Io, innamorato dell’Arte marziale

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di Igor Salomone

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Vi piacciono i karategi, i kimoni, le divise variamente colorate e setate, le spade, le alabarde spaziali, gli incensi, la cerimonia del Tè, la danza del leone e tutto l’armamentario che alberga l’immaginario collettivo dai film di Hong Kong degli anni ’70 in poi?
Non vedete l’ora di calzare un paio di guantoni e salire su un ring per tentare di portarvi a casa qualche coppa in qualche campionato, fosse anche quello rionale?
Volete imparare a difendervi da rapinatori, scippatori, stupratori e bulli assortiti?
Insomma, se siete appassionati di arti marziali e appartenete alla folta schiera di coloro che almeno una volta nella vita ne hanno praticata o anche solo desiderato praticarne una, rivolgetevi pure a me, vi indirizzerò da qualcun altro. Nel frattempo potete smettere di leggere questo post.

Se invece di tutto questo non vi importa un bel nulla, o comunque non tanto da farvi scegliere di iscrivervi a un corso di karate o di Kung fu, ma da qualche parte, in qualche modo, in qualche momento della vostra vita, in qualche angolo della vostra mente vi siete chiesti a cosa serve l’Arte marziale, vi prego, continuate a leggere.

Non nego che anch’io sono stato sedotto a suo tempo dai riti, dagli ambienti, dai colori, dai nomi in giapponese in gioventù e in cinese da adulto; non nego di aver sognato qualche momento di gloria o di affrontare dai cinque ai dieci malintenzionati riducendoli all’impotenza a suon di calci volanti. Ma era un’altra stagione della vita. In realtà dei riti mi sono stufato, sono da tempo fuori età per le competizioni sportive e non ho particolare desiderio di allenarmi per ore, mesi e anni, coltivando la sindrome del Deserto dei tartari, in perenne attesa che prima o poi qualcuno mi aggredisca armi in pugno.

Nonostante tutto ciò continuo ad amare l’Arte marziale. E questo potrebbe interessarvi, se non avete ancora abbandonato la lettura. Magari scoprite altri buoni motivi per salire su un tatami oltre a quelli che a voi non interessano, no? In questo caso, se vi rivolgerete a me, potremo fare parecchie cose assieme. Sapete dove trovarmi.

Dunque, perché a quasi sessant’anni di vita e trenta di pratica amo ancora l’Arte marziale, anzi, l’amo più di prima? Andiamo per ordine.

L’amo perché è il mio modo di muovermi, di camminare per strada, di fendere la folla, di scarpinare in montagna. L’amo perché è nel mio respiro, nella mia postura, nel mio sguardo. L’amo perché è nel modo stesso di percepire il mio corpo nello spazio e nella relazione con gli altri.
L’amo perché mi ha sostenuto nelle innumerevoli volte in cui ho rischiato di andare a sbattere contro qualcosa, di cadere malamente o di venire sopraffatto da un pericolo incombente.

L’Arte marziale è al mio fianco ogni volta che incontro qualcuno, che sia una persona cara o una moltitudine di sconosciuti sulla banchina del metrò. Mi aiuta a percepire le distanze, a proteggere le vicinanze, a difendere gli spazi altrui difendendo i miei, a incontrare l’altro miscelando intenzione, prudenza e rispetto.

Infine l’Arte marziale mi ha insegnato e ancora mi sta insegnando a evitare lo scontro. Qualsiasi tipo di scontro: dai pugni che volano per un sorpasso alle liti al veleno con i colleghi, gli amici e le persone care, con le quali magari non rischia di scorrere il sangue, ma fiumi di rabbia e di dolore sì. E se non riesco a evitare lo scontro, mi sta insegnando a ridurlo ai minimi termini e, in ogni caso, mi insegna a sostenerlo quando, fallito ogni altro tentativo, mi tocca di affrontarlo.

E’ questo tipo di amore che coltivo ed è questo tipo di pratica che insegno a quel 10% in cerca di un’esperienza, arte marziale compresa, capace di parlare alla vita quotidiana.
Ho coniato più di dieci anni fa ormai il marchio “Difesa Relazionale”. In tanti mi hanno chiesto di cosa mai si tratti. Ecco “Difesa Relazionale” non è che l’Arte marziale posta al servizio della propria sicurezza, del proprio benessere, della capacità di star meglio con se stessi e nella relazione con gli altri.

Se questo non è amore…

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Igor Salomone

T 3394312466
Mail igor.salomone@me.com
Blog Cronachepedagogiche
Sito igorsalomone.it 
Pagina Fb Kung fu strategico e difesa relazionale

corso il mercoledì sera dalle 20.00 in via Tito Livio 23, Milano

 

Quando sei nativo, non puoi più nasconderti

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nativo digitale

Questo post è un po’ tardivo. Mi ci è voluto del tempo per digerire l’articolo di Paolo Attivissimo, “Per favore non chiamateli Nativi Digitali”,  dal quale nasce. Attivissimo e il suo blog, Il disinformatico, sono per me da diversi anni un punto di rifferimento fondamentale per districarmi in Rete. Quante volte grazie a lui sono riuscito a sgamare le bufale che arrivano da Internet avvisando a mia volta le persone che conosco? moltissime.

Dunque se trovo un suo post che  smonta l’idea appena nata e da poco diffusa dei “nativi digitali”, lo leggo con attenzione, lo rileggo e poi ci rifletto sopra. Anche in virtù delle riflessioni e degli interventi che in materia ho già avuto modo di fare e pubblicare.

In sostanza la tesi di Attivissimo è che l’enfasi sulla supposta abilità digitale dei ragazzi nati dal 2000 in poi, è mal riposta. Muovendo dalla sua pratica di insegnamento nelle scuole, dove va ad alfabetizzare sulil tema della sicurezza in Rete, sostiene che al contrario i giovanissimi sanno sempre meno di  informatica, sono sempre più semplici utenti e persino del tutto acritici. Arriva addirittura a definirli “polli da batteria”. O che, per lo meno, rischiano di diventarlo.

Hai molte ragioni Attivissimo. Iniziando dal fatto che mode e grancasse mediatiche finiscono sempre col creare immagini semplificate  e di comodo della realtà. Però rovesciarle nel loro opposto non è che aiuti  granché. Hai certamentrre ragione nell’indicare tutti i singoli segnali che fanno temere scarse competenze da users in chi fa coincidere la Rete con Facebook e non riesce a distinguere un Url farlocco da uno credibile. Ma che c’entra tutto questo con la denuncia accorata della progressiva separazione tra uso di uno strumento e la conoscenza del suo funzionamento?

Andiamo per gradi.

I ragazzini, denuncia Attivissimo, non sanno distinguere tra un’applicazione e l’infrastruttura di rete sulla quale viaggia. E allora? Se chiedi a un bambino se viaggia in autostrada è probabile che ti dica di no, che lui viaggia in automobile. E mi pare del tutto logico. Il passaggio dall’uso dei browser all’uso delle app che ti permettono di navigare in modo più mirato, mi sembra francamente un guadagno netto. Esattamente come lo è stato a suo tempo cliccare un’icona sul desktop con il mouse, invece di digitare faticosamente stringhe di comando su uno schermo verdognolo. Sembra che ogni progresso tecnologico preluda alla nascita di una qualche forma di rimpianto nostalgico per quando le cose erano meno evolute. Non mi è mai appartenuto un simile sentimento, non ho mai rimpianto i  primi giochi elettronici che facevano bip bip rimbalzando una palllina virtuale da una parte all’altra dello schermo. Non sbavo davanti alle auto degli anni ’60 e non mi dispero per il fatto di usare molto più la tastiera che la penna. Però evidentemente un certo feticsmo la tecnologia lo suscita sempre: quello per le cose nuove e luccicanti e quello, opposto, per ciò che era nuovo e luccicante quando eravamo più giovani. E ci sta. Però non posssiamo imputare a dei ragazzini il fatto di non sentirsi attratti da quest’ultimo….

Seconda considerazione di Attivissimo. I ragazzini usano sistemi chiusi che non sanno smontare e non possono costruire. Questa francamente mi pare una nostalgia da ingegneri. Sarà che io non ho mai saputo montare un pc per conto mio e ho iniziato a usare il portatile quando non  è stato più necessario assemblare pezzi e scrivere stringhe di comando, ma non capisco proprio perchè questa dovrebbe  essere un sintomo di una perdita di competenza.

All’origine, trent’anni fa, chi si avvicinava al mondo dell’informatica era destinato a occuparsi di informatica. Ma per questa via l’informatica sarebbe rimasta una bizzarria da tecnofili. I primi possessori di auto alla fine dell’800 erano anche provetti meccanici. Non poteva essere diversamente considerata l’assenza di infrastrutture e la necessità di provvedere da sè per ogni evenienza. Quando ho preso la patente, era ancora di qualche utilità conoscere a grandi linee il funzionamento del motore. Ho personalmente smontato lo spinterogeno e pulito le candele più di una volta, ma oggi non ha più alcun senso. Quello che ci si deve aspettare da un automobilista in termini di competenze è ben altro. Tipo usare la freccia per farmi capire dove va mentre io sono lì fermo che sto aspettandolo a un dare precedenza e poi lui gira prima. Chissenefrega se non sa come funziona l’iniezione elettronica! A ben vedere, il rapporto tra Uomo e strumento muove  da millenni nella direzione di dividere il mondo tra chi fabbrica e chi usa e la tendenza è da sempre che ognuno usi il 99 per cento delle cose che non  sa assolutamente fabbricare. La chiamano Civiltà…

I ragazzini, infine ricorda sempre Paolo Attivissimo non hanno  alcuna idea della sicurezza dell’uso degli strumenti che hanno per le mani. Vero. Ma vale anche per tricicli e  palloni. Qualsiasi bambino impara prima a usare una cosa e poi a usarla con criterio, cercando di non romperla e di non farsi male. Si chiama sviluppo. E, fra parentesi, una quota più che importante di sventatezza è fondamentale per imparare qualsiasi cosa. Senza incoscienza, i processi di apprendimento si bloccano di fronte alla paura di sbagliare, di rompere qualcosa o di farsi/fare del male. Lo dimostra la maggioranza di quelli che hanno dovuto alfabetizzarsi in età adulta davanti a un pc, quasi del tutto incapaci di avventurarsi in un qualsiasi clic se non glielo dice qualcun altro o non ci sono istruzioni precise che consigliano, meglio, impongono di farlo. La competenza digitale chiede di misurarsi con un’intelligenza stocastica, fondata sulla prova-errore, che la maggior parte di noi ha perso e i bambini, fortunatamente, possiedono in abbondanza. Finchè non gliela tarpiamo, ovviamente.

nativi digitali

Dunque, caro Paolo, secondo me i Nativi Digitali sono tali perchè nati in un mondo digitalizzato, non perchè siano campioni di quel mondo o destinati a esserlo. Nè più né meno dei nativi delle isole Samoa che non nascevano campioni di pesca delle perle, dovevano diventarlo. Nè, del resto, lo diventavano tutti. Il punto, quindi, è cosa possiamo fare noi adulti per aiutarli i Nativi Digitali a diventare buoni cittadini del mondo nel quale sono nati, visto che noi le perle non le abbiamo mai pescate, a differenza dei genitori samoani… Mi permetto da educatore, pedagogista e immigrato digitale di suggerire alcune raccomandazioni in proposito.

Prima di tutto, senza abbandonare una legittima nostalgia per un mondo che non c’è più. occorre liberarsi dell’idea che quel mondo fosse migliore di quello attuale. Come si fa a imparare a stare in un certo posto, se chi dovrebbe aiutarti non perde occasione per dirti che in un altro tempo e in un altro posto le cose erano decisamente migliori? E rimpiangere le lavatrici a mano, le tv in bianco e nero o il commodore 64, piuttosto che il pc autoassemblato, è una differenza esclusivamente generazionale. Con l’aggravante che quando ero ragazzo io i nostalgici dei bei tempi andati avevano 30/40 anni più di me, oggi se la giocano tra i ragazzi del 2000 e quelli dei “mitici” ’90. Di questo passo aspettiamoci che, al prossimo giro, i ragazzini di oggi rimpiangeranno le tavolette solide e lucide con le quali sono cresciuti e hanno imparato, giocato, incontrato amici, guardando con sospetto i ragazzini futuri usare fogli digitali trasparenti e arrotolabili, o magari dei device epidermici o direttamente connessi alla rete neurale, e li rimprovereranno per qualcosa che oggi non riusciamo neppure a immaginare.

In secondo luogo, occorre che gli adulti acquisiscano una cittadinanza digitale, smettendola di nascondersi dietro paure e pruriti antiteconologici. Sopratutto quegli adulti che hanno responsabilità educative nei confronti dei Nativi Digitali. perchè per accompagnarli a prendere possesso del loro mondo, custodendolo, arricchendolo senza farsi stritolare e senza smarrirsi, occorre che sappiano in che mondo si trovano e che imparino ad abitarlo.

Infine, e questo è il consiglio che dò in particolare a te caro Paolo, te lo devo dopo tutti quelli che tu hai dato a me, occorre non confondere la competenza digitale con l’ingegneria informatica. Noi dobbiamo attenderci e dobbiamo lavorare duramente affinché ragazzi e giovani diventino utenti evoluti e critici di ciò che usano. Questo vale per gli strumenti informatici, ma in realtà è un principio educativo contemporaneo universale. Essere utente evoluto di qualcosa non significa affatto conoscere come funziona la cosa che si usa, o come è stata fabbricata, o essere in grado di farlo in prima persona. Per lo meno può essere così per una nicchia di utenti, quelli che chiamiamo “appassionati”, non per la maggioranza.

La maggioranza degli utenti di qualcosa è bene che impari a usare quel qualcosa nel rispetto degli altri, in sicurezza, per gli scopi che si prefigge, limitandosi nell’uso quanto basta, esagerando quando si può, capendo quali siano i diritti e i doveri connessi al suo uso, distinguendo ciò che serve da tutto ciò che è possibile sapere ma non è necessario, analizzando criticamente ciò che dovrà usare, smettendo di usarla quando diventerà inutile e riciclandola attentamente.

Come si può capire facilmente, si può essere dei veri campioni del mondo digitale, senza avere la minima idea di cosa sia uno script, un byte, il codice binario, il kernel, un sistema operativo, un dns o cosa significhino www e http.

Quindi io credo che Nativi Digitali sia proprio un bel nome collettivo per la generazione nata dopo il 2000. Nel senso che sono nativi di un mondo affascinante e pericoloso nel quale viviamo però anche noi adulti. Ci piaccia o meno. E non possiamo star qui ad aspettare che siano loro a salvarci da un mondo che ci trova impreparati e riottosi. Dobbiamo condividere l’avventura della sua esplorazione: loro ci devono mettere curiosità, intraprendenza, energia; noi responsabilità unita al coraggio, prudenza unita alla determinazione, saggezza unita alla voglia di imparare.

Giganti in ginocchio

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fragilitàdi Irene Auletta

Ne parlavo proprio oggi con un gruppo di educatori, di quelle persone che sembrano intoccabili, forti e sempre sicure del fatto loro. Forse ci piace farci ingannare da tanta sicurezza perchè permette di nascondere un po’ delle nostre difficoltà o forse, a volte, risultiamo solo impreparati e spiazzati di fronte all’evenienza che, dietro all’apparenza, si possano manifestare fragilità o sofferenza.

Non siamo abituati a trattare alcuni temi e, soprattutto come professionisti, corriamo il rischio di sottovalutare la complessità di ciò che ci si dipana davanti agli occhi quando incontriamo le storie delle persone, piccole o grandi che siano.

Ascoltare le fatiche, le attese deluse, il senso di sconfitta e la percezione di impotenza, rischia di travolgere l’operatore  in un luogo con troppe ombre, dalle quali facilmente ci si difende con l’ironia, le battute sarcastiche o il pregiudizio.

Se accade è umano e credo che in alcune occasioni possa anche risultare una buona strategia per rimanere in equilibrio ma, è importante esserne consapevoli e poter tornare sui propri passi recuperando la competenza tecnica del proprio sguardo.

Ho ripensato ad un gruppo di operatori sanitari incontrati qualche tempo fa e abituati a rivestire un ruolo autorevole e di rassicurazione verso i loro pazienti. Quando sono emerse alcune emozioni legate ai temi della malattia, del dolore e della morte, ne ho visti diversi lasciarsi alle spalle l’armatura professionale, insicuri, ma anche molto interessati al nuovo percorso di ricerca offerto dal lavoro che stavamo svolgendo insieme.

Ci vuole molta umiltà e forza per rinunciare ad avere tutto sotto controllo, per riuscire a chiedere aiuto e a condividere delle difficoltà. Riguarda il medico, l’insegnante, l’educatore.

Bisogna stare attenti a non farsi ingannare dai giganti.

Anche per loro a volte urgono disinfettante e garze per medicarne le sbucciature.

Ho attraversato la strada, dandoti la mano, almeno milioni di volte

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di Alice Tentori

Quando arriva il momento per un bambino di attraversare la strada da solo? E’ una questione di età? Di sicurezza e conoscibilità del luogo in cui si attraversa? Dipende dalla sua consapevolezza individuale o da quella della madre o del padre? Se un bambino di 4 anni, esce di casa con la mamma, corre davanti a lei sul marciapiede attraversa la strada da solo sulle strisce e dopo un metro arriva davanti alla scuola, è troppo piccolo per farlo oppure data la conoscenza del luogo, i pochi metri che lo separano dalla scuola, la presenza dietro di lui della mamma delle altre mamme e dei vigili lo fanno sentire protetto e sicuro per poter attraversare da solo? E’ incosciente oppure è estremamente cosciente?

“Signora, deve dare la mano a suo figlio, non va bene che attraversi da solo” dice il Vigile.

“Signora, suo figlio a scuola va molto bene però ho saputo che attraversa la strada da solo. Non va bene, deve farsi ascoltare da lui”, dice l’insegnante.

“Cristofer lo conoscono tutti dato che attraversa sempre la strada da solo e sua mamma stà dietro di lui senza ascoltarla”, dice un’altra mamma.

Ma il punto qual è? E’ dando la mano al figlio che si dimostra la cura e l’attenzione verso di lui a tutto il pubblico presente? Proteggerlo e tenerlo al sicuro, significa accompagnarlo e guidarlo sempre tenendosi al suo fianco? La capacità di farsi ascoltare è dato dal mio riuscire a tenere la mano al bambino? Oppure la dimensione della cura oltre che essere intesa come un insieme di gesti e azioni che proteggono verso l’esterno potrebbe anche andare nella direzione di attrezzare l’altro ad affrontare autonomamente una situazione “pericolosa” come attraversare la strada da solo anche a 4 anni?

Io non so se sia giusto o meno che il bimbo lo faccia da solo, quello che so e che vedo è che l’ambiente esterno è estremamente sicuro (la strada è addirittura chiusa alle macchine, con i vigili che fermano le poche che passano) e riconoscibile (è fuori da casa propria) e che il piccolo si guarda intorno prima di attraversare.

Per tutto il resto poi, sospendo il giudizio e non considero la signora una mamma che è ascoltata o meno dai suoi bambini, o se fa bene o no a non inseguirli (ad esempio); semmai, provo ad interrogarmi con lei su cosa prova nel vedere il bimbo che attraversa la strada da solo, se pensa che sia al sicuro oppure no e su cosa “significhi tenergli la mano”…

 

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