Rabbia, conosco la rabbia. L’ho portata con me per molto tempo, o forse è stata lei a portami, a trascinarmi con sè. Ho le mie ragioni, del resto chi non ne ha? anche chi non ne avrebbe, comunque, riesce a inventarsele. Con estrema facilità. Nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, oso affermare che le mie ragioni sono più valide di altre e riesco anche a comprendermi. L’ho fatto, voglio dire, mi sono compreso un bel po’. Eccheccavolo! avrò diritto o no di essere incazzato? No. I sentimenti non sono terra di diritti, semmai lo è la loro espressione. Bene, allora la questione è che ho diritto a esprimere la mia rabbia e che le anime belle se ne facciano una ragione, anche se le può destabilizzare urtandone la delicata suscettibilità. Perchè, però, quando l’ho fatto mi sono sentito un imbecille?

Ho avuto, tecnicamente avrei ancora, tutte le ragioni per essere incazzato. Spesso lo sono ancora, in realtà. Ma se la mia rabbia si esprime, come le piace fare, con la violenza delle parole, l’isteria dei toni, l’artiglio della voce, la distruttività del gesto, mi sento un imbecille. Mi sono sentito spesso un imbecille, un rischio dal quale non sono del tutto al riparo. Allora, mi chiedo, che nesso c’è tra l’esercizio di un diritto e l’imbecillità? Un diritto, ogni diritto, ha a che fare con la ragione, l’imbecillità, per definizione, ne è l’assoluta debolezza. E’ importante comprendersi, è la via maestra per comprendere, ma ho dovuto imparare a comprendere di me due cose contemporaneamente: il bisogno di avere ragione e il bisogno di non smarrire la Ragione.

Chi sfascia auto e vetrine lo fa perchè è incazzato per mille e uno motivi condivisibili? So cosa vuol dire, avere mille e uno condivisibili, dunque sono assolutamente in grado di comprendere. Ciò non di meno, sfasciare auto e vetrine, tirare pietre e bombe molotov, sono e restano gesti imbecilli. Se non sono gesti consapevolmente criminali. Sono gesti imbecilli perchè creano un cortocircuito tra sentimenti e azioni, provocando l’oblio dei primi che hanno bisogno di rendersi visibili a causa dei sentimenti (di ripulsa o di condivisione) che suscitano le seconde. Oggi ho sentito per radio un esponente dei centri sociali dire che la forma corteo della manifestazione è uno dei beni comuni che va salvaguardato. Appunto. Non si può difendere il senso del bene comune distruggendolo. O per lo meno, si può fare, ma in tutta evidenza quel gesto ottiene il contrario di quello che cerca, è privo di ragione dunque è imbecille. Questo è un giudizio politico o magari etico, ma non pedagogico? può darsi. Ma anche no.

Cosa è mai un “giudizio pedagogico”? Prima di tutto è un giudizio. E questa affermazione, che è un giudizio, porta con sè un primo pezzo di verità, ovvero che il pedagogico ha a che fare con il giudizio e non se ne può chiamar fuori. Dunque ogni considerazione sugli eventi, qualsiasi evento, che si limiti a “comprendere” senza valutare è un modo distorto, per quanto diffuso, di pensare la pedagogia. E’ il tipo di giudizio che occorre scorgere e praticare se parliamo di educazione, non il “se” del suo esercizio che è fuori discussione. Abbiamo quindi, nel caso che stiamo cercando di capire, ragazzi estremamente incazzati che sfoderano comportamenti distruttivi verso le cose d’altri e le cose pubbliche, siano esse auto, vetrine o manifestazioni. Cosa dovrebbe insegnare tutto questo? che c’è una rabbia sociale da vedere e rispettare? sì certo. Ma questo è solo il primo livello. E fermarsi qui significa fermarsi ai blocchi di partenza. Provo ad andare oltre.

Cosa mi dice un evento come quello del 15 ottobre a Roma e, sopratutto, le reazioni successive? Per esempio che le domande pedagogiche da questi eventi sono sempre sospinte sullo sfondo. Chiedersi chi abbia sbagliato, di chi sia la colpa o quali siano le origini porta altrove, e non permette di soffermare lo sguardo su cosa i fatti dicono sia necessario imparare. Come la capacità di discriminare tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, tra ciò che è lecito e ciò che è legale, tra ciò che è illegale e ciò che è violento. Condurre una lotta di piazza senza interrogarsi su queste differenze e sulla necessità di insegnare/imparare anche molto attorno ad esse, implica trovarsi disarmati di fronte all’imbecillità delle azioni. L’imbecillità delle vetrine sfacciate e delle auto in fiamme, crea un cortocircuito tra legale, giusto e forme di lotta che porta ad accettare la violenza come strada possibile per combattere una legalità che non si condivide. E alla fine non può che produrre uno sgretolarsi pericoloso dell’etica, ovvero quella stessa dimensione che con i richiami alla giustizia, si vuole riacquisire.

Se uno sguardo pedagogico permette di cogliere tutto questo, non può poi che produrre un giudizio chiaro sulle possibilità di azione future, un giudizio che prende, non può che prendere, la forma del “non si fa” e del “proviamo a fare”. Ovvero dell’indicare dei limiti e delle possibilità. Questo mi aspetto.

Vogliamo esercitare il diritto di protestare con ogni mezzo per sostenere principi condivisi? Impariamo a non praticare quei mezzi che li contraddicono. Vogliamo dire a gran voce che c’è una legalità che non accettiamo perchè ne vogliamo un’altra? impariamo a praticare azioni che mettano in discussione “queste” regole, non  “le” regole a partire dal fatto che se si nega una certa regola ma non la dimensione della Regola, allora occorre accettarne le conseguenze su di sè. Vogliamo denunciare l’immoralità di un sistema? impariamo a produrre un’etica nuova ma a partire dai comportamenti, non dalle dichiarazioni di principio. A maggior ragione se denunciamo la vecchia etica proprio per la sua distanza dai fatti.

Se dobbiamo imparare tutto questo, quando ci troveremo di fronte a chi fatica a farlo, dovremo anche prenderci la responsabilità di insegnarlo. Giudizio e responsabilità, per l’appunto, costituiscono due assi imprescindibili di un pedagogico che non voglia impantanarsi nella palude della “comprensione” senza se e senza ma, che per sua natura finisce sempre col comprendere solo una parte di verità. La verità infatti non risiede in quel che capiamo, ma in ciò che riusciamo a farcene, assumendocene la responsabilità nei nostri gesti.