di Alice Tentori

Classe, prima elementare. A. si sdraia sul banco del suo compagno il quale gli dice: “Spostati A., non vedo.” Lui, non si muove di un millimetro. “A., non capisco cosa chiede la maestra, cosa devo fare, ti puoi spostare per piacere?”, continua il suo amico. Ovviamente A. non solo lo ignora ma continua a dargli fastidio alitandogli in faccia.

L’educatore a quel punto si avvicina, inginocchiandosi di fianco al banco e dice: “Sai Al, il tuo amico ti ha chiesto se per piacere puoi spostarti perché vuole ascoltare la lezione; dovresti ascoltarlo, altrimenti potrebbe darsi che, come conseguenza, lui non voglia più giocare con te durante l’intervallo e non fare quello che tu gli chiedi.”

A. si gira verso l’educatore, gonfia il petto e urla: “Argggggg, questo lo dici tu non lui!”, sputandogli in faccia. Egli (sempre nella stessa posizione) continua dicendo: “Hai ragione, infatti non ho detto che succederà sicuramente ma che potrebbe succedere perché come tu non ascolti lui, lui potrebbe non ascoltare te.”A. tira una sberla all’educatore, scende dal banco, gira intorno al lui, gli afferra i capelli e inizia a tirare. Istintivamente l’educatore cerca di allontanarsi ma subito dopo segue la traiettoria e il gesto del bambino accompagnando quest’azione con queste parole: “Sapete bambini, questo weekend sono stata ad un corso di difesa relazionale e ho imparato che quando vengono tirati i capelli non si deve mai allontanarsi, ma anzi, avvicinarsi a chi tira di modo da non sentire male.” A., poiché non ha più nulla da tirare lascia la presa, tenendo sempre la mano chiusa. L’educatore lo guarda e dice: “Guarda la tua mano, prova ad aprirla, vedi che non ci sono miei capelli?” (il tono è quello di uno che spiega e non irrisorio). Il bambino compie il gesto, appura quanto detto, conclude con due calci “volanti” che non sfiorano l’educatore, si gira verso la libreria e la raggiunge, mettendosi a scegliere un libro. L’educatore si alza, ed esce dalla classe.

Fuori dalla classe, in bagno, ho sfogato la tensione piangendo. E’ stato veramente veramente veramente (tre rafforzativi) difficile riuscire a rimanere in quella situazione tentando di abbassare la sua soglia di pericolosità. Difficile perché il mio corpo diceva: Vattene o Bloccalo. Difficile perché intorno a noi c’era 23 bambini che guardavano fermi immobili e con i miei gesti avrei potuto incrementare la violenza di A. e lui avrebbe potuto prendersela anche con loro. Molto più sicuro sarebbe stato prenderlo e portarlo fuori dalla classe invece che rimanere lì in relazione con lui in una posizione non minacciosa (per tutto il tempo sono sempre rimasta accucciata) e parlargli con voce più o meno salda e sicura. Adesso, rileggermi mentre lui mi tira i capelli e io che gli spiego che cosa sto facendo (a lui a e tutti) e il perché lo sto facendo come se stessimo mettendo in campo una “simulazione” guidata, mi fa sentire ridicola. Tuttavia, in quel momento, avevo bisogno di accompagnare il mio gesto con la parola, come se essa mi aiutasse ad affrontare quell’attacco e a placarlo. Non so.

Non so bene perché ho pianto, di certo non per un dolore fisico e per un affronto sentito a livello personale o professionale. Io credo che avessi bisogno di sfogare la tensione perché è stata un momento denso: denso di corpi, denso di gesti più o meno violenti, denso di imprevedibilità e di rischio. Ci ho messo del tempo a riprendermi e a tornare in classe. Fortuna che è suonato l’intervallo, il quale ha permesso ad entrambi di fare un po’ i conti di quanto è successo e di riprende poi il normale svolgimento della lezione.

A., finito l’intervallo è rientrato in classe si è seduto sulla sedia insieme ad un suo compagno (“costringendolo” a condividere la sedia) ma ha lavorato insieme a tutta la classe sulle schede date dalla mastra (un evento per noi). Io facilitavo un po’ questo lavoro, proponendo ad esempio di fare una gara su chi finisce prima e mettendo bene in chiaro che chi perdeva non doveva arrabbiarsi e A. ha aggiunto: “Mettiamo in palio che, se vinci tu decidi se io me ne devo tornare al mio posto oppure se posso rimanere qui.”

Mi piace pensare che, questa sua scelta del “premio” fosse per provare a dire all’altro: “Se vuoi, puoi dirmi di andarmene.” Ma poi, chissà.