Essenze

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Dalle-profondità-del-Mediterraneo-l-organismo-più-antico-della-Terra-638x425di Irene Auletta

Bellissima lezione quella di ieri sera al gruppo Feldenkrais. L’insegnante ci presenta il lavoro annunciandoci un’esplorazione alla ricerca delle sensazioni legate alla coscienza dello scheletro. Mi sembra un enunciato assai interessante e siccome arrivo all’incontro molto stanca già mi pregusto il piacere della nuova scoperta, assaporandomi questa pausa preziosa che mi regalo una volta alla settimana.

Oggi mi ritorna spesso in mente, nelle parole e nelle sensazioni provate. E riemerge proprio in quel preciso momento lì.

Incontro tanti genitori con figli disabili, sto dicendo ad una madre, e molto spesso sento tanta rabbia nelle loro parole. La signora, madre di un figlio disabile adulto, da anni impegnata in progetti sociali e culturali sul tema, mi guarda dritto negli occhi. La mia non è rabbia, e’ disprezzo!

Sembra stupita quando le restituisco che si vede, perché la mimica e il tono della sua voce mi arrivano allo scheletro, intrecciandosi con le parole di Angela, la nostra insegnante Feldenkrais. Sentire lo scheletro parla di un ascolto molto profondo e delicato, perché parla del contatto con la propria essenza.

Mentre la nostra conversazione prosegue, dico qualcosa che evidentemente il mio interlocutore non gradisce o non condivide, interpretando forse in modo non corretto una mia dichiarazione di dispiacere. Io continuo così come genitore, dice sempre la signora con una punta di stizza, tu prosegui pure a fare il formatore!

Eppure, lei è la stessa persona che un paio di settimane fa ci ha tenuto a dirmi che aveva saputo che ero la “moglie di”, facendo ben comprendere quindi di sapere anche che sono la “mamma di”. E allora cosa e’ successo? Incontrandomi nei panni di un operatore mi ha trasformata immediatamente in qualcuno verso cui andare contro? Qualcuno che di sicuro non può capire?

Mi torna in aiuto l’ascolto dello scheletro di ieri sera, quel contatto con un se’ troppe volte trascurato e travolto dalle contingenze di un frenetico quotidiano. So bene quanta rabbia si incontra come genitore di un figlio disabile o malato e ogni volta mi ricordo che è l’altra faccia di quel dolore, che ogni giorno si cerca di far maturare, in una ricerca di significati che aiuti a non soffocare nella malinconia.

Stasera, mentre ti sono sdraiata vicino, giochiamo a sentirci lo scheletro e tu, forse direbbe Angela, da sempre anche tua insegnante, sei più brava di me a farlo anche se non puoi raccontarmelo. Io ci provo e mi auguro di incontrarlo senza rabbia e tantomeno disprezzo.

Lo spero non per salvaguardare gli altri o fingermi la buonista che non sono, ma per me e per te.

Lo spero per curare le nostre essenze, nutrirle di bellezza e proteggerle, al di la’ di quello che gli altri riescono a fare, con il calore dei nostri incontri che mi auguro non smetteremo mai di cercare.

Affilare incontri

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affilare parole di Irene Auletta

Un signore che ci conosce da anni e che ogni tanto incrociamo sulla nostra via, non perde mai l’occasione per salutarci e salutarti tentando con goffi gesti piccole gentilezze che raramente sembrano raggiungerti nel tuo mondo di significati.

Tuttavia, proprio grazie ai suoi aspetti più positivi, stona come il gesso sulla lavagna quel tono urlato che utilizza sempre per rivolgersi a te ignaro del mio parlarti a voce bassa. Sempre più bassa per contrasto e nella speranza che comprenda.

Grande classico quello di parlare ad alta voce rivolgendosi ad un disabile oppure ad un anziano. Vuoi dire che il pensiero latente dominante immagina un inspiegabile collegamento tra difficoltà, limiti e sviluppo dei sensi? Bizzarrie degli stereotipi o dei luoghi comuni.

Qualche tempo fa, in un ristorante, una signora accoglie le nostre ordinazioni dimostrandosi molto attenta a tutte le nostre complesse indicazioni alimentari. Dopo averti chiesto per tre volte il tuo nome rispondo al tuo posto e già la guardo con sospetto per il tono insieme mieloso e in falsetto. Tra i miei preferiti per gli eccessi di orticaria!

Non ce la fa a trattenersi e, cogliendo tutti noi di sorpresa, allontanandosi dal nostro tavolo decide di darti una carezza sulla testa esclamando … carina!

Io faccio la faccia truce e per fortuna gli occhiali da sole (siamo in terrazza!) proteggono la signora dalle mie frecce oculari. In queste occasioni mi viene spesso in mente un noto film, tra bellezza e catana.

E’ proprio così, anche quanto si parte bene sembra inevitabile scivolare in quei comportamenti che trovo davvero inappropriati, invadenti e anche insopportabili. Ne ho già scritto tante volte e so di condividere con molte persone la fatica di gestire relazioni e comunicazioni che il più delle volte rischiano di assumere le connotazioni della mitica goccia di troppo.

Ogni tanto mi fermo a immaginare strategie nuove e di recente propria una tua compagna di centro mi ha offerto l’occasione per capire meglio. Sei tra le più grandi di età nel gruppo di ragazzi e ragazze ma, senza alcun dubbio, appari come la più piccola anche a causa di quella tua espressione ancora molto infantile che suscita i classici commenti riservati ai bambini piccoli.

Ciao piccolina, ti dice questa ragazza mentre guarda interrogativa la mia mano che, avvicinandosi all’altezza della tua testa, le impedisce gentilmente di darti una carezza. Che strano tono usi, le dico, sai che lei è più grande di te? Mi guarda attenta e seria.

Scusa, hai ragione. Vi sorridete per salutarvi e anch’io partecipo sentendomi un pochino più leggera.

Lezione numero uno, appresa. Direbbe Tata Matilda

 

Testardi, tenaci o coraggiosi?

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braveIrene Auletta

Da tanti anni, di fronte al racconto di bambini o ragazzi con qualche tipo di disabilità, ritrovo l’aggettivo testardi ricorrere con grande puntualità ed è praticamente immancabile soprattutto laddove il problema riguarda in modo significativo limitazioni gravi nell’area comunicativa e del linguaggio.

Non solo ne parlano i genitori, ma gli stessi educatori, insegnanti, terapeuti spesso attingono a questa definizione per dare senso a qualche comportamento. Nei casi peggiori non mi è neppure mancata la stupida affermazione “bisognerebbe capire se ci è o ci fa!”.

Se devo essere sincera la storia non mi quadrava neppure anni fa ma oggi mi lascia assai perplessa soprattutto perché definendo un aspetto caratteriale o del comportamento si rischia di lasciarne totalmente sullo sfondo l’origine non genetica, ma ambientale e quindi educativa.

Provate a immaginarvi fin dalla nascita in un mondo che vi invade di parole mentre voi ne avete pochissime e a volte nulla, pensate ad un bisogno anche elementare che non riuscite a far comprendere e, se poi ci addentriamo nell’area dei sentimenti o delle emozioni, che dire?

La cosa poi altrettanto bizzarra è che quando non si parla di testardaggine molto spesso compaiono commenti come apatico, poco motivato all’apprendimento, tranquillo, buono. Da quando la testardaggine, l’ostinazione a esserci o la tenacia sono diventati aspetti problematici o negativi nel percorso di crescita?

Di certo la difficoltà è dell’adulto che non riesce a capire, a trovare strategie alternative o, semplicemente, a gestire comportamenti che, come possono, chiedono ascolto, rispetto della persona, possibilità di scelta.

Rivedo in modo nitido la nostra fotografia del presente che, lungi dall’essere collegata alla tua adolescenza, da anni si ripropone con impeccabile puntualità. Vuoi farti valere, esprimere il tuo dissenso, una protesta, un malessere, un desiderio e allora cosa fai? Hai scoperto che il tuo corpo può compensare l’assenza di parole ed eccoti seduta o sdraiata a terra ogni volta che vuoi dirci qualcosa, preferibilmente in mezzo alla strada, in qualche negozio o in un parco.

E noi annaspiamo, ci guardiamo suggerendoci con gli occhi nuove possibilità, usiamo la nostra autorevolezza che ogni tanto assume i toni severi dell’autorità. Le più recenti strategie ci sostengono con l’utilizzo delle nuove opzioni offerte dai moderni smartphone: FaceTime, piccoli video o foto per anticiparti e renderti visibile quello che ti stiamo proponendo o provando a farti capire. Insomma, di tutto e di più e forse, incrociandoci, appariamo un po’ marziani, in una nostra bolla peculiare che nei momenti critici si nutre solo della possibilità di riuscire a resistere, mentre tu non molli nel tuo tenace tentativo di affermare la tua esistenza.

Mi piaci figlia quando sei così anche se mi poni di fronte a difficoltà che mi sembrano a volte insormontabili. Tu prosegui con coraggio per la tua via e io continuerò a fare del mio meglio per provare a capire e per aiutarti a trovare strade alternative e a non soccombere.

 

Sorprese di Natale

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sorprese di Nataledi Irene Auletta

Non sono un’amante delle feste scolastiche e in genere questo è il momento che finora mi ha sorpreso più a disagio sia come genitore che come operatore. In verità mi è capito spesso di confrontarmi anche con molti altri genitori perplessi e può essere che il bisogno di certi rituali di festeggiamento abbia talmente preso la mano da far un po’ smarrire i reali destinatari e il senso della proposta stessa. Parlo di ciò che accade dall’asilo nido in poi e di certo, in una struttura che accoglie bambini e ragazzini disabili, la questione si pone allo stesso modo e forse con qualche accento interrogativo in più.

Con questo spirito e stato d’animo ho accolto la comunicazione del festeggiamento odierno a cui per fortuna i genitori non erano invitati e così arrivo a prenderti al Centro che frequenti da pochi mesi e che ancora mi interroga sul senso della tua presenza lì.

Mi accoglie un’atmosfera giocosa, rumorosa, frizzante e caotica. I ragazzi eccitati ciondolano nella stanza, accennando balli e strani minuetti accompagnati da quel chiacchiericcio e da quelle risate da adolescenti che in più occasioni mi hanno fatto chiedere se quello è il posto giusto per te. Tu mi sembri sempre un altro pianeta tra diversi pianeti ma questo pomeriggio ti trovo perfettamente a tuo agio nella scena che mi si presenta appena apro la porta.

Mi vedi e mi saluti subito ma è chiaro che non intendi lasciare quella situazione di festa e che neppure desideri coinvolgermi in modo particolare nei preparativi in atto. Come dire, rimani pure qui ma stai al tuo posto!

Mi faccio da parte e ti osservo mentre non perdi neppure un frammento di ciò che ti accade intorno e cerco un continuo equilibrio tra emozioni assai differenti che viaggiano tra la gola e lo stomaco. Vieni coinvolta in una danza e mentre ti sorrido provando a nascondere alcuni pensieri, mi accorgo che il tuo sguardo inizia a rassicurarmi.

Mentre io ho paura che inciampi, che gli altri non riescano a seguire il tuo ritmo, che per te sia troppo, mi guardi felice e perfettamente a tuo agio in quella scena per me nuova e quando incroci i miei occhi il tuo divertimento per me diviene inconfondibile tanto da farmi dimenticare tutti i timori.

Quando dopo un po’ per te è il momento di andare, me lo chiedi senza alcuna esitazione e solo quando siamo vicine alla nostra auto mi abbracci in un modo parecchio diverso dal solito. Cosa vuoi dirmi tesoro? Che sei contenta, che ti sei divertita, che posso stare tranquilla? Oggi pomeriggio mi hai dato una bella lezione. Stavolta, io sono decisamente indietro.

Abbi pazienza figlia mia, la mamma è davvero lenta!

 

Teniamoci per mano

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“Fb mi chiede a cosa sto pensando…..Penso alla giornata di oggi, penso a mia figlia Ester che stamattina alle 8 era pronta per andare a manifestare pacificamente, penso alle dimostrazioni sincere di attenzione di alcuni simpatizzanti e persone sensibili alle problematiche che quotidianamente affrontiamo, penso all’assenza di risposta del Comune, penso che i nostri ragazzi hanno rischiato, per il caldo, di avere le convulsioni davanti al Palazzo e nonostante tutto volevano rimanere. Penso che domani ritorneremo a Piazza Pretoria, silenziosamente, civilmente, a chiedere un po’ di attenzione, penso che non possa essere possibile non tendere la mano per aiutare chi soffre. Ma forse sono io che, invecchiando, divento più fragile, più sensibile? oppure non riesco ad abituarmi alla non-cultura di ignorare il più fragile? In ogni caso, domani noi ci saremo. Noi saremo ancora davanti Palazzo delle Aquile, in silenzio, portando con noi solo il sorriso un po’ malinconico dei nostri meravigliosi ragazzi….”

radici intrecciatedi Irene Auletta

Mi raggiunge così, nella zona vicina al cuore, il post di Fiorella, madre di una figlia adulta che come tanti genitori sta cercando di affrontare il vuoto dei servizi e la precarietà delle proposte da rivolgere a persone disabili. L’ho sentito dire tante volte che “dopo i sedici anni i problemi aumentano” ed in effetti il momento storico ed economico non è certo dei migliori soprattutto in una cultura che purtroppo guarda ancora alle fragilità come un peso e non come un’occasione per esibire coscienza civica e responsabilità.

Non posso dimenticare l’espressione sorpresa di una dirigente di servizi sociali di fronte alle mie affermazioni riguardanti il futuro di questi figli e il desiderio dei genitori di cercare e scegliere il contesto per loro più adeguato. Non è facile trovare un posto, figuriamoci poi scegliere … sarebbe un lusso! La signora in questione mi parlava come professionista del settore ignorando il mio duplice abito, anche di genitore coinvolto direttamente nella questione. Avrei potuto svelarlo sottolineandole che aveva perso una bella occasione per tacere e per connettere lingua e cervello ma, a volte, è meglio andare oltre.

Gli operatori parlano di disabili, di strutture, di fondi, noi parliamo dei nostri figli, della loro qualità di vita e questo a volte traccia una linea di demarcazione insuperabile.

A volte ci si incontra, genitori e operatori, e lì si coglie un tepore speciale, di quelli che fanno sentire a casa. Dovrebbe essere un diritto? La strada è ancora lunga e per questo molte delle nostre mani sono intrecciate a distanza, per infondersi forza e coraggio.

Storie di ordinaria cattiveria

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ombredi Irene Auletta

E’ successo ancora. Video che gira in rete urlando indignazione, rabbia, sconforto, paura. La ripresa si sofferma impietosamente su maltrattamenti, verbali e fisici, inflitti ad un ragazzino disabile. Non vi sembra la stessa scena che non molti mesi fa riprendeva una badante che malmenava una signora anziana oppure quella di una madre decisamente poco amorevole con il proprio bambino di qualche mese di vita?

Da anni vado nominando soggetti e categorie a rischio di violenza che, non a caso, sono riconoscibili nei bambini piccoli, nei disabili e negli anziani. Soggetti che faticano a raccontare e, soprattutto, a difendersi. Provate a immaginare la stessa scena con adolescenti senza problemi e vi accorgerete che a rischio, potrebbero essere in questo caso gli adulti. Allargando il campo e la visuale, dentro e fuori i confini del nostro paese, a rinforzare le fila dei fragili, non mancano neppure le donne, sempre alla ribalta nelle scene di cronaca come vittime di una violenza che sovente non lascia scampo.

Eppure ogni volta sembra la prima volta e lo scandalo sembra raggiungere lo stupore di quanti immagino con la bocca spalancata a dire, davvero? ma come è possibile che accadano cose del genere? Gli stessi che magari hanno commentato tramite web o negli scambi di persona, esibendo un livello di aggressività altrettanto preoccupante e comunque non originale. Immaginatevi la mia faccia quando in un intervista ad una nota psicoterapeuta l’ho sentita affermare, quasi fosse il pensiero più intelligente dell’anno, che il problema riguarda la selezione del personale delle strutture educative. Ma dai. Piantiamola con le fesserie e per favore parliamo di cose serie.

Sicuramente sono stati offerti su tematiche analoghe, commenti e riflessioni assai autorevoli. Io mi sento di guardare un po’ da vicino un antico dibattito tra viscere, testa e cuore. Le viscere, di genitore o di adulto sano, non possono che gridare vendetta, con quella voglia di avere tra le mani i violenti e, come si dice dalle mie parti, fargli passare un guaio. Il cuore batte forte e perde colpi, pensandosi la madre di quel ragazzo o di quel bambino, oppure la figlia di quell’anziano, oppure ancora quella donna maltrattata dal suo compagno presa a chiedersi dov’è l’amore.

La testa, almeno la mia, ingaggia una sfida con la professionista che sono, presa a interrogare il senso di talune vicende e la necessità di abbandonare codici buonisti per guardare con coraggio le parti dell’animo umano, tra cui la cattiveria ha sovente un posto d’onore. Ce lo confermano secoli di storia, se solo alziamo il nostro sguardo da terra e tratteniamo la nostra rabbia o la voglia di non sapere.

E allora che si fa? Me lo sono chiesta tante volte, negli anni, di fronte a racconti di violenza o di fronte a fessure che mi hanno lasciato immaginare e intravere comportamenti aggressivi di genitori e di operatori. Non ho alcuna risposta magica, nè una ricetta miracolosa che trasformi i cattivi in buoni.

So però che mi ha aiutato riconoscere la cattiveria come parte dell’umano, guardarla in faccia senza troppi timori, non abbassare gli occhi per il dolore. Mi ha aiutato chiedere alle persone di parlarne, senza erigermi a giudice, ma provando a capire come evitarne il ripetersi. Vicende analoghe sono sempre accadute, accadono oggi e accadranno ancora. Ognuno di noi, come singolo cittadino  o come professionista, può chiedersi come mettere a disposizione la sua intelligenza e il suo cuore per affrontarle, sperando di prevenirle. Ognuno di noi, parte di una testa e un cuore collettivo, dovrebbe mettersi gli occhiali del disincanto e da lì partire, per cercare vie percorribili e possibili per non attendere inerme, il prossimo scandalo.

Eternamente bambini, ragazzi per sempre

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Eternamente bambini, ragazzi per sempredi Irene Auletta

Mentre stiamo organizzandoci per salire in auto mi accorgo che intralciamo il passaggio e allora mi scuso cercando di far affrettare mia figlia.

Non si preoccupi, mi dice la signora che sta spingendo la sedia a rotelle, la bambina può aspettare così ne approfittiamo per prenderci ancora un po’ di sole.

Siamo in uno spazio riservato ai posteggi per disabili, mi volto e seduta sulla sedia a rotelle vedo una giovane donna che mi pare non avere meno di venticinque anni.

Difficile dire quando anche agli occhi dei suoi genitori e dei suoi cari diventerà una ragazza. Se dico a mio padre che sua nipote non è più una bambina lui mi guarda alzando le spalle e con quel suo sguardo che sembra voler dire sei la solita esagerata!

Tante volte, parlando con gli operatori dei servizi per disabili adulti, mi sono soffermata sul loro nominarli sempre come ragazzi facendo così scomparire parole, immagini e significati riferiti a uomini e donne. Non è un vezzo semantico il mio perchè sono certa che le parole utilizzate nominano e orientano il mondo di significati di chi le sta esprimendo.

Dall’altra parte, mi ritrovo catapultata quasi in un universo parallelo quando, attraversando servizi per l’infanzia, incontro educatori e genitori che parlano di bambini di due anni quasi ne avessero venti. Le attese nei confronti dei bambini piccoli sono sempre più elevate e lo dice bene il recente termine adultizzazione, coniato proprio per nominare un fenomeno in atto negli ultimi anni.

Le attese poi, trascinano con sè anche i tipi di relazione che si instaurano. Se con i disabili si rischia spesso di sostituirsi a loro, di banalizzarne i gesti e le comunicazioni e, in buona sostanza, di infantilizzarli, con i bambini piccoli sembra smarrita quella dimensione di “bambinità” che, sospendendo linguaggi e significati adulti, può mantenere aperta la porta sulla meraviglia del mondo infantile, delle sue scoperte e della sua “visione del mondo”.

Immagino spesso una metaforica bilancia che potrebbe accogliere le due parti, aprendo nuovi e ricchi dialoghi e confronti. Figurati, non succederà mai, a chi interessa?, mi dicono colleghi con cui mi è capitato di parlarne.

Io insisto. D’altronde la tenacia l’avrai pur imparata da qualcuno?

Ma quali eroi?

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ma quali eroi 1

di Irene Auletta

Da anni vado dicendo che mi sento una madre apolide. Proprio così, nel senso di senza cittadinanza e senza appartenenza. Fatico a trovare  possibili condivisioni sia con chi vive esperienze tanto differenti dalla mia che con chi attraversa vicende esistenziali assai simili. Una parentesi piacevole e particolarmente positiva la sto scoprendo in questi ultimi anni grazie allo scambio e al confronto tramite il web dove, forse per il numero delle frequentazioni o per le caratteristiche del luogo, sempre più spesso incrocio echi di significati familiari e che riconosco con gradevole sorpresa.

Ho già scritto della questione e qualcuno mi ha anche un po’ presa in giro per il mio cipiglio. Ho osato affermare che mi irritano profondamente tutti quei genitori che, sicuramente per loro difficoltà, hanno sempre bisogno di normalizzare, banalizzando. Li riconosco subito in coloro che di fronte a qualsiasi considerazione o commento riferito ad un figlio disabile, hanno bisogno di affermare subito che anche loro stanno attraversando difficoltà simili, spesso facendo confronti che francamente a volte mi lasciano davvero basita. In genere i figli in questione hanno problemi a scuola, di peso e non raramente, faticano a stare dentro alle mitiche categorie dei percentili pediatrici di sviluppo, divenuti la nuova persecuzione di molti genitori. Naturalmente a disturbarmi non sono questi loro problemi, che comprendo e rispetto, ma l’esigenza di metterli a confronto con qualcosa che sovente è proprio molto lontano dalla loro comprensione.

Sono ancora più in difficoltà quando penso che chi ho di fronte dovrebbe più o meno parlare la mia stessa lingua e invece mi sento una marziana. So bene che ognuno ha bisogno di trovare le sue spiegazioni a quanto sta vivendo ma a me sono sempre state un po’ strette quella sorta di omelie che snocciolano le caratteristiche dei genitori di figli disabili definendoli come individui speciali, persone toccate da fortune o doni inspiegabili, illuminati sulle vie di qualche strano luogo. Questo davvero ho sempre fatto molta fatica a comprenderlo, pur nel totale rispetto del pensiero altrui. Figuriamoci a condividerlo.

Ultimamente invece, mi ha confortato leggere il commento di una mamma, una di quelle che mi fa sentire meno ufo e che, con un tatto invidiabile, invita i genitori con figli disabili a fare meno gli eroi e a chiedere aiuto, pensando anche a se stessi e alla propria vita. Ho apprezzato molto, provando grande rispetto, anche il coraggio di un’altra madre che si è concessa di scrivere in un post di come si ritrova a piangere per la stanchezza, a causa dei disturbi del sonno del figlio. La disperazione a volte spinge a farsi anche queste domande, ma che vita è la mia?  Non c’è bisogno di risposte banali, di luoghi comuni e di assurde spiegazioni. Forse bisogna proprio imparare a non aver paura della rabbia, del dolore, dello sconforto, del senso profondo di ingiustizia e del grande smarrimento.

Molte di noi, madri con figli disabili o con gravi problemi di salute, hanno finalmente voglia di allontanarsi da quell’immagine di Madonna a cui sovente vengono associate, per riprendersi in mano la loro vita di donne, madri, amiche, professioniste, mogli.

Vi sembra troppo? Io, per fortuna, inizio a sentirmi in buona compagnia.

Per te, l’allegria

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per te, l'allegriadi Irene Auletta

Ci sono tante cose che ogni genitore immagina di voler insegnare ai propri figli anche se poi a volte la vita fa smarrire i desideri e, per molti, si finisce con il far coincidere l’educazione con il mondo delle regole e dell’etica. Negli anni, i genitori con figli disabili, si ritrovano più volte a rivedere le loro priorità e attese, incocciando insegnamenti inattesi, improbabili e non pensati.

Ieri sera ti osservavo alle prese con il tuo cucchiaio e con quell’abilità che nel tempo hai provato a perfezionare, contro quei tremori che avrebbero fatto rinunciare anche i più tenaci della nostra famiglia. Ma non te. La nonna, quando ti vede mangiare, dice con immenso amore, che sei fine ed ha ragione, perchè hai imparato come rendere armonico e quasi delicato quel gesto per i più scontato. Ma non per te. Ti cimenti con la voglia di prendere direttamente i biscotti dal sacchetto, che nel frattempo ti sfugge mentre ti osservo e mi trattengo. Cerco di farti provare, sperimentare, tentare e mi fermo le mani nel gesto istintivo di aiutarti ogni volta che ti vedo fare lotte incredibili per i gesti quotidiani per me assolutamente automatici.

In questi anni mi sono scoperta tante volte a osservarti con stupore, gioia e dolore ma quasi sempre pronta a chiedermi cosa poterti insegnare, proprio in quel momento lì, di fronte all’ennesima prova, conquista o ostacolo. Come tanti altri genitori ho dovuto fare tante rinunce e accantonare tanti desideri ma non ho mai rinunciato a insegnarti la voglia di gustarsi le cose belle della vita, il piacere di ridere, di scherzare e di sperimentare qualcosa che assomiglia all’allegria.

Quando ci dissero della tua sindrome, ricordo tra i vari tratti distintivi, “il riso immotivato e un sorriso un po’ ebete stampato sul viso”. Sarà che sei mia figlia, ma ebete non ti ho mai vista e, al contrario, il tuo viso acquista di frequente quell’espressione che ci porta a definirti faccia da temporale, come già ti definì anni fa un’amica. A volte è vero che perdi il controllo delle emozioni, sono troppo forti, non riesci a gestirle e allora, anche la risata, risulta sopra le righe ma mai immotivata. Ridi agli scherzi, di fronte alle cose per te buffe, per certe battute di film che spesso anticipi con la tua risata sonora e frizzante, come quella dei bambini piccoli. Ti piace affrontare esperienze nuove, sei curiosa e sei sempre molto generosa nell’esprimere e condividere la tua gioia e felicità.

Ho cercato di insegnarti l’allegria mentre attraversavamo giorni molto difficili e oggi ci fa sempre compagnia, fra le luci e le ombre della nostra vita.

Ieri, per la prima volta, ti è uscita una risata da grande che, per la sua diversità ti faceva ridere. Hai riso così per diverse volte e ci siamo divertite accogliendo il suono inatteso.

L’abbiamo cercato altre volte durante il giorno ma, come spesso ti accade con le cose che impari, escono quanto vogliono loro e mai a comando.

Aspetteremo fiduciosi, non perdendo occasioni per ridere. Prima o poi tornerà.

Giù le mani

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IMG_1803di Irene Auletta

Ricordo molto bene come, tanti anni fa, incontrando le educatrici dei servizi per la prima infanzia ho iniziato a trattare temi relativi al contatto fisico con i bambini e alla necessità di pensare e ripensare il lavoro educativo come occasione per svelare e nominare gli eccessi possibili nei gesti di cura. Da allora ho attraversato parecchi servizi e, nei vari luoghi di formazione e supervisione, questo tema è riapparso sovente tra quelli ricorrenti e sempre attuali.

Pochi giorni fa, in un centro per bambini disabili, la scena si è ripetuta e mi sono ritrovata a nominare l’attenzione necessaria nell’incontro con il corpo altrui e con la sua persona. E’ possibili che nove o dieci operatori mettano le mani addosso allo stesso bambino? Accompagnare in bagno per il cambio, assistere durante il pranzo, imboccare, pulire la saliva alla bocca oppure il naso, aiutare a vestirsi o svestirsi, sostenere nella miriade dei piccoli movimenti quotidiani.

Solo facendo l’elenco mi viene prurito lungo tutto il corpo.

Quando il gesto arriva dall’esterno non sempre riesce a rispettare il tempo, la misura e il tono necessario e immagino quanta tolleranza, pazienza e disponibilità sia necessario, da parte di chi lo riceve, per non mettersi a urlare o a scalciare.

In realtà a volte i bambini o ragazzini disabili lo fanno con il rischio che, prontamente, gli operatori o i loro stessi genitori, sfoderino le migliori interpretazioni. E’ aggressivo, ipercinetico, ha un brutto carattere, fa i capricci, non è collaborante e via di questo passo in un elenco che ognuno può arricchire grazie alla sua esperienza o fantasia.

Io soffro tantissimo e mi accade sempre. Quando all’asilo nido pensavo ai bambini piccoli e alle interferenze continue delle educatrici, quando penso alle condizioni di bambini e ragazzini disabili che non sono in grado di esprimersi liberamente, quando penso alle condizioni di alcuni anziani non più in possesso di tutte le loro facoltà di adulti. Anche loro come i piccoli e i disabili, ogni tanto vengono definiti capricciosi o monelli.

Soffro quando penso a mia figlia, al suo passato, al suo futuro e all’ignoranza che ancora è presente nella cultura e nei servizi che ruotano intorno al mondo della disabilità.

Ogni tanto sono presa da un grande sconforto e mi chiedo cosa è possibile fare, oltre a quello che provo ad attivare quotidianamente come genitore e come pedagogista. Come reazione, cerco di non perdere occasione per fare nuovi pensieri e ipotizzare nuove azioni.

L’altro giorno, sempre nel centro per bambini disabili, osservavo gli operatori coinvolti nella supervisione. Sono persone, stanno imparando anche loro e sono certa che cercano di svolgere al meglio il loro lavoro. Ho provato un sentimento di fiducia e mi auguro che avvicinando i loro bambini ricordino le parole e le emozioni dell’incontro.

Il gesto, di per sè, è solo un automatismo. Farlo diventare educativo  e amorevole richiede tempo, pensiero e riflessione.

Abbiate pazienza bambini, pian piano arriviamo anche noi.

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