Corpi che imparano

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di Irene Auletta

“La vita non è statica fluisce cambia di continuo, l’unico elemento costante è il cambiamento” (Moshe Feldenkrais)

Reduce da un seminario Feldenkrais mi ritrovo davanti alla tastiera del mio portatile con l’esigenza e il desiderio di trattenere, anche attraverso le parole, un’esperienza importante, ricca, generativa.

Otto donne, comprese la maestra storica e una sua collega, in una location incantevole e accogliente, a contatto con una natura fresca e rigogliosa capace di sostenere, con tutta la sua bellezza, un percorso di scoperte e ricerca.

Il femminile, unitamente alla professionalità delle insegnanti e alla disponibilità dell’intero gruppo di stare nell’esperienza, ha fatto sentire forte la sua peculiarità connotando in modo inequivocabile la possibilità di guardare la cura di sé e delle proprie relazioni, attraverso quello che più volte è stato definito e presentato come “apprendimento organico”. Il corpo ascolta, impara, modifica, producendo cambiamenti rispetto a quanto gli ruota intorno. 

Parole e significati ormai familiari, dopo anni di incontro con questo metodo, si rivelano preziosi e graditi compagni di viaggio. La ricerca della grazia, il valore della gentilezza, la possibilità di imparare grazie alla lentezza e al “fare meno”, il dedicarsi tempo in un dialogo continuo rivolto alla conoscenza di sé e al riverberare di questa nelle relazioni circostanti.

Le lezioni si intrecciano al quotidiano che, l’esperienza stessa della residenzialità, rende speciale. Le storie dei corpi si raccontano nei gesti e attraverso le parole, condite di variegate tinte di emozioni e significati, senza rinunciare a musiche e danze. 

La cura prende forma e luce, tono e colore, mostrando vie possibili di crescita e cambiamento. Ciascuna porterà via con sé un piccolo tesoro a cui poter attingere nel tempo, per continuare ad apprendere qualcosa che avrà a che fare con quell’intreccio indissolubile che riguarda il corpo, la mente e le possibilità di dare significato alla vita, continuando a cambiare e quindi a imparare.

Grazie Moshe!

25 novembre, sempre

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di Irene Auletta

“Le parole a volte si ingolfano, altre si consumano. Altre volte ancora arrivano in ritardo e non servono più a dire quel che volevano.”  (Mi sa che fuori è primavera di Concita De Gregorio)

Ieri ho ascoltato, quasi in religioso silenzio, i vari interventi che si sono alternati nella seduta straordinaria di Montecitorio, nel rispetto delle testimonianze portate da ciascuna donna.

Mentre mi è parso quasi naturale che le voci plurali comprendessero interventi politici o di specialiste impegnate a vario titolo intorno al tema, Contro la violenza sulle donne, ho trovato interessante la scelta di dare la parola anche ad altre donne, esse stesse vittime di violenza. In particolare, ancora una volta, mi hanno colpito i dati snocciolati con attenzione puntuale e le forme crudeli con cui la violenza e’ stata nominata e identificata. Violenza domestica, vendette “amorose”, stalking, omicidi.

Al femminicidio ha fatto eco il figlicidio, anche qui dati inquietanti, come modo di fare violenza alla donna uccidendo il figlio. Quindi uomini che accecati dalla violenza, dimenticano il loro essere padri o comunque, lo fanno passare quasi in secondo piano, uccidendo il proprio figlio per punire la donna. E come madre, rimango in silenzio, immaginando il dolore.

Per me, di fronte ad alcune enormità, è sempre molto difficile esprimere di getto valutazioni e sicuramente, con il passare degli anni, mi sento molto distante da chi sembra avere subito le idee chiare su tutto e un giudizio in punta di lingua pronto per essere espresso.

Dal mio osservatorio di donna e di professionista impegnata in relazioni di aiuto, so bene che le sfumature dell’umano ci costringono ad avvicinarci a pensieri e azioni a volte impossibili anche solo a dirsi. Trovo tuttavia che sia un dato di civiltà e maturità smetterla di utilizzare come lente di comprensione degli eventi complessi e gravi “la caccia al colpevole” e spostare lo sguardo verso la ricerca di responsabilità. Individuali, sociali e culturali.

Oltre ogni ragione ci sono persone, mondi e storie. Provare ad accoglierle e ascoltarle, in tutte le loro sfumature, senza l’urgenza di aggiungere la nostra personale sentenza, può essere un modo per fare cultura, provando a capire e soprattutto, ad assumersi ciascuno la propria responsabilità. Come donne, uomini, professionisti e, soprattutto, adulti.

La violenza sui più deboli e’ ahimè storia assai antica dell’umanità, ma mai come oggi gli adulti sono in scacco rispetto alla loro assunzione di responsabilità. Potremmo partire proprio da qui, per leggere con lenti multifocali la complessità delle storie e degli eventi?

Scarpe rosse

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di Irene Auletta

Da bambina mi sono sempre piaciute e da adulta, appena ne trovo un paio giuste per me, fatico a non cedere alla tentazione. Si sa che le donne hanno con le scarpe un rapporto tutto loro! Le scarpe rosse poi, al di là della moda del momento, sono sempre state una mia passione, come quella di tante altre donne.

Mia madre e altre sue coetanee, raccontano di come anni fa, questo colore veniva sovente associato a donne “leggere” al punto che acquistare un paio di scarpe rosse poteva configurarsi come un atto di vera e propria trasgressione.

Oggi, per fortuna, non è più così. I colori hanno invaso alla pari tutti i capi di abbigliamento senza alcuna distinzione e di certo non è strano e neppure originale indossare scarpe dei colori più svariati.

Ma le scarpe rosse rimangono peculiari al punto che negli ultimi anni sono divenute simbolo e icona della campagna mondiale contro la violenza sulle donne, quasi a sottolineare quel confine fragile e da proteggere sempre, tra il piacere e la violenza, il dominio e la libertà, la gioia e il dolore.

Penso a cosa possano condividere in proposito molte madri con figlie adolescenti e quanto ancora l’educazione debba necessariamente riprendersi in mano per andare oltre gli slogan e raggiungere i bambini e i ragazzi che stanno crescendo e ricercando significati, proprio sui temi dell’uguaglianza e della violenza.

Ho raccontato recentemente durante un incontro di formazione che un’assessore di un piccolo comune, di fronte al mio parlare di inserimento dei disabili nel mondo della scuola, ha tenuto a sottolineare con un sorrisino per me indecifrabile, che il termine moderno oggi è inclusione.

Cosa c’entra? Io sono un po’ stufa delle parole che continuano a cambiare e dei significati che non solo rimangono sempre uguali ma a volte tendono anche ad involvere. La violenza, l’emarginazione, le disuguaglianze, l’ignoranza, vanno nominate e affrontate come tali, senza perdere l’occasione per farlo, ogni giorno.

Ogni volta che sentiamo parlare “di donne leggere”, “che se le vanno a cercare”, “che le meritano”, guardiamo dritto negli occhi il nostro interlocutore e non lasciamo alcun dubbio circa il nostro dissenso. Anche questo vuol dire fare educazione e insistere a chiamare le cose con il loro nome.

Non quello più alla moda, ma quello che nel suo dirsi non ne tradisce i significati, indipendentemente dai colori che indossano.

Donne, menti e cuori per l’educazione

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di Irene Auletta

Sfoglio un album di foto ricordo.

Luglio 1991. Incontro per la prima volta due gruppi di educatrici di servizi per la prima infanzia di un comune dell’hinterland milanese. Allora si chiamavano ancora asili nido. Loro si stavano cimentando con un forte bisogno di formazione e di cambiamento e io con le mie prime esperienze nel ruolo di consulente pedagogico. Di certo allora, nessuno di noi avrebbe immaginato una storia professionale che ci ha viste per quindici anni compagne di viaggio.

Febbraio 2014. In occasione di una serata culturale che conduco insieme ad una collega ci incontriamo di nuovo. Senti Irene, quest’anno ricorrono i miei quarant’anni di lavoro e, anche se in pensione ci andrò il prossimo anno, mi piacerebbe fermare questo momento raccogliendo la mia esperienza e condividendola con le persone che insieme a me, hanno attraversato la mia storia professionale. Ci stai? Mi daresti una mano a pensare ad una serata che si configuri come incontro leggero, per festeggiare e ricordare insieme?

Aprire 2014. Eccoci di nuovo qui. Come succede nelle storie importanti, anche se non lavoriamo più insieme da parecchi anni, appena arrivo riconoscono il clima, l’organizzazione e la cura dell’ambiente, i sorrisi e i saluti che parlano di incredibili intrecci di vita e lavoro, trattenuti anche nel titolo dell’invito preparato dalla festeggiata e consegnato a ciascuna delle invitate. Non potrebbe essere diverso per lei perchè questo è sempre stato il suo modo di intendere il lavoro e l’educazione. Intrecci tra mente e cuore, tenacia e leggerezza, rigore e tenerezza, fatiche e raccolti.

Ricorrono parole che riconosco semi della nostra storia e che son diventati frutti individuali ricchi di sfumature differenti. Crescere, imparare, insegnare, credere, osare, sperimentare, divertirsi, impegnarsi. Il tutto condito con la passione che in tanti anni di lavoro ha fatto patire e ha permesso di gioire.

Serata ricca, piena di emozioni, ricordi, immagini, racconti. Di te mi ricordo bene quella volta che… Ti ricordi quando insieme abbiamo? … Quando ti ho conosciuta ho pensato… Durante la serata ci fanno compagnia tante fotografie che ritraggono momenti di quarant’anni di lavoro con bambini, genitori, colleghe e formatori. Materiali elaborati e prodotti individualmente e insieme. Programmazioni di lavoro, profili dei singoli bambini, lettere destinate a referenti istituzionali, tracce di momenti formativi e altro ancora che racconta una storia che, insieme ad altre storie, ha attraversato le trasformazioni dei luoghi educativi pensati per accogliere bambini piccoli e le loro famiglie.

Momenti di respiro profondo. Un’educatrice, già in pensione da qualche anno e che ha lavorato fino a sessantacinque anni con il sorriso sulle labbra e negli occhi, mi dice che ci voleva proprio, una boccata di ossigeno!

Educazione e vita, ancora una volta insieme in quei saluti affettuosi che profumano di un nuovo arrivederci.

Sfumature della cura

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le sfumature della curadi Irene Auletta

Mi è sempre parsa un po’ riduttiva l’idea della cura maschile associata ai nuovi papà alle prese con pappe e pannolini, tante volte raccolta dalle voci femminili. Mio marito mi aiuta tantissimo ed è proprio un papà moderno, non ha nessun problema ad occuparsi del bambino e anche lui si sveglia di notte! 

Evviva. Detto questo però mi pare importante provare ad andare oltre i primi due o tre anni di vita per esplorare quelle possibilità di cura che, accompagnando i figli nella crescita, sappiano fare un saltino dopo le cure primarie solitamente rivolte ai piccoli. Mi piacerebbe anche allargare il pensiero pensando ai tanti padri separati che si ritrovano da soli ad occuparsi di qualcosa che conoscono poco, ai padri che incontrano figli che richiedono cure primarie anche dopo i primi anni di vita e a tutti quegli uomini che, come figli, si trovano ad occuparsi di genitori anziani, bisognosi di cure non come bambini, ma come persone adulte invecchiate.

Non so bene come organizzarmi perchè finora certe cose le ha sempre fatte la mia ex moglie e ora mi ritrovo a dover imparare tanto di nuovo…

Sono tornato a vivere con mia madre che è rimasta sola e ha bisogno di essere aiutata in tante piccole faccende …. per fortuna al momento è ancora abbastanza autonoma.

Prendersi cura dell’altro tocca corde delicate e intime per tutti, uomini e donne. Forse in questo momento gli uomini coinvolti nella cura possono orientare anche le donne a dire delle loro fatiche, aiutandole a non assumere sempre e a tutti i costi quell’atteggiamento di chi ha nel dna indicazioni infallibili.

Una collega mi racconta di come si è ritrovata a fare il bagno a suo padre anziano e poco presente e, sicuramente per sdrammatizzare un momento difficile mi dice,  pensa che stranezza vederlo nudo … non ho potuto fare a meno di pensare che io sono venuta proprio da lì.

Se gli uomini devono imparare a prendersi cura, le donne possono cogliere l’occasione per provare a ridare voce e senso a gesti smarriti nella memoria collettiva e nascosti come poco nobili tra tante mura domestiche.

Più di una madre mi ha raccontato il giorno in cui la figlia disabile ha avuto il ciclo mestruale, come “il più brutto della mia vita” e tante donne condividono il bisogno di trovare significati nella cura di genitori anziani malati e persi in mondi di tramonto senile. Magari gli uomini raccontano meno ma li immagino alle prese con questioni assai simili.

Curare è difficile per tutti, uomini e donne. Riuscire ad andare oltre le prime pappe mi pare proprio una bella conquista, sia per esplorare la molteplicità dei significati legati alla cura che per permettere l’intreccio di nuovi racconti, al maschile e al femminile.

L’indignazione non è in svendita

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di Irene Auletta

Nel web gira da qualche giorno, pare con grande successo, un’accorata lettera che dedica una piccata risposta ad un recente intervento del Presidente della Camera Laura Boldrini. Prima di giudicare ho ascoltato le parole che hanno scatenato tale reazione e francamente, anche dopo averle ascoltate diverse volte, non ho trovato alcun elemento che giustifichi una tale reazione che sfiora l’offensivo o che comunque di certo esibisce toni parecchio arroganti verso quella che non manca di sottolineare essere la terza carica dello Stato.

Certo, magari non mi fa impazzire l’esempio della madre che serve a tavola, ma perchè invece non viene dato anche risalto alla frase successiva che parla dei corpi femminili esibiti per pubblicizzare la qualunque?

E poi scusate, fermiamoci ai toni della lettera che già sono parte significativa di una comunicazione e non solo una forma trascurabile. Non vi sembrano gli stessi di quei politici sbruffoni e ignoranti tanto accusati proprio da chi rischia di riproporli, più o meno consapevolmente?

Se vogliamo dire basta davvero, dobbiamo iniziare a farlo in prima persona, esibendo l’intelligenza dei nostri pensieri, lasciando da parte il dito puntato sempre contro qualcosa o qualcuno e soprattutto, cogliendo l’insieme di una riflessione o di un commento, senza attaccarsi ad una sola frase, anche se infelice, assumendo così le sembianze dei peggiori esempi che purtroppo non mancano di fare i loro show quotidiani.

Stamane il buongiorno di Massimo Gramellini, restituisce respiro ad un’intelligenza che ha bisogno di uscire dalle scatolette costruite negli anni per volgersi verso un’orizzonte in grado di spaziare.

A furia di indignarci per tutte le virgole del discorso rischiamo di diventare come quelli che, guardando solo il dito che indica la Luna,  finiscono con il perderne di vista lo splendore.

Ma quali eroi?

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di Irene Auletta

Da anni vado dicendo che mi sento una madre apolide. Proprio così, nel senso di senza cittadinanza e senza appartenenza. Fatico a trovare  possibili condivisioni sia con chi vive esperienze tanto differenti dalla mia che con chi attraversa vicende esistenziali assai simili. Una parentesi piacevole e particolarmente positiva la sto scoprendo in questi ultimi anni grazie allo scambio e al confronto tramite il web dove, forse per il numero delle frequentazioni o per le caratteristiche del luogo, sempre più spesso incrocio echi di significati familiari e che riconosco con gradevole sorpresa.

Ho già scritto della questione e qualcuno mi ha anche un po’ presa in giro per il mio cipiglio. Ho osato affermare che mi irritano profondamente tutti quei genitori che, sicuramente per loro difficoltà, hanno sempre bisogno di normalizzare, banalizzando. Li riconosco subito in coloro che di fronte a qualsiasi considerazione o commento riferito ad un figlio disabile, hanno bisogno di affermare subito che anche loro stanno attraversando difficoltà simili, spesso facendo confronti che francamente a volte mi lasciano davvero basita. In genere i figli in questione hanno problemi a scuola, di peso e non raramente, faticano a stare dentro alle mitiche categorie dei percentili pediatrici di sviluppo, divenuti la nuova persecuzione di molti genitori. Naturalmente a disturbarmi non sono questi loro problemi, che comprendo e rispetto, ma l’esigenza di metterli a confronto con qualcosa che sovente è proprio molto lontano dalla loro comprensione.

Sono ancora più in difficoltà quando penso che chi ho di fronte dovrebbe più o meno parlare la mia stessa lingua e invece mi sento una marziana. So bene che ognuno ha bisogno di trovare le sue spiegazioni a quanto sta vivendo ma a me sono sempre state un po’ strette quella sorta di omelie che snocciolano le caratteristiche dei genitori di figli disabili definendoli come individui speciali, persone toccate da fortune o doni inspiegabili, illuminati sulle vie di qualche strano luogo. Questo davvero ho sempre fatto molta fatica a comprenderlo, pur nel totale rispetto del pensiero altrui. Figuriamoci a condividerlo.

Ultimamente invece, mi ha confortato leggere il commento di una mamma, una di quelle che mi fa sentire meno ufo e che, con un tatto invidiabile, invita i genitori con figli disabili a fare meno gli eroi e a chiedere aiuto, pensando anche a se stessi e alla propria vita. Ho apprezzato molto, provando grande rispetto, anche il coraggio di un’altra madre che si è concessa di scrivere in un post di come si ritrova a piangere per la stanchezza, a causa dei disturbi del sonno del figlio. La disperazione a volte spinge a farsi anche queste domande, ma che vita è la mia?  Non c’è bisogno di risposte banali, di luoghi comuni e di assurde spiegazioni. Forse bisogna proprio imparare a non aver paura della rabbia, del dolore, dello sconforto, del senso profondo di ingiustizia e del grande smarrimento.

Molte di noi, madri con figli disabili o con gravi problemi di salute, hanno finalmente voglia di allontanarsi da quell’immagine di Madonna a cui sovente vengono associate, per riprendersi in mano la loro vita di donne, madri, amiche, professioniste, mogli.

Vi sembra troppo? Io, per fortuna, inizio a sentirmi in buona compagnia.

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