di Irene Auletta
Mi ha sempre affascinato la bella immagine utilizzata dal sociologo canadese Erving Goffman quando afferma che “la vita sociale si divide in palcoscenico (front region) e in retroscena (back region): quando siamo sul palcoscenico dobbiamo fare una performance, in queste situazioni tendiamo ad osservare certe regole e mostriamo un nostro lato diverso”.
Ecco, intendo proprio questo quando parlo di abiti e di ruoli.
Qualche giorno fa ho avuto un bel confronto con Martina Zardini a proposito del mio ultimo post e qualcosa potete leggerlo nei commenti che si siamo scambiate quel giorno stesso. Ciò che scrivevo lì rispetto alla percezione di trasparenza del mio ruolo di madre, in quella peculiare circostanza, non avrei mai potuto neppure pensarlo se la medesima scena si fosse svolta sul palcoscenico professionale che attraverso ogni giorno, incontrando operatori socioeducativi e genitori.
Ne parlavo proprio di recente in un seminario di formazione e, dopo molti anni, alcuni interrogativi ritornano ancora puntualmente. Ma per accogliere maggiormente l’altro che è in difficoltà non dovremmo per un po’ toglierci quell’abito professionale? Possiamo essere veramente empatici e accoglienti con il ruolo che ci divide? Se ho fatto tale scelta professione è perché sono questa persona, come faccio a lasciarla fuori dall’incontro di lavoro?
Gli equivoci che si accavallano e affastellano, in relazione a tali tematiche, sono sempre un’importante occasione formativa e non raramente le teorie di Goffman mi vengono in aiuto, soprattutto in questo momento storico caratterizzato da parecchia confusione rispetto a luoghi e confini, ruoli e relazioni, pubblico e privato. Lo smarrimento del senso del limite che oggi mi pare raggiunga forte bambini e ragazzi durante la loro crescita, passa inevitabilmente attraverso quella parte del mondo adulto che oggi osservo, sempre più spesso, in equilibrio precario nel mare in burrasca delle relazioni e della vita stessa.
In un contesto professionale mi pare più che pertinente accogliere le domande e i bisogni altrui in quel nostro incontro orientato proprio da tali richieste ed esigenze. Se lo stesso però accade anche e non occasionalmente, con colleghi a volte quasi sconosciuti e in merito a loro vicende personali, non posso fare a meno di chiedermi cosa ha prodotto la fragilità e l’indebolimento di importanti confini relazionali per me, per l’altro e per il nostro incontro.
Ma la smetti di parlare solo di africani?! Lo racconta un educatore nel corso del seminario, restituendo che anche i suoi amici non ne possono più di sentirlo parlare sempre e solo del suo lavoro e dei suoi problemi nel centro di accoglienza dove opera da diversi anni. Non è facile, è vero.
Noi che facciamo questo lavoro però abbiamo un’importante occasione in più per riprenderci in mano, nella professione e nella vita, il valore del contenimento, del rispetto dei luoghi e della pertinenza dei significati, della preziosità degli spazi di incontro e di quell’ascolto che può essere anche una musica leggera e non sempre un rock urlato nei timpani. Forse, anche questa può essere una possibilità per non rendere l’altro trasparente.
Potremo così riconoscere e condividere che non sempre la travolgente urgenza di dire ha il valore di comunicare e di incontrare gli altri. Come direbbe Angela, la mia insegnante Feldenkrais, mettiamoci comodi nel corpo e nelle relazioni e, senza fretta, prendiamoci tutto il tempo necessario.
Vuoi dire che vedremmo orizzonti nuovi riscoprendo che l’altro esiste veramente?
Luigina Marone
Feb 11, 2017 @ 12:01:13
Incredibile!!
Mi colpisce particolarmente questo tuo racconto, mentre si snocciola e nel cuore della parte finale, in quella domanda, che fa intuire modi di stare in relazione con il mondo e con la vita.
Credo che se abbiamo il coraggio di vedere come stanno fino in fondo le cose e sopratutto di aspettare….proprio che questo permetterà di volta in volta di cogliere aspetti nuovi della relazione, amicale, e sopratutto renderci conto se l’altro c’è.
Un cammino per certi versi affascinante….parla di solitudini profonde che si impara a sostenere….
irenecronache
Feb 11, 2017 @ 12:34:48
Per ciò che riguarda alcune storie personali, hai proprio colto nel senso Luigina…. “solitudini profonde” che impariamo ad incontrare e sostenere
Luigina Marone
Feb 11, 2017 @ 12:57:17
Le riflessioni sugli aspetti professionale Irene, nell’abito e nel vestire il ruolo, mi stanno ancora accompagnando ed è’ una ricerca continua. Anche in questi giorni sto pensando alcune cose nell’incontro con alcuni genitori.
Credo di averlo potuto cogliere da vicino e in modo chiaro in questi anni di sperimentazioni professionali, nel vedertelo agire.
Ed è talmente chiara per te la differenza che riesci a gestire sia la parte professionale che quella amicale, quando la vita porta davvero alla possibilità di un incontro con i due abiti, permettendo ad essi di fondersi e di non confondersi… Che come ben sai, è assai difficile
irenecronache
Feb 11, 2017 @ 13:03:26
Ricerche Luigina … e tante attraversate ieri e oggi insieme! 🌺😊
Martina Zardini
Feb 11, 2017 @ 14:01:16
Una miriade di riflessioni mi vengono in mente mentre ti leggo
partiamo da quella che mi scaturisce da questa frase
… quando siamo sul palcoscenico dobbiamo fare una performance, in queste situazioni tendiamo ad osservare certe regole e mostriamo un nostro lato diverso…
A proposito di questo mi viene in mente una altro grande padre della sociologia, Weber, che parlò di prestazione o vocazione. La prima è e rimane strumentale alla professione, la seconda sottende qualcosa di più: la passione e il coinvolgimento, la “chiamata”, qualcosa che non si può non fare. Un munus non un donum…
Poi penso che tanto di quello che facciamo tendiamo a dividerlo in categorie (da buoni discendenti dei greci). Ma deve per forza essere così? Trovo che noi tutti, anche quando rivestiamo un ruolo, mettiamo in scena la sommatoria di noi stessi… tutto questo è molto poco greco ed è molto giudaico (culturalmente parlando). Se non fosse così saremo degli schizofrenici. E forse per quello quell’educatore che citi continua a parlare dei “suoi rifugiati africani” anche con i suoi amici. Lui è quello normale, che rischia il burnout ma che non si distanza.
“Il distacco è necessario per non rimanere travolti”, recita la giusta comprensione del termine empatia, ma la nostra “vocazione” deve essere quella del maestro “Rabbi” che dona il suo sapere e la sua vita e porta il suo allievo “discepolo” alle soglie della sua mente. Come fece Gesù con i discepoli di Emmaus (senza farsi scoprire) … incontrando gli altri e non travolgendoli…
Trovo illuminante uno scritto che fa parte di un libro di un mio docente Michele Colafato, dal titolo Maestri, leadership spirituali: vie, modelli, metodi nelle pagg. 45,46 c’è un racconto chassidico stupendo. ecco il link per leggerlo dal web https://books.google.it/books?id=l2_xfrINpFgC&pg=PA46&dq=maestro+si+fa+pollo&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiioo35iYjSAhUBHxoKHePpCQMQ6AEIJTAA#v=onepage&q=maestro%20si%20fa%20pollo&f=false
Scusa se sono stata prolissa ma tu mi ispiri
tvb
irenecronache
Feb 11, 2017 @ 14:26:06
Condivido Martina e infatti il bello dei confini dal mio punto di vista è proprio il loro attraversamento. L’apprendimento continuo che passa da una esperienza all’altra e la bellezza di essere in connessione tra le nostre parti/ruoli.
Quello che mi ha spinto a scriverne è la sensazione di una forte invadenza non tanto di una parte specifica ma dell’urgenza di mettere sempre e tanto in primo piano la propria esigenza e i propri bisogni.
Scrivendo ci si chiarisce le idee anche nel confronto con i feed back altrui … grazie e alla prossima! ☺
irenecronache
Feb 11, 2017 @ 14:37:54
Ps. Quello che ho colto dalla dichiarazione dell’educatore Martina non è tanto il suo non mettere muri tra le esperienze ma invadere gli spazi altrui con le proprie urgenze rischiando di far sparire o “soffocare” gli altri incontri e/o le altre relazioni. Io ogni tanto, in alcuni incontri, questo rischio lo sento con la deriva possibile di percepirmi più cestino dei rifiuti che parte attiva di uno scambio
Martina Zardini
Feb 11, 2017 @ 15:03:30
quello che hai detto nel Ps. è un aspetto importante. Molto vero, un pericoloso atteggiamento, così come la deriva da “cestino” … Dovremo provare a metterci “comodi nel corpo e nelle relazioni e, senza fretta …” come dici tu. Aspettare gli altri e “incontrarli” con calma. Grazie ancora.