In Rete si trova di tutto, dopo il maledetto 15 ottobre romano. Moltissimi insulti di tutti contro tutti, i più surreali sono di quelli che condannano i violenti sui siti dei violenti con una violenza inaudita. Niente di nuovo del resto. L’escalation è consustanziale a ogni gesto violento. In risposta alla marea di insulti, mi sono imbattuto in questa nota postata su un sito di anarchici che si definiscono Antifascismo Militante. Di estremo interesse per ragionare di violenza e di difesa. La posto perchè tutti possano farlo per conto proprio. Io, naturalmente, non mi sottraggo e ne approfitto per qualche considerazione di fondo, come nota a margine delle affermazioni che potete leggere seguendo il link.
Prima tesi: la violenza è diversa se considerata un mezzo e non un fine. Questa tesi potrebbe esercitare un certo fascino e spesso l’ha fatto, producendo tragedie immani. Credere che i mezzi utilizzati non condizionino i fini è un’ingenuità psicologica e una superficialità concettuale. Chi scrive sostiene che Black Block e gli altri manifestanti hanno gli stessi fini ma si servono di mezzi diversi, senza argomentare per nulla questa affermazione ma assumendola come verità. Sul piano pedagogico non ho mai creduto che la violenza vada semplicemente condannata senza se e senza ma. Va innanzitutto capita e non per giustificare nessuno: per imparare dalla violenza il senso della violenza, senza di che non la si può affrontare. Dunque distinguere una violenza buona da una cattiva è una pratica antica come le società umane, può ben essere continuata, ma con argomentazioni serie. Quando invece ci si limita a dire che la mia violenza è giusta e la tua è sbagliata, si è succubi di un pensiero dominante. Alla faccia di chi si crede libertario e antagonista.
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Seconda tesi: quel che sarebbe successo a Roma è colpa “di quei 15enni teppisti amanti della violenza per la violenza”. Anche fosse, la domanda inevasa se si dà per buona la prima tesi è chi ha il compito, avendo scelto la violenza come mezzo, di disciplinare i comportamenti di chi poi con la violenza ci si diverte? Dove eravate voi BB mentre i 15enni teppisti sguazzavano nelle auto in fiamme? Per esercitare una violenza strategica, come sembrano rivendicare le parole di quella nota, occorre una grande disciplina. Se la rifiuti, la disciplina, allora non hai neppure il diritto di rivendicare il diritto alla violenza come mezzo. In altre parole erano più serie, per lo meno, le Brigate Rosse.
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Terza tesi: non siamo noi i violenti ma il sistema. C’è sempre una violenza peggiore della propria che serve a giustificarla. Hitler nel ’38 invase la Cecoslovacchia per difendere le popolazioni di lingua tedesca della regione dei Sudeti. Da un punto di vista psicologico, la struttura di pensiero è quella del bambino che allunga un dito verso un altro dicendo “ha cominciato lui”. Dunque è una struttura di pensiero infantile. Sul piano concettuale, infine, questa tesi non considera il fatto che se un sistema è violento, di violenza si nutre, dunque occorrerebbe per lo meno riflettere sul rischio che combattere con la violenza un sistema violento significa alimentarlo.
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Quarta tesi: la violenza simbolica. “Siamo d’accordo con la sfasciatura simbolica delle banche”, questo c’è scritto e il fatto introduce, dopo quella di violenza giustificabile, quella di “violenza simbolica”. Nozione interessante e del tutto priva di fondamento. Parlare di “violenza simbolica” significa discriminare tra una violenza di questo tipo e una “cieca”? “materiale”? “animale”? Distruggere le vetrine di una banca sarebbe “simbolico” mentre dare alle fiamme un’auto no? o dipende dall’auto? tipo che se è una media cilindrata allora è fine a se stessa, ma se è un suv è “simbolica”? Evidentemente tutto ciò non ha senso. E non solo perchè non è così agevole stabilire dove stia al linea di confine (“aspetta, tira il sampietrino là che è “simbolico”, non qua che sarebbe fine a se stesso”…). La violenza, per gli esseri umani che vivono in un universo linguistico per il quale ogni fatto è un significato, è sempre e comunque simbolica. Lo era quella dei lager nazisti, delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, degli Hutu che con il machete affettavano i Tutzi, dei cetnici che nella ex yugoslavia impalavano i musulmani… Ogni tipo di testimonianza evidenzia che un essere umano non uccide mai “semplicemente” un altro essere umano. L’uccisione è l’atto conclusivo di un percorso che deve produrre un significato sia per chi sta per essere ucciso, sia per tutti quelli che restano e assistono a quell’uccisione. Dunque non ha alcun senso distinguere tra la violenza di chi bruciava e basta e di chi ha bruciato i “simboli del potere”. Sarà consapevole il nostro Anarchico-Antifascista-Militante che la struttura di pensiero sulla quale poggiano le sue parole è la medesima di tutti i massacratori della Storia? Forse è il caso che lo impari.
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La violenza non è tutta uguale, certo. Occorre capire se chi risponde a una violenza su di sè sia da mettere sullo stesso piano di chi la esercita sull’altro. E non è una risposta semplice. Il che implica che la violenza non vada né esaltata, quella buona naturalmente, né condannata a priori come tutta uguale e tutta cattiva. La violenza va guardata dritta negli occhi e interrogata, con disciplina intellettuale e del corpo, e con un un’unica certezza: se non può essere eliminata, occorre almeno evitare di provocarla e se ci si trova in mezzo puntare ad abbassarne la quota il più possibile. Allora se vogliamo ragionare sul maledetto 15 ottobre romano, dobbiamo rivedere filmati e ricordi per cercare quelli, e ci sono stati, che hanno tentato di perseguire questa strada. E imparare da loro.
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Ott 18, 2011 @ 12:56:00
Mamma mia quanto sono ignorante!!! Me ne rendo profondamente e inesorabilmente conto quando “ho a che fare” con persone come lei…
Roberta Lucchetti
P.S. io sono quella che sta aspettando con ansia novembre per la ripubblicazione di “Con occhi di padre”….
Ott 18, 2011 @ 16:42:28
Beh, ignorare non è un difetto. Lo è disinteressassi, e non mi pare il suo caso.
Ott 19, 2011 @ 01:14:30
Igor, il nostro confronto sul tema della violenza (e nonviolenza) risale ormai al dicembre del 2011, quando ci furono gli scontri in piazza a Roma nella manifestazione degli studenti. Un confronto per me ricco, stimolante e generativo. Proseguiamo quindi, seguendo le tesi sulle quali hai scritto.
Prima tesi: aggiungo che la violenza come mezzo è spesso usata come argomento per nascondere il fatto che essa è in realtà spesso fondamento di chi la utilizza. Quando Gandhi dice che tra i mezzi e fini c’è lo stesso rapporto che esiste fra il seme e l’albero, intende non solo che gli strumenti usati influenzano il risultato ma che negli strumenti c’è già la sostanza del fine che si intende perseguire.
E’ una questione etica oltre che politica: etica, perchè chiede ad ognuno l’onesta di assumersi fino in fondo il legame di senso fra ciò che fa e ciò che dichiara di voler perseguire; politica, perchè chiede ad ognuno di riconoscere fino in fondo il legame di efficacia fra ciò che fa e ciò che dichiara di voler perseguire.
Sul tema violenza buona e violenza cattiva e sulla possibilità di discriminare fra di esse, provo a spostare lo sguardo: usare violenza è quasi sempre una scelta, così come decidere di continuare a subirla. Se vedo del buono nel fatto che l’oppresso cerchi di liberarsi con violenza dall’oppressione, il buono non lo vedo nell’uso della violenza ma nel suo desiderio di liberarsi dall’oppressione; quindi io posso riconoscere la giustezza dei fini dell’oppresso ma decidere di non schierarmi a fianco della sua lotta se decide di usare la violenza come strumento della sua lotta. E’ chiaro, quindi, che se entrambi ci riconosciamo facenti parte della schiera degli oppressi non è detto che si debba per forza marciare insieme in una lotta comune: un conflitto nel conflitto, quello che dovrebbe emergere con chiarezza dal dibattito di questi giorni dopo i fatti di roma.
Se è vero come credo che sia vero quello che dici tu, e cioè che l’escalation della violenza è consustanziale ad ogni gesto violento e che, aggiungo io, ciò non è buono, io credo che dovere di ognuno che si trova d’accordo con questa affermazione sia quello di cercare di non usare violenza, vale a dire di non metterla nel conto delle propria strategia di azione. In questo c’è la fondamentale differenza fra chi sceglie la violenza e chi sceglie la nonviolenza: il primo la sceglie senza interrogare il rapporto profondo che ognuno di noi ha con essa, il secondo la evita facendo i conti continuamente con la sua possibilità di usarla.
Seconda tesi: d’accordissimo. E comunque la soluzione l’hanno già trovata per le prossime volte: il primo indisciplinato che verrà beccato a infrangere una vetrina senza che ci sia stato il via libera di chi presidia l’uso della violenza in piazza verrà severamente punito a suon di mazzate. Coerente come posizione.
Terza tesi: d’accordissimo anche qui Igor. Ma come, devo cominciare a preoccuparmi?
Il sistema è violento, su questo non ci piove, e probabilmente lo è ogni sistema sociale-economico-istituzionale e la violenza è il suo cibo: Maroni post roma insegna.
L’altro cibo, a fianco della violenza, è la passività così come la protesta innocua e meramente testimoniale.
Ecco perchè ciò che bisogna imparare a fare, a fronte di un sistema violento che non accenna minimamente a voler diminuire l’intensità della sua violenza, è un doppio no: un primo “no” alla passività e all’inermità, vale a dire togliere il consenso, la propria collaborazione/collusione e un secondo “no” alla subdola trappola della violenza.
Quarta tesi
Anche qui condivido e aggiungo: per poter usare violenza su una persona in modo intenzionale, soprattutto se ciò accade nella sfera del politico, ho bisogno di trasformarla in simbolo; voglio dire che non solo è il gesto violento ad avere una valenza simbolica ma è l’oggetto stesso della mia violenza che diventa simbolo. Tutte le testimonianze dei brigatisti rossi ce lo dicono con estrema chiarezza.
Ciò che uccido non è una persona ma un simbolo, ed è proprio per questo che mi è possibile farlo.
E quindi anche quando sfascio una vetrina di una banca o di una multinazionale o assalto la sede del parlamento non è contro di essi, i loro interessi e il loro potere reale su di me che io mi scateno ma contro il simbolo nel quale li ho trasformati. E, infatti, dopo il potere è più forte di prima.
Cosa imparare da ciò? Che confondere l’oggetto con il simbolo non solo è un madornale errore strategico ma che è anche il sintomo di una patologia psicologica.
I nostri sguardi si avvicinano Igor e ne sono contento, non per il fatto in sè ma per le condizioni che ci stiamo dando di poterli confrontare.
Ma termino con un distinguo e una ulteriore sollecitazione: la tua chiusa finale non mi convince perchè mi sembra che in essa ci siano dei passaggi logici che in realtà rispondono a livelli diversi di ragionamento.
Il primo: la differenza fra la violenza di chi si difende e la violenza di chi attacca, la violenza dell’oppresso dalla violenza dell’oppressore per usare un latro linguaggio: come ho cercato di dire sopra, la differenza è nella qualità delle ragioni delle parti ma non nella qualità della loro violenza (anche qui il gandhi che costretto a scegliere fra l’alternativa secca del (veder) subire violenza e del difendersi usando violenza è per me illuminante)
Il secondo: la violenza esiste e non credo possa essere debellata. Fa parte dell’uomo, delle sue possibilità. Ma ciò non mi impedisce di poterla definire come negativa – come male, se vogliamo usare una terminologia etica – altrimenti non direi, come dici tu, che ciò che devo cercare di fare è di non provocarla o di ridurne la quota se mi trovo a dovermici confrontare, come appunto hanno cercato di fare a roma quei pochi che hanno cercato di interporsi fra le “forze dell’ordine” e quelle del “disordine”.
Guardare in faccia e riconoscere il male che ho di fronte e che c’è dentro di me non deve impedirmi di definirlo tale. Perchè Igor, su questo punto, continui, come mi sembra, lasciare in sospeso il giudizio?
Ott 19, 2011 @ 09:32:24
i fatti, Beppe, ci portano a una convergenza di sguardi, e questo è certamente buono. Condivido i tuoi approfondimenti. Quanto al tuo dubbio e al tuo interrogativo finale, rispondo con una domanda. Che utilità pratica ha partire dall’assunto che la violenza è sempre e solamente “cattiva”‘ A me pare solo il riflesso dell’idea, altrettanto diffusa, che talvolta invece è “buona”, come nel caso delle esecuzioni capitali. La violenza è un fatto. Come dice il maestro Cognard, non è né in me né in te ma in quello che ci succede. Dunque occorre sapere distinguere in modo disciplinato e fine tra le cose che succedono. E farlo in tempo reale. Questo è l’unico modo di difendersi.
Tu continui a sottolineare, e forse sta qui la nostra differenza, la dimensione strategica della non violenza. Io sono più concentrato sui processi di difesa. Che vuol dire ciò che si attiva quando la violenza si scatena e tu ci sei in mezzo. Come a Roma. I ragazzi che si sono seduti per terra con le braccia alzate hanno fatto una scelta ben diversa da quelli che hanno reagito alle cariche delle camionette a suon di sampietrini. Ma tu dirai, appunto, hanno fatto una scelta non violenta. Certo. Ma fossi stato là e mentre me ne stavo seduto a braccia alzate fossi stato caricato dalla polizia non credo mi sarei limitato a prenderle.
Insomma, difendersi è un diritto politico e un dovere etico. Per esercitare il diritto e compiere il proprio dovere occorre disciplina, nel senso di autodisciplina. E in fondo la differenza tra quello che dici tu e quello che dico io è che tu sostieni, con me, che occorre evitare ogni condizione che possa far scatenare la violenza, ma se si scatena tu, mi par di capire, indichi la strada del subire per non aumentarne la quota, io cerco la strada della reazione difensiva fondata su una quota di violenza inferiore a quella ricevuta. Ovvero quel tanto che basta per limitare i miei danni e i danni di quelli che stanno con me, senza l’intenzione di procurarne a chi mi attacca.
Ott 19, 2011 @ 19:59:46
Certo Igor, la violenza è un fatto, la violenza accade, la violenza abita nelle relazioni, la violenza sta dentro le strutture, la violenza sta anche dentro di noi. La violenza non è una qualità dell’uomo, semmai ne è una sua possibilità … a noi tocca il compito di decidere che fare con essa, appunto scegliere. E’ nella scelta che interviene, tra le tante variabili (tempo, spazio, tecnica, stato psico-fisico, l’altro), anche la variabile etica, vale a dire il buono/cattivo di cui stiamo parlando. Quindi la questione è molto complessa ma non eludibile.
La scelta ha a che fare sia con il decidere di provocare violenza o meno sia con il decidere che fare quando la violenza la provocano gli altri.
In questo senso io non riesco a separare la questione dell’attacco (violento/nonviolento) da quella della difesa (violenta/nonviolenta).
In una strategia di azione, in battaglia, nella lotta vi sono entrambe e l’approccio nonviolento (come quello violento) non può non tener conto di tutte e due. Non solo, ma in una strategia ciò che devo assumere è l’esistenza di un legame profondo, di una coerenza strutturale fra le tattiche di attacco e le tattiche di difesa: le une influenzano le altre e viceversa.
Non solo ma le mie scelte, la mia strategia influenza anche quella del mio avversario.
E come tutte le strategie, è evidente, può fallire.
Ecco perchè c’è qualcosa che non torna – in termini di coerenza strategica – nella scelta di fare un blocco nonviolento – ad esempio seduto e con le braccia alzate – per poi sferrare un colpo non appena l’altro decide di darmi una manganellata in testa.
E’ preferibile, è più chiaro per tutti, che nel blocco tu non ti sieda – non almeno al mio fianco, se io ho deciso di non reagire – e che cominci a sferrare colpi fin dall’inizio, possibilmente lontano da me o, addirittura, in un’altra manifestazione
Come evitare/ridurre la violenza dell’altro? E’ il tema dell’escalation della violenza dentro i conflitti. tema delicatissimo e che fa i conti anche con una quota di imprevedibilità legata all’azione dell’altro. Su questo io parto dal principio che in un contesto violento ogni dose di violenza alimenta il contesto stesso, sia nel presente dell’azione che nel suo futuro.
Ott 20, 2011 @ 11:02:55
Caro Beppe, qui si coglie la differenza delle nostre esperienze. Tra subire passivamente i colpi di qualcuno, poliziotto o teppista o altro, e restituire il colpo appena se ne riceve uno, ci sono un mare di gradi intermedi. E’ esattamente questa zona ampia di consapevolezza corporea che esploro con la difesa Relazionale. Le strategie vanno poi concretizzate in gesti consapevoli che non possono solo essere immaginati sulla carta, vanno provati nel corpo e sulla pelle. Certo è che una linea di sviluppo che non ho ancora attivato nell’esplorazione delle strategie di difesa Relazionale é proprio quella della difesa nelle situazioni di piazza. Ci lavorerò e mi piacerebbe coinvolgerti, che ne dici?
Ott 19, 2011 @ 11:25:39
Ott 20, 2011 @ 22:50:23
Ciao Igor, come vedi mi sono preso del tempo per risponderti. Il tempo, abbiamo imparato nell’Educazione, è un elemento fondamentale per comprendere, condividere e trasformare. E allora ho riletto più volte il tuo post e devo dirti con tutta sincerità che ho fatto fatica a comprenderne il significato o meglio sarebbe a dire le ragioni. Ho compreso e condiviso invece la dimensione emotiva, la passione che ha accompagnato quello scritto. Ma ho sentito anche molta rabbia e forse per questo ho avuto bisogno di prendermi del tempo. Perchè come sai meglio di me, la rabbia non produce dialogo ma induce allo scontro e io avevo voglia di dialogare con te e non di confliggere. Quello che confliggeva era il differente punto di vista da cui osservavamo lo stesso fenomeno; il mio prevalentemente pedagogico il tuo prevalentemente politico. Infatti il tuo “imparare dalla violenza” sembrava di più un trattato politico che un contributo alla riflessione pedagogica, in particolare nello stile; tu usi la tecnica della confutazione delle teorie, che è una tipologia propria del pensiero filosofico-politico. Di solito si confutano delle teorie per affermarne altre, ma la tua teoria di fondo è volta a dimostrare la dabbenaggine dell’autore di quel testo e di tutti coloro che in quel testo si riconoscono. Che bisogno c’era?
Solo nella parte conclusiva del tuo contributo ho ritrovato parole e stili in cui potermi ri-conoscere. Giustamente affermi che la violenza non è tutta uguale e che va guardata dritta negli occhi. Bella questa immagine e allora ho provato a guardarla ed ho trovato tante violenze: la violenza fisica, quella psicologica, la violenza pubblica e quella privata, la violenza sulle donne e quella sui bambini, la violenza della guerra e quella necessaria per raggiungere la pace, la violenza religiosa e quella politica, la violenza negli stadi e quella sulla strada, la violenza di genere e quella tribale, la violenza nei comportamenti, nelle relazioni, nelle parole e nei pensieri…….. Mi sono accorto che la violenza fa parte del nostro quotidiano tanto quanto del nostro Essere Umani e quindi appartiene a ciascun individuo, noi compresi. In questo senso è stato significativo leggere un post di un giovane che criticando chi aveva sfasciato le vetrine diceva che la prossima volta avrebbe inflitto una coltellata nel costato a chi lo avrebbe fermato nell’aggredire gli aggressori. A proposito di Imparare dalla Violenza!
Tutto questo per dire che nessuno può dirsi non violento e nessuno può tacciare l’altro di violento senza riconoscere nell’altro una parte di sé. In quella parte che si è espressa il 15 ottobre riconosco una parte di me che è anche un’appartenenza. E’ quella parte di me che ha un grande bisogno di cambiamento. In questa parte c’è una piccola parte di me che esprime questo desiderio in modo irrazionale, infantile adolescenziale. Me la riconosco e la riconosco come un limite al mio sviluppo. Sento tuttavia che non posso dissociarmi da questa mia parte, non farebbe bene al mio sviluppo, sarebbe come incompleto, precario, effimero, illusorio. Del resto sono più di 40 anni che cerchiamo di dissociarci da questa parte, da Valle Giulia e forse ancor prima, dal luglio ’60 o addirittura dalla Volante Rossa. Con quale risultato? Che questo “corpo dissociato” ha prodotto mostri e fantasmi che ancora oggi invadono i nostri sogni e aleggiano nelle nostre dimore. Credo sia giunto il momento di porre sull’agenda, almeno sulla nostra agenda di educatori, pedagogisti, sociologi, psicologi, antropologi etc etc. il tema della ricomposizione, dell’integrazione di questo “corpo”. Come fare è l’ipotesi da costruire, il metodo da inventare, il linguaggio da scoprire. Non ci sono soluzioni preconfezionate né tanto meno facili, del resto il tema è tanto complesso quanto ricco di implicazioni di vario tipo. Consentimi di concludere con questo racconto che vorrebbe avere un valore evocativo, nell’orientare questa ricerca. E’ un racconto preso in prestito dalla filosofia orientale che tanto influenza quelle arti marziali che appassionano e stimolano nella “ricerca” sia me che te.
Un giorno un giovane Samurai bellicoso e strafottente sfidò un maestro Zen chiedendogli di spiegargli il concetto di bene e di male. Il maestro Zen replicò con disprezzo “Non sei che un rozzo villano, non posso perdere il mio tempo con gente come te”. Il Samurai offeso nel suo onore si infuriò e sguainata la spada gli urlò “Potrei ucciderti per la tua impertinenza”. Il maestro con grande calma rispose “Ecco, questo è il male”. Il Samurai riconoscendo che il maestro diceva la verità sulla collera che lo aveva invaso, rimase colpito, si calmò e messa via la spada si inchinò ringraziando il monaco per la lezione. “Ecco” disse il maestro “questo è il bene”. Con affetto e grande rispetto ti saluto. Demetrio
Ott 22, 2011 @ 13:00:00
Mi piace e mi inserisco di nuovo per aggiungere altri pensieri, spero per procedere nel confronto e non solo per confutare teorie altrui.
Rabbia-conflitto
Io credo che ciò di cui soffriamo maggiormente è l’abbinamento “rabbia-impotenza” e il suo esito di passività e di violenza introiettata. Credo che il passaggio che dobbiamo imparare è passare al binomio “rabbia-assertività”. In questo passaggio c’è tutta la questione del rapporto fra violenza e nonviolenza. Per me, quindi, due passaggi su cui lavorare, dalla passività all’assertività e dalla violenza alla nonviolenza.
Dissociare-trasformare
Conviviamo con la violenza, nostra e degli altri, delle strutture nelle quali viviamo. La violenza va guardata in faccia, sono d’accordo. Dissociarsi da essa non risolve il problema. E’ come dissociarsi da una parte di sè. La questione, credo, e per quello che ho imparato fino ad ora è ciò che cerca di fare chi “fa esperimenti con la nonviolenza”, sta nel passaggio dalla dissociazione dalla violenza alla sua trasformazione in riconoscimento dell’altro. Anche quando mi è nemico.
Cambiamento-lotta
In un conflitto non c’è cambiamento senza lotta. La nonviolenza – ma non fa lo stesso anche l’educazione? – si muove su un paradosso: provocare il cambiamento costruendo un’alleanza con chi il cambiamento non lo vuole. E’ una lotta che a bisogno dell’altro per poter essere condotta e non della sua eliminazione. Qualcuno dice “duri con l’obiettivo, morbidi con le persone”, qualcun altro dice ancora “quando il duro si fa gioco, i giochi cominciano a durare”. Insomma, “confliggere cooperando”. Non è una bella sfida?
Ott 20, 2011 @ 23:57:47
volentieri igor
Nov 18, 2011 @ 22:38:29
[…]Camminavamo, cambiando più spesso i paesi delle scarpe,
attraverso le guerre delle classi, disperati
quando c’era solo ingiustizia e nessuna rivolta.
Eppure sappiamo:
anche l’odio verso la bassezza
distorce i tratti del viso.
Anche l’ira per le ingiustizie
rende la voce rauca. Ah, noi
che volevamo preparare il terreno per la gentilezza
noi non potevamo essere gentili.
Ma voi, quando sarà venuto il momento
in cui l’uomo è amico dell’uomo
ricordate noi
Con indulgenza.”
B.Brecht
Massimo