Lottare, affrontare le avversità, sopportare il dolore, rimarginare le ferite, vincere, essere sconfitti, rialzarsi, trionfare, arrendersi, soccombere, sopraffare. Le metafore guerriere pervadono il nostro linguaggio in lungo e in largo. Le utilizziamo abbondantemente per parlare della vita, delle sue difficoltà, dell’impegno che ci chiede tutti i giorni. Ma sono quasi tutte sbagliate.

Vero, le metafore non possono essere sbagliate, al massimo usate in modo improprio. Ma fa lo stesso. Il punto è l’indeterminatezza della loro origine: la figura del “guerriero” e la mitologia della “battaglia”.

E’ un quarto di secolo che pratico arti marziali e che mi chiedo cosa accidenti sia un guerriero. Diciamo che è un archetipo, che con un po’ di psicoanalisi junghiana da bricolage ce la si cava sempre. Chiamiamo “guerriero” un’immagine, un’idea in senso platonico che ognuno ha interiorizzato per chissà quale percorso cognitivo, alla quale rinviano una montagna di discorsi, offrendosi come pietra di paragone. Il punto però è che qualsiasi cosa sia ciò che definiamo “guerriero” non c’entra un tubo con la nostra vita di tutti i giorni.

Un guerriero, soldato in trincea o samurai che sia, si muove in un campo d’azione molto determinato: le regole sono chiare per quanto crude ovvero, come dice De Andrè, uccidi prima di essere ucciso. Tutto il resto si dissolve all’orizzonte. Ciò che permette a un guerriero di essere tale, è la semplificazione assoluta del campo esistenziale. Il contrario esatto dell’esperienza che viviamo tutti noi, ogni giorno. Se c’è qualcosa che dobbiamo affrontare, sopportare, per la quale dobbiamo lottare, rischiare ferite, decidere se vincere o lasciarsi sconfiggere, è proprio la complessità del mondo che non permette neppure di capire se c’è un nemico da combattere. Del resto è proprio per questo motivo che ogni tanto qualcuno trova un mitra e spara all’impazzata, decidendo che i nemici sono tutti gli altri e semplificandosi finalmente la vita, anche a costo di perderla.

Modellati su questa figura archetipica, invece, tutti quanti sognamo un ring. Che diamine, vuoi mettere? ok, puoi prenderle di santa ragione, però hai la soddisfazione di sapere da chi le avrai prese, che è più o meno della tua stessa misura e livello di preparazione, di affrontarlo faccia a faccia e senza terzi che vengano a scombinare le carte, con regole precise cui attenersi e un arbitro che le faccia rispettare. E poi c’è sempre il gong che potrebbe salvarti all’ultimo secondo. Bene, la cattiva notizia è questa: nella vita non succede MAI.

Eppure le palestre si riempiono di persone che sudano anni, nel migliore dei casi, per prepararsi a lottare, affrontare le avversità, sopportare il dolore eccetera eccetera, su un qualche tipo di ring. Ogni gesto, ogni tecnica, ogni esercizio, puntano a perfezionare le abilità necessarie a combattere entro un determinato sistema di regole. Il più delle volte è sufficiente una piccola differenza in quel sistema di regole e tutto quello che hai imparato non serve più a nulla. Tipo, pratichi a mani nude e i tuoi movimenti sono piccoli, minimi, veloci ed efficaci a contatto con le braccia dell’avversario. Se sul ring ti fanno mettere i guantoni sei finito. Oppure, passi anni ad allenare pugni e calci, poi finisci a combattere con le regole della lotta libera e ti annodano oltre ogni decenza.

Ma questo non sarebbe un problema. Dopotutto se hai imparato ad arrampicare ottavi gradi, nessuno ti obbliga alle gare di triathlon. Stai nel tuo e continuerai a raccogliere soddisfazioni per tutto il sudore che hai versato. Il problema insorge quando sapendo destreggiarti lungo una parete liscia e verticale, pensi di poter fare altrettanto scalando la tua carriera lavorativa o, peggio, superando con agilità i passaggi estremi della vita tipo un licenziamento, un matrimonio che fallisce, una malattia invalidante o un figlio che muore. Non funziona così. Purtroppo, o per fortuna, non funziona così.

A parte quelli che ognuno di noi si va a cercare per godere di qualche ora di semplificazione esistenziale, nella vita i ring non esistono. Si combatte senza regole, senza arbitri, senza gong finale e neppure d’inizio, spesso senza neppure sapere che stai per combattere fino a quando non ti ci ritrovi in mezzo, o addirittura quando sei a terra rantolante. Di più. Ogni giorno può essere che la scelta migliore sia evitare un combattimento che quasi certamente non sai contro quanti e quali avversari dovresti ingaggiare, con quali disparità di forze, con quali rischi non solo per te ma anche per quelli che ti stanno vicino. Senza contare che nella vita reale, prendere un paio di sberloni e chiuderla lì, invece di rischiare una coltellata o peggio, può essere l’opzione migliore.

Questo mondo così complesso e difficile anche solo da intuire, richiede per essere attraversato grandi capacità di autodifesa. Ma per coltivarle, non bisogna illudersi che sia sufficiente imparare qualche tecnica sofisticata efficace solo nelle particolarissime condizioni per le quali è stata pensata. Nessun corso, nessuno stile, nessun sistema di combattimento, nessuna pratica agonistica, ci può sollevare dalla fatica di inventarci le mille e mille strategie necessarie per affrontare il mondo totalmente diverso e infinitamente più difficile che è là ad attenderci, appena fuori dal quadrato.