charlie-hebdo
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Sei in giro per la strada. Magari su una bici, di servizio perché sei un poliziotto di quartiere. Ti imbatti in due criminali feroci armati di Kalashnikov che prima ti feriscono e poi ti freddano. Che fai? Muori.
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Sei in riunione con i tuoi colleghi di una vita. Stai per definire la strategia per la prossima settimana. Due criminali feroci armati di Kalashnikov prima sparano bucando la porta, poi entrano, ammazzano il poliziotto presente per proteggerti, poi falciano una decina di persone, senza alcuna pietà. Che fai? Muori.
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Lo stesso ti accade se sei un ragazzo in vacanza su un’isola vicino a Oslo, Norvegia, uno studente di una scuola superiore a Columbine, Denver, Colorado, un giornalista rapito in medioriente, alla mercè di assassini armati di mitra o di coltellacci da macellaio: muori.
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Che senso ha parlare ancora di difesa? davvero, in questi giorni surreali di immagini televisive che ti si piantano nel cranio e nella pelle, che senso ha? Come ci si potrà mai difendere da una spietatezza, una determinazione, una freddezza assassina di quella portata? Non ci si difende, non ci si può difendere. Si può solo sperare di non soccombere, di scamparla in qualche modo. E di venirne fuori il meno peggio possibile. O di morire in fretta.
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Ci si poteva preparare forse?  e come? girando a nostra volta con un mitra in spalla? un mitra appresso prendendo il caffè o sfogliando un giornale? oppure blindando ogni ufficio, ogni locale, ogni casa circondandoli di filo spinato e casematte? e a che pro? un attacco di sorpresa è sempre un attacco di sorpresa. Anche se hai in mano un cannone. Al massimo puoi sperare di vendere cara la pelle. Nulla più. Ma questo non è difendersi, è morire con le armi in pugno.
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I fatti di Parigi sembrano recitare il requiem per ogni velleità di difesa individuale. Ci sbattono in faccia la condizione di esseri inermi, esposti alla follia di chiunque. Dunque, che si fa, ci si arrende? oppure ci si arma diventando simili agli assassini dai quali vogliamo difenderci? Non credo.
E’ proprio in questi momenti che sapersi difendere diventa un imperativo etico.
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Anche di fronte al mattatoio di Utoya, mi ero posto questa domanda. L’avevo lasciata in sospeso in un post che poi non ho pubblicato. E’ ora di provarci.
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Dobbiamo innanzitutto combattere la nostra paura. Che è il vero nemico e ce lo portiamo appresso, sempre. La paura uccide la nostra vitalità molto prima di toglierci la vita. Di fronte ai pericoli più bastardi, impensabili e insostenibili, occorre coltivare il coraggio di vivere una vita normale, quotidiana, mediamente sicura, anche se potrebbe essere squarciata dal piombo o da un filo di lama. Le probabilità di essere massacrati da un pazzo con un mitra sono una su un milione, anche i pericoli più “normali” come essere rapinati, malmenati per strada, stuprati in un vicolo, sono una su centomila. Difendersi dal rischio di vivere nel terrore, non è già un buon motivo per imparare a difendersi?
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La paura è una sensazione, dunque è un fatto corporeo. Combatterla, significa disciplinare il proprio corpo, mantenerlo reattivo, acuirne la sensibilità ambientale, padroneggiarne il movimento. Si difende l’incolumità del corpo, ma è con il corpo che ci si può difendere. Anche quando si tratti di scappare o nascondersi, strategia difensiva sempre possibile e talvolta l’unica disponibile. Ma bisogna saperlo fare, dunque e possibile imparare a farlo.
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Ascoltare il proprio corpo mette a contatto con la nostra vulnerabilità. Siamo vulnerabili, dunque possiamo subire un danno, in qualsiasi momento, per incidente o volontà. Ma non siamo necessariamente fragili. Non è detto che un danno, un qualsiasi danno, ci mandi in frantumi. Anzi: un danno che non ci fa a pezzi, è manifestazione della nostra forza e della nostra resistenza e coltivare forza e resistenza, alza la nostra soglia di tolleranza al rischio, facendoci sentire più sicuri e meno esposti ai pericoli.
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In che modo tutto questo ci difende dalle pallottole dei pazzi criminali armati di Kalashnikov? in nessun modo. Ma ci può difendere dal terrore che quei pazzi criminali vogliono imprimerci nella mente e nel cuore. Perché le vittime dei terroristi non sono solo quelle uccise nell’azione terroristica, siamo tutti noi. E difendersi significa non soccombere, non farci pietrificare dalla paura, non sviluppare paranoie, fobie, isterie nei confronti dell’Altro come fonte di pericolo da evitare, allontanare e, prima o poi, annientare. Perché questo è il loro vero obiettivo. E per farlo dobbiamo riappropriarci del nostro corpo e della sua possibilità di proteggersi e proteggere, rispettando la vulnerabilità altrui.
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Ecco perché i fatti di Parigi mi convincono, contro ogni apparente logica e ogni criterio di efficacia, che sapersi difendere è un imperativo etico
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