di Irene Auletta
Vi verrebbe mai in mente di salutare una ragazza di quattordici anni facendole una carezza sulla testa, quando lei neppure se lo aspetta
Vi siete mai ritrovati a parlare con adulti o ragazzi estranei utilizzando il tono in falsetto che sovente si utilizza con i bambini piccoli o nelle private relazioni d’amore?
Non ho bisogno di interrogare oltre la faccenda o di essere esperta di qualche magia per immaginare che dall’altra parte del vostro incontro ci potrebbe essere, con molta probabilità, un ragazzino disabile o un adulto con difficoltà, facilmente un anziano colpito nelle sue principali funzioni cognitive o comunicative.
Ogni volta che incontriamo la differenza, e quelle di questo tipo in particolar modo, abbiamo in genere, come minimo, due possibilità.
Cogliere l’occasione per imparare qualcosa di noi stessi, del nostro personale disagio e del nostro impaccio. Riconoscere la difficoltà ad incontrare il diverso da sè, per andare oltre le banalizzazione e i luoghi comuni che circondano l’idea di accettazione.
Oppure, possiamo rimanere di pietra, facendoci scivolare addosso l’incontro e attribuendo all’altro qualsiasi problema.
Ecco, così di certo, abbiamo perso una grande occasione per tacere, per stare fermi, per ascoltare e per dimostrare il nostro dichiarato valore.
Peccato.
Ott 27, 2011 @ 10:16:14
Grazie Irene …hai reso profondamente l’idea!
Il disagio è in agguato anche quando il disabile oppure l’anziano lo conosci bene. Quindi ci vuole proprio volontà e coraggio per prendersi la propria parte di responsabilità nell’incontro con loro…..e chissà che si riesca a prendere qualche volta questo treno.
Ott 27, 2011 @ 13:16:19
Tacere ed ammettere che non ci sono parole e col silenzio provare a davere ri-guardo.
Ott 28, 2011 @ 11:46:04
Ho accompagnato alla morte la mia nonna mamma che ci ha lasciati domenica sera.. l’abbiamo accompagnata tutti noi familiari in un lungo e intensissimo viaggio di conoscenza e di re-incontro, tra noi, e di incontro con la morte, la signora misteriosa che, mentre si personificava e si faceva sempre piu densa, decideva anche il ritmo della sua danza. Incontro con la nostra grande mamma, che cambiava davanti a noi minuto dopo minuto assumendo quella forma nuova dentro i nostri occhi e giù nel profondo. Ogni santo giorno, come abbiamo potuto e saputo – tante teste, tanti cuori – abbiamo imparato un passo nuovo per provare ad esserci, a farci PRESENTI, per la nonna, per noi stessi e per il senso di quel nostro stare insieme. Li abbiamo incontrati i luoghi comuni, è vero, l’accettazione irrompe con un ritmo strano, gioca a nascondino tra l’esistere e il non esistere, un momento ti senti rabbiosa, quello dopo senti lo scorrere naturale della vita che ad un certo punto muore. E’ questo ritmo discontinuo che mi ha insegnato a fare quello che non avrei immaginato di saper fare, a guardare il presente per quello che era, a sentire la forza di un gruppo di figli e di affetti che FACEVA quel passaggio in estrema presenza tra smarrimento, paura e forza, mentre nel contempo inevitabilmente lo subiva. Da questa polarizzazione tra il non sapere cosa fare ma anche il saperlo nasce una potenza nuova, un nuovo insegnamento per me. Oggi leggo il tuo post Irene e grazie perchè per me è un luogo in cui posso dire e raccontare una sintonia, anche se per motivi diversi, con ciò che la vita ci chiama a fare