipote non lascino, ai loro più cari, nuovi doni in riva al mare.