Parliamoci d’amore

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fotodi Irene Auletta

Qualche giorno fa, un anziano signore chinato al bordo della strada ha attirato la mia attenzione. Cercando di destreggiarsi con la sua stampella, il signore si muoveva goffamente vicino ad un cespuglio di rose che costeggiava la pista ciclabile. Pensando ad un malore, stavo giusto valutando di fermarmi per chiederglielo, quando l’ho visto rialzarsi dalla posizione assunta e, quasi furtivamente, nascondere la rosa raccolta all’interno di un giornale tenuto sotto il braccio.

Chissà per chi ha raccolto quella rosa. Me lo sono immaginato arrivare a casa e consegnarla con amore a sua moglie, alla figlia che lo accudisce o alla badante che si prende cura di lui. Chissà.

Quando raccolgo dai genitori le fatiche che incontrano con i loro figli, mi piace sempre riprendere le dimensioni legate all’affetto che li lega a loro e al bisogno di non seppellirlo sotto le prescrizioni educative, le mille cose da fare e che riempiono il nostro quotidiano, saturandolo quasi completamente.

Io sono fortunata. Me lo chiedi tu, figlia mia, di rallentare, di fermarmi. Me lo chiedi tu abbracciandomi forte e parlandomi del tuo amore, intenso come sovente solo l’amore senza parole sa essere.

Attraversiamo tutti giorni assai cupi, colmi di preoccupazioni per il presente e per il futuro. Rischiamo di essere travolti in massa dalle mancanze, da ciò che abbiamo perso, dalle nostre fatiche e dal vezzo, che mi pare molto moderno, di fare continui elenchi di quanto ci affatica la vita e tutto quello che abbiamo da fare.

Io ho sempre più spesso voglia di dire stop. Ho voglia di gustarmi quello che ho e di cui mi posso nutrire, restituendo valore a quel quotidiano che non smette di regalarmi risate, condivisioni, scambi di esperienze, incontri inattesi, affetto e amore.

E tutto il resto allora non esiste? Vuol dire che sono davvero un’inguaribile ottimista o, come qualcuno potrebbe pensare, una persona superficiale, che non si lascia toccare dalle durezze dell’esistenza? Sono un’ingenua romantica, poco attenta ai toni scuri che dipingono il nostro tempo?

Qualche giorno fa, Jacopo Fo salutando la madre Franca Rame, ha speso parole d’amore ricordando ciò per cui ha vissuto e lottato. Gioie e dolori, fatiche e preoccupazioni, si possono attraversare in tanti modi lasciando differenti tracce nelle nostre esistenze.

Grazie a te, che da anni mi aiuti, io so bene qual’è la strada che voglio continuare a seguire.

Riflessi di vita

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riflessi di luce 1di Irene Auletta

Mi capita spesso, quando incontro i genitori per il mio lavoro, di entrare in uno spazio di ascolto che sembra lasciare fuori il mondo, facendone entrare solo fili di luce che portano riflessi in quello che accade proprio lì.

Ma come fai a fare questo lavoro e a lasciare fuori la tua esperienza di madre?

Me l’ha chiesto qualche giorno fa un’amica che non incrociavo di persona da tempo ma che mi segue molto attraverso le pagine di questo blog.

Se fossi al tuo posto, con quello che ti ritrovi ad affrontare ogni giorno, forse sarei sempre incazzata e di certo sarei poco disponibile a capire i piccoli problemi con i figli che, gran parte di noi, ingigantiscono.

Capisco che in realtà il quesito può sorgere spontaneo e mi sono ritrovata a fare un salto nel passato. Quando mia figlia era piccola mi trovavo, molto più di oggi, ad attraversare il mondo dei servizi per l’infanzia, incrociando operatori, bambini e genitori che, in ogni momento, segnavano lo scarto impietoso con l’esperienza che in parallelo stavo vivendo come madre.

Ricordo molto bene le spalle curve, appesantite dalla mia nuova esperienza e il respiro profondo che facevo ogni giorno, prima di aprire la porta che mi introduceva nel mio mondo professionale. Eppure, anche allora, l’ascolto dell’altro mi aiutava a sospendere quello rivolto alla mia vita e nel tempo, ho imparato che prendendomi cura dell’altro, lenivo pian piano anche le mie ferite. Non ho mai pensato che l’altro genitore mi portasse banalità e, al contrario, spesso provavo e provo dispiacere, quando intravedo una concentrazione su singoli aspetti definiti problematici che rischiano di lasciare sullo sfondo la bellezza di quel figlio e di quell’incontro.

Certamente negli anni tutti i genitori, e anche gli operatori, che ho incontrato mi hanno permesso di trovare connessioni, incroci e nuovi dialoghi tra esperienze educative diverse e con esse, anche con la mia.

Razionalmente so tutto e capisco bene quello che mi dicono le insegnanti e le terapiste ma ho bisogno di continuare a parlarne perchè io non l’accetto che mia figlia abbia queste difficoltà.

Inutile dirle che sono piccole difficoltà, che stanno pian piano risolvendosi, che tutto probabilmente andrà bene. Inutile almeno per me, per come intendo il mio lavoro, senza ricette. Forse stupisco questa madre quando le dico che fa bene a dirlo, a ripeterlo e che l’accettazione richiede tempo e grande disponibilità a mettersi in cammino.

Non mi viene mai da confrontare quello che ascolto con la mia realtà, con la mia storia di genitore o con mia figlia e, semplicemente, non mi viene perchè non mi appartiene. La mia storia di genitore mi insegna ogni giorno moltissimo e credo che i genitori che incontro beneficino, senza saperlo, di una ricchezza che va oltre la mia competenza tecnica e finisce negli occhi che stasera mi guardano felici mentre, dopo mesi di inappetenza e nausee, mi rubano il cibo dal piatto.

Questa è la mia felicità e domani, ne porterò con me spiragli di luce.

Eternamente bambini, ragazzi per sempre

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Eternamente bambini, ragazzi per sempredi Irene Auletta

Mentre stiamo organizzandoci per salire in auto mi accorgo che intralciamo il passaggio e allora mi scuso cercando di far affrettare mia figlia.

Non si preoccupi, mi dice la signora che sta spingendo la sedia a rotelle, la bambina può aspettare così ne approfittiamo per prenderci ancora un po’ di sole.

Siamo in uno spazio riservato ai posteggi per disabili, mi volto e seduta sulla sedia a rotelle vedo una giovane donna che mi pare non avere meno di venticinque anni.

Difficile dire quando anche agli occhi dei suoi genitori e dei suoi cari diventerà una ragazza. Se dico a mio padre che sua nipote non è più una bambina lui mi guarda alzando le spalle e con quel suo sguardo che sembra voler dire sei la solita esagerata!

Tante volte, parlando con gli operatori dei servizi per disabili adulti, mi sono soffermata sul loro nominarli sempre come ragazzi facendo così scomparire parole, immagini e significati riferiti a uomini e donne. Non è un vezzo semantico il mio perchè sono certa che le parole utilizzate nominano e orientano il mondo di significati di chi le sta esprimendo.

Dall’altra parte, mi ritrovo catapultata quasi in un universo parallelo quando, attraversando servizi per l’infanzia, incontro educatori e genitori che parlano di bambini di due anni quasi ne avessero venti. Le attese nei confronti dei bambini piccoli sono sempre più elevate e lo dice bene il recente termine adultizzazione, coniato proprio per nominare un fenomeno in atto negli ultimi anni.

Le attese poi, trascinano con sè anche i tipi di relazione che si instaurano. Se con i disabili si rischia spesso di sostituirsi a loro, di banalizzarne i gesti e le comunicazioni e, in buona sostanza, di infantilizzarli, con i bambini piccoli sembra smarrita quella dimensione di “bambinità” che, sospendendo linguaggi e significati adulti, può mantenere aperta la porta sulla meraviglia del mondo infantile, delle sue scoperte e della sua “visione del mondo”.

Immagino spesso una metaforica bilancia che potrebbe accogliere le due parti, aprendo nuovi e ricchi dialoghi e confronti. Figurati, non succederà mai, a chi interessa?, mi dicono colleghi con cui mi è capitato di parlarne.

Io insisto. D’altronde la tenacia l’avrai pur imparata da qualcuno?

Cavernicoli dei nostri giorni

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thecroodssneakpeek-11413di Irene Auletta

Negli ultimi dieci anni le sale cinematografiche che proiettano cartoni animati, hanno subito vere trasformazioni antropologiche visibili agli occhi del comune spettatore che abbia avuto la pazienza di seguirne l’evoluzione. Se da una parte sono sempre più presenti adulti o ragazzi appassionati del genere, la netta maggioranza è composta da adulti che accompagnano i loro figli che negli anni, sono diventati sempre più piccoli. Una volta, anche come tecnico, sconsigliavo ai genitori l’esperienza prima dei cinque o sei anni e per alcuni bambini era necessario anche andare oltre perchè apparivano disturbati da un’esposizione per loro troppo precoce.

Quando al figlio del protagonista, un giovane e impacciato cavernicolo, accade una certa cosa, il signore seduto dietro di noi che non smette un secondo di commentare quasi fosse comodamente sdraiato nel salotto di casa sua esclama, vedi cosa ti dice sempre papà, si impara dall’esperienza!

Vabbè, sta disturbando da un po’ però almeno fa un commento educativo di tutto rispetto. L’illusione dura pochissimo perchè mi accorgo che alle mie spalle saltella, piagnucola e protesta, un bimbetto di non più di tre anni che dopo circa quindici minuti dall’inizio del film non manca di mostrare tutti i segnali di disagio possibile, rispetto ad una situazione di certo non a sua misura.

Del resto nella sala si possono osservare parecchie situazioni analoghe. Bambini che piangono, che saltano tra le poltrone creando imbarazzo e fastidio agli altri spettatori, genitori che spesso sono costretti ad uscire e altri ancora che si arrendono uscendo dalla sala a metà proiezione.

Tornando al bambino di poco fa, ha passato tutto il secondo tempo a saltare per le scale, spesso rincorso e richiamato dal padre, con un immancabile succhiotto che ha tenuto in bocca per tutto il tempo. Se solo si guardassero e ascoltassero più spesso, i bambini ce la mettono tutta per inviarci segnali di aiuto.

Da uno a dieci, dimmelo quanto ti è piaciuto?

Per fortuna il film è terminato e questa è l’ultima frase che riesce a raggiungermi del fastidioso signore che ho cercato di ignorare per tutta la durata del film, senza riuscire a volte a nascondere il mio fastidio e, in parte, il dispiacere nel vedere adulti così smarriti e confusi.

Scorrono i titoli di coda, accompagnati da una forte musica mentre una bambina che sembra ancora incerta sulla gambe, si esibisce in una danza scatenata con tanto di movimento di bacino, quasi a imitare i movimenti sensuali che spesso scorrono sugli schermi televisivi.

Ci guardiamo noi tre. Vuoi dire che alla fine i più normali sembriamo noi?

Ridiamo della tua battuta e ridiamo guardando nostra figlia che sembra divertita e  assai incuriosita da alcune delle bizzarrie che ci circondano. Così è la vita.

Cuori analfabeti

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cuori analfabetidi Irene Auletta

Com’è noto, quando gli eventi accadono nelle nostre vicinanze, ne sentiamo più forte la tensione e il calore, così come mi è accaduto qualche giorno fa rispetto ad un grave incidente stradale che ha coinvolto la giovane figlia di conoscenti.

Ho saputo di tua figlia, mi dispiace molto, immagino la vostra paura e preoccupazione.

Il padre, esibendo una chiara dissociazione tra ciò che contengono i suoi occhi e le sue parole dichiara quasi con tono freddo che sono cose che succedono.

Quante volte ho sentito questa frase da mio padre e da mia madre, di fronte all’inspiegabile, al dolore insopportabile e allo smarrimento provocato da notizie incomprensibili. Ero molto giovane e ricordo ancora bene la voce rotta di mia madre mentre mi annunciava per telefono, la morte di sua madre, mia nonna. Lo stesso ricordo mi raggiunge rispetto ad un’analoga comunicazione da parte di mio padre, ma questa volta riguardava suo figlio, mio fratello. Entrambi incapaci di accogliere una solidarietà dolorosa respinta quasi sempre prontamente con la solita frase, sono cose che succedono.

E’ in tal modo che, molto spesso senza alcuna consapevolezza, si insegna ai figli come rapportarsi con le emozioni forti e affrontare le situazioni di grande difficoltà. Si finisce così, sin da bambini, con il ricevere messaggi precisi che veicolano significati e indicazioni di modalità per stare al mondo.

Smettila di piangere, non ti sei fatto nulla!

Quante volte l’ho sentito dire a genitori o a educatori nei servizi per l’infanzia. Li osservo di fronte al mio invito che interroga il senso di quell’affermazione e la possibilità di introdurre cambiamenti che consentano al bambino di esprimere con maggiore libertà le proprie variegate emozioni.

Mi ci sono voluti anni di lavoro, a volte durissimo, per evitare di ringhiare nei momenti di sofferenza e, ancora oggi, ogni tanto mi scappa. Sono cresciuta confusa rispetto alla gestione del dolore e come molti, da adulta ho dovuto scoprire nuove strade e possibilità per affrontare le “cose che succedono”.

Invito spesso gli adulti, genitori o educatori, a proporre ai bambini la possibilità di piangere e ho di fronte agli occhi alcuni dei loro sguardi perplessi e quasi sospettosi.

Per me è stato un successo poterci arrivare pian piano e di sicuro mi sento bene quando mi ascolto dire piangi pure, ne hai tutte le tue ragioni e la mamma rimane qui, vicino a te.

 

Insegnare a proteggere

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protezionedi Irene Auletta

In una supervisione di un gruppo di educatori raccolgo domande e pensieri.

Mi trovo in grande difficoltà quando durante il mio intervento a domicilio assisto a scene in cui la madre maltratta suo figlio. Le aggressioni sono sia fisiche che verbali e io, oltre che a tentare di smorzare la tensione, non so che fare.

Mi è capito di osservare lividi sul corpo di un ragazzino che seguo da un paio di anni e di sapere che l’aggressore era stato il fratello più grande. La madre è a conoscenza del fatto ma tende a giustificare il comportamento del figlio maggiore, dicendo che il piccolo è davvero una peste.

In una delle famiglie con cui lavoro c’è un padre violento, soprattutto con i suoi due figli, ma la madre sembra sottovalutare il problema e per me è difficile affrontarlo direttamente.

Mentre ascolto le parole mi raggiungono forti anche le emozioni che le accompagnano di fatica, disagio, difficoltà e, accogliendo i racconti, cerco di tenere tutto insieme per non perdere il valore delle differenti comunicazioni. In occasioni come queste è molto facile fare scivoloni sia nella direzione del giudizio verso quei genitori, che verso una sorta di tecnicismo che si aggrappa a procedure e doveri, perdendo di vista la storia degli individui e le valutazioni possibili.

E’ troppo facile, e sicuramente non sufficiente, dire che alcuni comportamenti non possono essere ammessi, che non è questo il modo di comportarsi, che di fronte ad alcune azioni possono scattare denunce. Chi si occupa di interventi socioeducativi nell’ambito della tutela minorile, sa bene che argomenti come questi sono all’ordine del giorno e che richiedono attenzione e serietà da parte degli operatori che li trattano.

E chi si occupa di educazione quale contributo può offrire, a partire dalla peculiarità del proprio sguardo professionale? Domanda difficile che spesso trova risposte nel tentativo di molti educatori di impossessarsi di linguaggi altrui, psicologici o sociali, per dare un senso a ciò in cui si ritrovano coinvolti. Come se in alcune occasioni il sapere pedagogico si mostrasse troppo debole o sopraffatto dalle analisi altrui per dare spazio alla propria.

Penso a cosa ho fatto io quando mi sono ritrovata in situazioni analoghe come educatore e a cosa faccio, oggi, quando come pedagogista raccolgo storie simili dagli educatori o direttamente dai genitori. Chiedermi cosa possono insegnare alcune esperienze è il mio orizzonte sicuro e, orientadomi verso di esso, di solito mi avvio in una ricerca che cerca di essere attenta e rispettosa delle difficoltà, delle fragilità e dei limiti che incontro. Pensiamo troppo spesso che proteggere i propri figli sia un’azione istintiva e normale, che la si deve saper fare perchè così è scritto. Ma dove?

A volte è necessario chiedersi cosa le persone che abbiamo di fronte sono ancora in grado di imparare e, se ci pare di individuare qualche fessura di possibilità, pensare anche insieme a loro gli interventi necessari, coinvolgendoli nella loro stessa vita e facendogli intravedere percorsi di crescita e di cambiamento.

Mi ritrovo a pensare che se riesco a far sentire protetti gli educatori mentre ne parlano, posso introdurre il tema della protezione anche verso i genitori, affinchè la possano imparare e rivolgere  ai propri figli.

Una mia grande maestra, a proposito dello sguardo rivolto ai bambini, mi ha insegnato l’importanza di distinguere l’azione cattiva dal bambino che la compie. Anche i genitori che compiono cattive azioni, che rimangono tali, possono essere guardati con lo stesso sguardo. Forse proprio lì, da quella prospettiva, è possibile ascoltare cosa ci può suggerire l’educazione.

Giù le mani

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IMG_1803di Irene Auletta

Ricordo molto bene come, tanti anni fa, incontrando le educatrici dei servizi per la prima infanzia ho iniziato a trattare temi relativi al contatto fisico con i bambini e alla necessità di pensare e ripensare il lavoro educativo come occasione per svelare e nominare gli eccessi possibili nei gesti di cura. Da allora ho attraversato parecchi servizi e, nei vari luoghi di formazione e supervisione, questo tema è riapparso sovente tra quelli ricorrenti e sempre attuali.

Pochi giorni fa, in un centro per bambini disabili, la scena si è ripetuta e mi sono ritrovata a nominare l’attenzione necessaria nell’incontro con il corpo altrui e con la sua persona. E’ possibili che nove o dieci operatori mettano le mani addosso allo stesso bambino? Accompagnare in bagno per il cambio, assistere durante il pranzo, imboccare, pulire la saliva alla bocca oppure il naso, aiutare a vestirsi o svestirsi, sostenere nella miriade dei piccoli movimenti quotidiani.

Solo facendo l’elenco mi viene prurito lungo tutto il corpo.

Quando il gesto arriva dall’esterno non sempre riesce a rispettare il tempo, la misura e il tono necessario e immagino quanta tolleranza, pazienza e disponibilità sia necessario, da parte di chi lo riceve, per non mettersi a urlare o a scalciare.

In realtà a volte i bambini o ragazzini disabili lo fanno con il rischio che, prontamente, gli operatori o i loro stessi genitori, sfoderino le migliori interpretazioni. E’ aggressivo, ipercinetico, ha un brutto carattere, fa i capricci, non è collaborante e via di questo passo in un elenco che ognuno può arricchire grazie alla sua esperienza o fantasia.

Io soffro tantissimo e mi accade sempre. Quando all’asilo nido pensavo ai bambini piccoli e alle interferenze continue delle educatrici, quando penso alle condizioni di bambini e ragazzini disabili che non sono in grado di esprimersi liberamente, quando penso alle condizioni di alcuni anziani non più in possesso di tutte le loro facoltà di adulti. Anche loro come i piccoli e i disabili, ogni tanto vengono definiti capricciosi o monelli.

Soffro quando penso a mia figlia, al suo passato, al suo futuro e all’ignoranza che ancora è presente nella cultura e nei servizi che ruotano intorno al mondo della disabilità.

Ogni tanto sono presa da un grande sconforto e mi chiedo cosa è possibile fare, oltre a quello che provo ad attivare quotidianamente come genitore e come pedagogista. Come reazione, cerco di non perdere occasione per fare nuovi pensieri e ipotizzare nuove azioni.

L’altro giorno, sempre nel centro per bambini disabili, osservavo gli operatori coinvolti nella supervisione. Sono persone, stanno imparando anche loro e sono certa che cercano di svolgere al meglio il loro lavoro. Ho provato un sentimento di fiducia e mi auguro che avvicinando i loro bambini ricordino le parole e le emozioni dell’incontro.

Il gesto, di per sè, è solo un automatismo. Farlo diventare educativo  e amorevole richiede tempo, pensiero e riflessione.

Abbiate pazienza bambini, pian piano arriviamo anche noi.

Polpettoni pedagogici

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polpettone pedagogicodi Irene Auletta

Madre e figlio in coda al supermercato. Il ragazzino sta facendo delle richieste con insistenza e, per tutta risposta, la madre pare recitare sermoni che pongono al centro la poca riconoscenza del figlio e il suo non essere mai contento di nulla.

Padre e figlia al bar parlano dei doni  natalizi e dello scarso rendimento scolastico. Pensi di meritarti di più di quello che hai ricevuto? Se alla tua età, in seconda media, avessi portato a casa una pagella come la tua, mio padre mi avrebbe anche sospeso quella misera mancetta che mi dava, altro che regalo a Natale!

Leggo un articolo online. Una madre “ha deciso di regalare un iPhone al figlio tredicenne Gregory. Il regalo però era accompagnato da un vero e proprio contratto di 18 punti che il figlio ha dovuto sottoscrivere per ricevere e potere utilizzare lo smartphone”. Meritano davvero di essere letti tutti, i diciotto punti.

Ci continuo a pensare, e qualcosa proprio non mi convince.

E’ come se in tutti questi esempi sentissi un tono lamentoso, più da omelia che da commento educativo. Sia chiaro, non mi chiamo fuori dal coro e non voglio puntare il dito verso nessuno, ma mi piacerebbe provare a interrogare il fenomeno, perchè di fenomeno si tratta.

Ricordo la direttrice straordinaria della scuola per educatori in cui ho insegnato per quindici anni. Me la vedo davanti agli occhi mentre gesticolando, come solo lei sapeva fare, dice: il guaio di tanti pedagogisti ed educatori è che sono noiosi e pedanti! In effetti è proprio la pedanteria che trovo stucchevole nelle prassi educative e l’essere noiosi, aggiunge solo il tocco finale. Ma allora, come mi diceva qualche giorno fa una collega, bisogna per forza essere brillanti per insegnare qualcosa?

Certo che no. E’ vero, ci sono nella memoria esempi di genitori o insegnanti importanti, che hanno saputo insegnare qualcosa nonostante, o forse anche grazie, il fatto di averlo fatto in modo noioso. Ma tra l’essere sempre brillanti e il diventare man mano solo opachi, ci saranno pure terre di mezzo.

Mi trovi noiosa figlia mia? I miei studenti mi avranno trovato noiosa?

Certo il connubio noiosa e anfetaminica, deve essere mortale, ma io apparterrei senza dubbio proprio a quella categoria. Quello che però mi preoccuperebbe di più sarebbe essere o diventare, noiosa e pedante perchè so bene che effetto mi fanno le persone così. Mi fanno spegnere e, insieme alla voglia disperata di scappare, raramente mi lasciano tracce significative dell’incontro.

Il dito pedagogico puntato contro e che prescrive certo non è il massimo, ma vogliamo parlare anche delle logorroiche chiacchierate educative che si presentano fintamente come molto democratiche?

Non è facile, lo so. Siamo educatori e genitori alla ricerca di nuovi stili, modelli e significati. Mi piace la sfida e ci voglio proprio provare.

Un piatto di spaghetti alle vongole veraci?

Bellezza e amore

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luci verdi bisdi Irene Auletta

Le donne e le madri sanno bene di cosa parlo quando immaginano di tenere tra le braccia un bambino piccolo e di ricevere lusinghe e complimenti dagli sguardi e dalle parole di chi incontrano. Le madri che hanno esperienze con figli disabili lo sanno per differenza perchè magari alcune emozioni non le hanno mai potute sperimentare oppure non sono riuscite a godersele appieno, amareggiate dai sospetti o dalle certezze già intrecciate alla vita futura dei loro figli. Il binomio disabilità e bellezza mostra spesso un suo lato acidulo, difficile da afferrare, a volte stucchevole o forzato, sempre complicato e doloroso.

Nelle parole degli operatori socioeducativi ho spesso sentito il giudizio severo verso genitori noncuranti che, in tal modo, sottolineavano le scarse possibilità estetiche che madre natura aveva offerto al bambino o ragazzino in questione. E’ vero. Prendersi cura è un atto di amore, prima che di responsabilità e i tempi per farlo sono diversi a seconda delle esperienze, delle storie individuali e delle possibilità che ciascun genitore riesce a mettere in campo. Certo poi, la disabilità di un figlio, non facilita le cose e allora può essere che per taluni sia difficile prendersi cura di un figlio che si fatica a riconoscere.

La cultura in cui siamo tutti immersi, con i relativi canoni estetici, è solo la ciliegina finale.

Eppure, forse proprio attraverso questa esperienza, io sento di riconquistare ogni giorno un’idea di cura e di bellezza, capace di dar valore a quell’originale lì, con quella forma del corpo e quel riflesso variegato dell’anima.

Sono una grande sostenitrice dell’idea di riprendere in mano la bellezza come tema dell’educazione, insieme al gusto del bello, del suo sapore e della sua possibilità di ascoltarla. Mi piace offrire a mia figlia occasioni che le permettano di imparare qualcosa di nuovo proprio in tale direzione. Una bella scena della natura, colori nuovi e luci magiche, sapori con profumi originali, suoni e canti dolci e armoniosi, esperienza positive di contatto corporeo e, via di questo passo.

Credo che sia molto facile farsi schiacciare dal peso delle fatiche, delle delusioni e dei dolori fino a smarrire totalmente l’idea di bellezza di cui ciascuno di noi è portatore ma, come genitori, questa sarebbe una perdita pesante e per questo, su questa via, ho sempre fiducia nella possibilità di proseguire nella scoperta, nella ricerca e anche nell’insegnamento.

Mi piacerebbe che anche molti operatori tenessero sempre aperta una riflessione in tal senso, che i luoghi di accoglienza parlassero delle loro attenzioni agli aspetti di cura, che l’estetica fosse considerata sempre di più in relazione all’anima che al corpo e che, tra le finalità dei servizi educativi, ci fosse anche quella di sostenere e aiutare quei genitori che ancora non ce la fanno perchè il dolore rende tutto brutto.

Purtroppo la disabilità è ancora circondata da tante brutture e chi di noi se ne accorge, come genitore o come operatore, può fare qualcosa senza comportarsi da struzzo.

Ci sono giorni in cui faccio più fatica ad alzare la testa, la tristezza mi fa chinare il capo fino a quando una mano viene a cercarmi per attirare a sè l’attenzione e farmi uscire dall’ombra. Bellezza e felicità, sono la nostra sfida da quindici anni.

Andiamo amore, oggi vengono a pranzo i nonni. Che ne dici di farci trovare proprio carine?

Anime in pena

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anime in penadi Irene Auletta

Nel mio lavoro raccolgo storie.

Storie di amori, di passioni, di dolori, di gioie e di tradimenti.

Le vicende di tradimento sono tra le più delicate da trattare e a volte, nell’ascoltarle, si crea uno spazio empatico così potente che mi pare di essere lì, tra le pieghe di quelle emozioni e di quel senso di smarrimento.

Certo che spesso sono coinvolti gli uomini o le donne, compagni di vita, ma altrettanto di frequente il senso di tradimento si estende ai propri genitori, ai figli, alla vita stessa.

Qualche tempo fa un padre, guardando negli occhi sua figlia sedicenne, gli ha detto con rabbia e amarezza: tu, sei la mia più grande delusione. Non è anche questo una sorta di tradimento?

Nei dibattiti al femminile, e forse anche in quelli al maschile, trovo che su questo tema ci sia ancora molta strada da fare, perchè le questioni dell’amore e della passione sono ancora molto spesso legate a quelle del possesso dell’altro e della radicata idea di proprietà. Ogni tanto mi sembra di essere ancora immersa nel clima di alcune commedie italiane, dove Monica Vitti e Alberto Sordi ci hanno fatto ridere, piangere e sognare.

Forse oggi, dopo aver incontrato i miei personali tradimenti, mi piace spostare il piano dalle persone ai sentimenti, perchè sono proprio loro quelli che vengono traditi.

Per andare oltre credo sia importante imparare andare a fondo di quel dolore per scoprire cosa ci racconta di noi, delle nostre storie e del nostro modo di stare nelle relazioni. Solo così possiamo andare oltre l’idea che il tradimento sia associato solo alle mitiche corna del compagno o della compagna, volgendo lo sguardo a quella, ben più complessa, che molte volte ognuno di noi agisce verso se stesso. Si, il tradimento peggiore, credo sia proprio questo, ma è anche il più difficile da riconoscere, da trattare, da scaldare tra le mani.

Sarebbe bello insegnarlo ai nostri figli o ai ragazzi che incontriamo nel nostro lavoro. Magari lo stesso si può fare anche con alcuni adulti, senza negarne le fatiche e le sofferenze ma rilanciando la possibilità di imparare qualcosa su di sè e sulla propria visione del mondo.

Penso a quel padre e a quando l’ho incontrato da solo, invitandolo a parlarmi della delusione che aveva quasi urlato in faccia alla figlia. Incontro caldo, quasi sospeso nel mondo. Uscendo dalla porta ho visto le sue spalle curve, schiacciate dalla delusione verso se stesso. La prossima volta che lo incontro spero di riuscire a fargli intravedere ciò che da questa esperienza può imparare sul suo essere padre e sulle nuove possibilità per incontrare la figlia.

A volte, imparare, costa caro.

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