Mentre stiamo organizzandoci per salire in auto mi accorgo che intralciamo il passaggio e allora mi scuso cercando di far affrettare mia figlia.
Non si preoccupi, mi dice la signora che sta spingendo la sedia a rotelle, la bambina può aspettare così ne approfittiamo per prenderci ancora un po’ di sole.
Siamo in uno spazio riservato ai posteggi per disabili, mi volto e seduta sulla sedia a rotelle vedo una giovane donna che mi pare non avere meno di venticinque anni.
Difficile dire quando anche agli occhi dei suoi genitori e dei suoi cari diventerà una ragazza. Se dico a mio padre che sua nipote non è più una bambina lui mi guarda alzando le spalle e con quel suo sguardo che sembra voler dire sei la solita esagerata!
Tante volte, parlando con gli operatori dei servizi per disabili adulti, mi sono soffermata sul loro nominarli sempre come ragazzi facendo così scomparire parole, immagini e significati riferiti a uomini e donne. Non è un vezzo semantico il mio perchè sono certa che le parole utilizzate nominano e orientano il mondo di significati di chi le sta esprimendo.
Dall’altra parte, mi ritrovo catapultata quasi in un universo parallelo quando, attraversando servizi per l’infanzia, incontro educatori e genitori che parlano di bambini di due anni quasi ne avessero venti. Le attese nei confronti dei bambini piccoli sono sempre più elevate e lo dice bene il recente termine adultizzazione, coniato proprio per nominare un fenomeno in atto negli ultimi anni.
Le attese poi, trascinano con sè anche i tipi di relazione che si instaurano. Se con i disabili si rischia spesso di sostituirsi a loro, di banalizzarne i gesti e le comunicazioni e, in buona sostanza, di infantilizzarli, con i bambini piccoli sembra smarrita quella dimensione di “bambinità” che, sospendendo linguaggi e significati adulti, può mantenere aperta la porta sulla meraviglia del mondo infantile, delle sue scoperte e della sua “visione del mondo”.
Immagino spesso una metaforica bilancia che potrebbe accogliere le due parti, aprendo nuovi e ricchi dialoghi e confronti. Figurati, non succederà mai, a chi interessa?, mi dicono colleghi con cui mi è capitato di parlarne.
Io insisto. D’altronde la tenacia l’avrai pur imparata da qualcuno?
Mag 01, 2013 @ 12:42:36
Due facce della stessa medaglia, credo. In fondo in entrambi i casi l’altro non è visto per quello che è ma per il destino che lo aspetta
Mag 01, 2013 @ 12:47:12
vero … e molto amaro, pensando alla nostra ragazza
Mag 01, 2013 @ 13:14:05
Ti ho scoperta da poco e mi piacciono molto i tuoi articoli. Io sono educatrice con disabili intellettivi adulti e spesso li chiamo “ragazzi”. Non li chiamo mai bambini. Li chiamo ragazzi come spesso con questo termine vengono definiti genericamente i coetanei (del parlante). Li chiamo ragazzi perché non mi piace molto chiamarli utenti, oppure ospiti. Li chiamo ragazzi perché spesso devo parlare loro con termini e metafore che fanno riferimento all’infanzia.
Sto sbagliando?
Mag 01, 2013 @ 14:28:23
Fatico a rispondere nei termini giusto/sbagliato e provo a rilanciare il senso.
Il problema delle terminologie per me riguarda principalmente i significati che portano con sè.
Un po’ come quando gli anziani perdono i colpi e si inizia a dire “sono come bambini” e, al tempo stesso, li si inizia a trattare come tali. Da anziana, mi accadesse, non mi piacerebbe per nulla.
Quello che tu tocchi però è una questione molto importante e delicata perchè i gesti di cura e le possibilità comunicative degli adulti disabili a volte assomigliano molto a quelli che si utilizzano con i bambini o, al massimo, con i ragazzini. Ma ciò che accade in queste relazioni non rischia di far perdere di vista quell’adultità che comunque esiste nelle storie, nelle esperienze e nel vissuto del corpo?
Le mie rimangono domande aperte per una pista di ricerca.
Come genitore intraprendo ogni giorno una prova nuova ma, come operatore, sono convinta che spetti proprio a noi la salvaguardia di quella cultura che, al di là dei sentimenti, sappia trattenere saperi e nuove possibilità di apprendimento per vite adulte che hanno il diritto di esprimersi nel rispetto di tutte le loro peculiarità.
Che ne pensi? Vista così può essere?
Grazie e alla prossima.
Mag 01, 2013 @ 14:43:01
Sono d’accordo con tutti i tuoi dubbi. Corriamo il rischio di perdere di vista il passato di queste persone ed è sicuramente compito dell’educatore impedire che lo sguardo si fermi in un eterno presente. Le persone sono portatrici di storie, lo possiamo leggere nelle loro parole e nelle memorie del loro corpo. Ti ringrazio per questa riflessione e per oggi ti saluto.
Mag 01, 2013 @ 21:25:37
Tutti noi operatori spesso ci riempiamo la bocca di termini come ” adultità”,
etc..etc…
con la differenza appunto come dici tu Irene di trattare gli adulti come degli eterni ” Pierini” e i bambini invece come se dovessero partire per il militare.
Questo perchè anche noi apparteniamo a una cultura che vede i disabili attraverso la patologia che hanno invece di vederli per quello che sono, indipententemente dalla patologia che hanno. Però siccome a differenza di coloro che non fanno il nostro mestiere abbiamo letto e studiato libri che ci dicono che adulti e bambini disabili vanno trattati per quello che sono, allora difendiamo a spada tratta questi principi.
Peccato che poi nel nostro fare viene fuori ciò che Igor anni fa a me e ad altri miei colleghi ci spiegò riguardo alla cultura della disabilità che tutti noi ci portiamo dentro.
Un saluto.
Mag 02, 2013 @ 06:51:52
E’ proprio vero Franco.
Quello con cui bisogna fare i conti è la cultura della disabilità ed è per questo che insisto spesso sull’importanza delle parole.
Non per le parole in sè ma, come ho detto anche in risposta al commento precedente, per i significati che veicolano e che, ogni giorno, condizionano e orientano i nostri gesti.
Un saluto a te