Un padre. Ancora un padre. Mi ci è voluto qualche giorno per riuscire a pensare qualche parola sulla vicenda di Barga. Dov’è Barga? Provincia di Lucca. Ma che importa, potrebbe essere successo ovunque, non è il luogo che conta. Che conta allora? Padri che uccidono figli, e viceversa, è storia di sempre, dov’è la notizia? Perchè Barga, tutte le Barga del mondo, risuonano in me in modo diverso? Sì, il figlio disabile, ma non è questo il punto. Di padri che non riescono ad accettare i propri figli ce n’è da vendere. Di questi, molti scappano, altri restano nel loro inferno senza riuscire né a muoversi né a cambiare, alcuni uccidono. Tre destini che non mi riguardano. Barga però mi angoscia, dunque il problema è un altro.

Da qualche parte l’ho chiamata “pressione di cura”. La pressione, si sa, superato un certo limite di soglia, schiaccia. A Barga, in tutte le Barga del mondo, c’era un padre che aveva accettato suo figlio, chiederò la radiazione dall’Albo per il primo pseudopsicologo che mettesse in dubbio questa evidenza. L’aveva accettato, occupandosene per decenni. “Occuparsene”, bella parola. Del resto cosa dovrebbe fare un padre se non occuparsi dei propri figli per decenni? Appena scollinate le cure materne, quelle che nei primi anni i padri assumono con variegato gusto sapendo in ogni caso trattarsi di “occupazioni” assenti nel proprio Dna culturale, si affacciano all’orizzonte i compiti attesi e temuti. Quelli che dal primo triciclo sin oltre la laurea, cambiano rapidamente inseguendo le fasi della vita che i figli attraversano di corsa. Dunque un padre può continuare a occuparsi dei propri figli anche in tarda età, quando mette mano ai propri risparmi per aiutarli a metter su casa o a tirar su nipoti. Un padre. Non il padre di Barga, di tutte le Barga del mondo.

E’ dura imboccare un figlio o una figlia per molti mesi, cambiare pannolini per due o tre anni, attenderne le autonomie per poter fare le cose assieme. A Barga gli anni sono diventati 39. Che per quel padre non erano solo quelli del figlio, ma gli anni da sommare all’età che aveva quando è nato. Significa un’infinita stanchezza. Significa il sovvertimento dell’ordine naturale delle cose, delle attese di una vecchiaia magari di solitudine, ma di riposo, di liberazione dall’ordine della necessità. In tutte le Barga del mondo, quei padri che non sono scappati, che non sono neppure rimasti a far tappezzeria, hanno faticosamente trovato dentro di sè ciò che non c’era, per adattarsi a compiere gesti sempre uguali, giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio dopo decennio. Ogni volta più pesanti.

Certo, lo Stato assente, i tagli alla spesa pubblica, il welfare fatto a pezzi, le famiglie lasciate sole. Ma questo vale per mille altri problemi e non mi piace pensare che Barga possa essere assimilata ai mille altri problemi dell’assistenza rarefatta, della solidarietà smarrita, dei diritti negati. A Barga si è consumata una mostruosità che non è l’uccisione del figlio per mano del padre: sono i 39 anni di accudimento inesausto spacciati per normali sino a quando, per non esserlo più, finiscono in tragedia. Non c’è nulla di normale nelle pratiche di cura infinite e senza prospettive, sono un’invenzione della contemporaneità che il mondo umano non ha mai conosciuto e per le quali noi padri umani non siamo attrezzati. Io non mi incazzo pensando d’esser lasciato solo a occuparmi di un mio problema. Mi incazzo al pensiero d’esser lasciato solo a occuparmi di un problema che è del mondo intero, come se fosse solo mio.
Non riesco nemmeno a immaginare di far del male a mia figlia, del resto non riesco neppure a immaginare cosa sarò, se sarò, quando lei avrà 39 anni. Quel che so è che quando un padre si occupa di una tale impossibilità antropologica, se ne sta occupando per conto di una società che prima l’ha creata e poi scaricata sulle spalle di chi se l’è trovata fra le mani. Ed è questo che vorrei veder riconosciuto. Per Barga e per tutte le Barga del mondo.