IMG_1803di Irene Auletta

Ricordo molto bene come, tanti anni fa, incontrando le educatrici dei servizi per la prima infanzia ho iniziato a trattare temi relativi al contatto fisico con i bambini e alla necessità di pensare e ripensare il lavoro educativo come occasione per svelare e nominare gli eccessi possibili nei gesti di cura. Da allora ho attraversato parecchi servizi e, nei vari luoghi di formazione e supervisione, questo tema è riapparso sovente tra quelli ricorrenti e sempre attuali.

Pochi giorni fa, in un centro per bambini disabili, la scena si è ripetuta e mi sono ritrovata a nominare l’attenzione necessaria nell’incontro con il corpo altrui e con la sua persona. E’ possibili che nove o dieci operatori mettano le mani addosso allo stesso bambino? Accompagnare in bagno per il cambio, assistere durante il pranzo, imboccare, pulire la saliva alla bocca oppure il naso, aiutare a vestirsi o svestirsi, sostenere nella miriade dei piccoli movimenti quotidiani.

Solo facendo l’elenco mi viene prurito lungo tutto il corpo.

Quando il gesto arriva dall’esterno non sempre riesce a rispettare il tempo, la misura e il tono necessario e immagino quanta tolleranza, pazienza e disponibilità sia necessario, da parte di chi lo riceve, per non mettersi a urlare o a scalciare.

In realtà a volte i bambini o ragazzini disabili lo fanno con il rischio che, prontamente, gli operatori o i loro stessi genitori, sfoderino le migliori interpretazioni. E’ aggressivo, ipercinetico, ha un brutto carattere, fa i capricci, non è collaborante e via di questo passo in un elenco che ognuno può arricchire grazie alla sua esperienza o fantasia.

Io soffro tantissimo e mi accade sempre. Quando all’asilo nido pensavo ai bambini piccoli e alle interferenze continue delle educatrici, quando penso alle condizioni di bambini e ragazzini disabili che non sono in grado di esprimersi liberamente, quando penso alle condizioni di alcuni anziani non più in possesso di tutte le loro facoltà di adulti. Anche loro come i piccoli e i disabili, ogni tanto vengono definiti capricciosi o monelli.

Soffro quando penso a mia figlia, al suo passato, al suo futuro e all’ignoranza che ancora è presente nella cultura e nei servizi che ruotano intorno al mondo della disabilità.

Ogni tanto sono presa da un grande sconforto e mi chiedo cosa è possibile fare, oltre a quello che provo ad attivare quotidianamente come genitore e come pedagogista. Come reazione, cerco di non perdere occasione per fare nuovi pensieri e ipotizzare nuove azioni.

L’altro giorno, sempre nel centro per bambini disabili, osservavo gli operatori coinvolti nella supervisione. Sono persone, stanno imparando anche loro e sono certa che cercano di svolgere al meglio il loro lavoro. Ho provato un sentimento di fiducia e mi auguro che avvicinando i loro bambini ricordino le parole e le emozioni dell’incontro.

Il gesto, di per sè, è solo un automatismo. Farlo diventare educativo  e amorevole richiede tempo, pensiero e riflessione.

Abbiate pazienza bambini, pian piano arriviamo anche noi.