Nutrire l’amore

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nutrire l'amoredi Irene Auletta

In supervisione un’educatrice racconta di una situazione che sta seguendo nel suo intervento domiciliare presso una famiglia e di come spesso entrambi i figli, di quattordici e di dieci anni circa, reclamino attenzioni e bisogni legati al cibo.

In particolare, racconta, sono rimasta molto colpita un giorno in cui i ragazzi chiedevano di continuo alla madre la merenda e lei ha tergiversato fino a quando il figlio piccolo si è accorto, arrabbiandosi molto, che quasi di nascosto si era preparata un budino per sè senza offrilo a loro.

Difficile comprendere alcuni comportamenti magari molto distanti dai nostri e troppo facile è cadere nella trappola dell’immediato giudizio o delle valutazioni affrettate. Spesso nelle situazioni di grave disagio o disabilità che incontriamo come operatori socioeducativi, le questioni legate al cibo sono ricorrenti, sia in difetto che in eccesso.

Il nutrimento ha tanto a che fare con quello che si crea, sin dal primo giorno di vita, nella relazione tra genitori e figli e, in particolar modo, in quella che coinvolge la madre come prima figura adulta solitamente protagonista di questa delicatissima fase della cura.

Di frequente mi ritrovo a trattare questioni simili sia con gli educatori che con gli stessi genitori, provando a stare in equilibrio tra ciò ho imparato negli anni di professione e quello che ho attraversato nella mia esperienza di madre.

Ricordo molto bene il giorno il cui all’età di quattro anni ti strappasti l’ennesimo sondino nasogastrico per l’alimentazione forzata e il tono del medico che mi indicava l’urgenza che ti obbligassi a mangiare. L’ansia legata al cibo e alle tue difficoltà di alimentarti era allora il mio pane quotidiano. Un giorno, piangendo, ti dissi sottovoce che non ti avrei mai più obbligato a mangiare e che avrei solo cercato di aiutarti, per come ero capace, a fare i piccoli sforzi necessari alla tua sopravvivenza. Anche tu allora eri tanto arrabbiata, perchè stavi molto male e quel modo di ricevere amore proprio non lo sopportavi.

Presi coraggio e comunicai al medico quella che da quel momento sarebbe stata la mia posizione. Allora non sapevo ancora come me la sarei cavata ma di certo avevo deciso che il mio amore avrebbe trovato altre vie per nutrirti.

Con un salto nel tempo, torno al racconto dell’educatrice e seguo lo snodarsi della discussione che coinvolge anche le altre persone presenti. Rispetto all’inizio dell’incontro i toni cambiano e anche le parole iniziano ad assumere sfumature differenti. Intorno al tavolo, il cibo e il nutrimento assumono nuovi significati e prendono la forma di qualcosa che, sempre e comunque, ha a che fare con l’amore anche quando questo sembra essere sopraffatto dalle ombre.

Disabilità di chi insegna

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sfumaturedi Irene Auletta

Girovagando nel web mi colpisce uno scambio tra alcune persone che immagino essere sia genitori di figli disabili che insegnanti. Si parla di integrazione scolastica, di fatiche, di insegnanti di sostegno che cambiano di continuo. Molte polemiche e poca sostanza ma, proprio mentre sto per passare oltre, mi trattiene una domanda.

A volte ho proprio l’impressione che le diverse insegnanti incontrate da mio figlio abbiano sempre dovuto prima imparare loro cosa fare e poi, quando arrivava il momento buono, se ne andavano. Possibile che rispetto alla disabilità sia così difficile capire quali proposte fare ai ragazzi a scuola o nei vari centri? 

In fondo, prosegue un’altra voce attiva nella conversazione, le insegnanti dovrebbero essere preparate ad insegnare cose ben più difficili.

Ecco cosa mi ha colpito. Proprio quella parola lì, difficile.

Non posso fare a meno di pensare ad aule di sostegno, o centri per ragazzi disabili, dove, soprattutto in passato, mi è capitato di osservare giochi e materiale didattici assai simili a quelli che in tanti anni di esperienza ho avuto modo di incrociare in molti servizi per la prima infanzia.

So bene che la differenza non la fa il materiale in sè ma come gli insegnanti o  gli educatori lo utilizzano, ma non posso fare a meno di pensare che il problema, forse, sta proprio nel rapporto tra facile e difficile. Pensando, attraverso un pensiero che banalizza, che il ragazzino disabile abbia bisogno di fare qualcosa di più facile, rispetto agli altri suoi coetanei senza difficoltà, ho l’impressione che si commetta il medesimo errore di una nota storiella zen.

Una mosca tenta di uscire dalla finestra continuando a sbattere contro l’anta chiusa. Se solo si spostasse di poco potrebbe uscire da quella adiacente aperta. Ma la mosca, non lo sa.

Il problema non è semplificare le abilità altrui ma attivare un processo di scoperta e ricerca rispetto a quelle della persona che si ha di fronte, alle sue abilità e possibilità. Rendere più facili compiti a volte impossibili, non vuol dire accogliere la diversità dell’altro ma schiacciarla sempre di più all’interno di un confronto impossibile da sostenere, perdendo l’occasione di insegnare e imparare qualcosa di nuovo. Ora che ci penso, mi pare che questa considerazione valga anche per molti altri ragazzini senza alcuna disabilità.

Abbiamo urgente bisogno di insegnanti ed educatori con diverse abilità. Ci sono tanti ragazzi più fortunati di altri, ma sarebbe anche ora di smetterla di affidarsi alla fortuna. Troppo facile, no?

Sfumature della cura

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le sfumature della curadi Irene Auletta

Mi è sempre parsa un po’ riduttiva l’idea della cura maschile associata ai nuovi papà alle prese con pappe e pannolini, tante volte raccolta dalle voci femminili. Mio marito mi aiuta tantissimo ed è proprio un papà moderno, non ha nessun problema ad occuparsi del bambino e anche lui si sveglia di notte! 

Evviva. Detto questo però mi pare importante provare ad andare oltre i primi due o tre anni di vita per esplorare quelle possibilità di cura che, accompagnando i figli nella crescita, sappiano fare un saltino dopo le cure primarie solitamente rivolte ai piccoli. Mi piacerebbe anche allargare il pensiero pensando ai tanti padri separati che si ritrovano da soli ad occuparsi di qualcosa che conoscono poco, ai padri che incontrano figli che richiedono cure primarie anche dopo i primi anni di vita e a tutti quegli uomini che, come figli, si trovano ad occuparsi di genitori anziani, bisognosi di cure non come bambini, ma come persone adulte invecchiate.

Non so bene come organizzarmi perchè finora certe cose le ha sempre fatte la mia ex moglie e ora mi ritrovo a dover imparare tanto di nuovo…

Sono tornato a vivere con mia madre che è rimasta sola e ha bisogno di essere aiutata in tante piccole faccende …. per fortuna al momento è ancora abbastanza autonoma.

Prendersi cura dell’altro tocca corde delicate e intime per tutti, uomini e donne. Forse in questo momento gli uomini coinvolti nella cura possono orientare anche le donne a dire delle loro fatiche, aiutandole a non assumere sempre e a tutti i costi quell’atteggiamento di chi ha nel dna indicazioni infallibili.

Una collega mi racconta di come si è ritrovata a fare il bagno a suo padre anziano e poco presente e, sicuramente per sdrammatizzare un momento difficile mi dice,  pensa che stranezza vederlo nudo … non ho potuto fare a meno di pensare che io sono venuta proprio da lì.

Se gli uomini devono imparare a prendersi cura, le donne possono cogliere l’occasione per provare a ridare voce e senso a gesti smarriti nella memoria collettiva e nascosti come poco nobili tra tante mura domestiche.

Più di una madre mi ha raccontato il giorno in cui la figlia disabile ha avuto il ciclo mestruale, come “il più brutto della mia vita” e tante donne condividono il bisogno di trovare significati nella cura di genitori anziani malati e persi in mondi di tramonto senile. Magari gli uomini raccontano meno ma li immagino alle prese con questioni assai simili.

Curare è difficile per tutti, uomini e donne. Riuscire ad andare oltre le prime pappe mi pare proprio una bella conquista, sia per esplorare la molteplicità dei significati legati alla cura che per permettere l’intreccio di nuovi racconti, al maschile e al femminile.

Figli fragili

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figli fragilidi Irene Auletta

Spesso nel confronto tra genitori emergono frasi comuni in cui ci si riconosce e rispecchia. Figli che fanno preoccupare, soffrire, gioire, sperare. Figli amati in un percorso di ricerca e che, fuori dalle attese, prendono il loro posto nel cuore e nelle relazioni per quello che possono essere e sono.

Ma poi, non dovrebbe essere così per tutti i figli?

Se avessi una figlia diversa che madre sarei? Impossibile a dirsi perchè ho sempre pensato che la differenza la fanno i figli che incontri . Ed io, ho incontrato proprio te.

Per lavoro incrocio tue coetanee che abitano un mondo che pare distante anni luce dal tuo e mi ritrovo di fronte a pensieri assai ambivalenti. Non penso più da anni come saresti tu se non fossi tu ma non ho mai smesso di chiedermi che storie differenti avrei potuto incontrare e, sopratutto, come me la sarei cavata.

Ma i nostri figli sono diversi, sono persone fragili che avranno sempre bisogno del nostro aiuto. Smetterò mai di soffrire? Avrei preferito fosse stato disabile.

Così mi dice una madre mentre mi racconta di un figlio con una grave malattia. Non sa la signora quanto posso capirla e neppure immagina, forse, che dietro quell’abito professionale ci può essere una madre che, senza esprimere alcuna preferenza, ha ricevuto un doppio regalo dalla vita, disabilità più malattia. Naturalmente, la mia idea del “dono” è ironica e invito tutti coloro che possano anche solo vagamente pensarla così a immaginarsi loro, con i loro figli in quella situazione. Se poi continueranno a sentirsi fortunati e premiati da diversi doni, tanto di cappello.

Torno a pensare a te e all’idea di fragilità che tante volte ti calza perfettamente, quando ti vedo bloccata in quel mondo senza parole che sembra non concedere possibilità neppure alle emozioni più elementari. Ieri ti sei bloccata di fronte ad un pulmino giallo, di quelli che hai preso per anni e che ora hai dovuto salutare insieme all’esperienza di scuola fatta fino a pochi mesi fa. Te l’abbiamo detto tante volte ma ieri proprio non ne volevi sapere. Tu ci volevi tornare a prendere quel pulmino e delle mie spiegazioni non ti importava nulla. Quando il pulmino è passato lasciandoti lì vicino a me sul marciapiedi, hai iniziato a piangere in quel modo inconsolabile che non ammette parole.

Dietro quel pianto ho intravisto mondi di significati possibili. Ma, saranno stati proprio quelli i tuoi, quelli che magari avresti voluto raccontarmi o ti aspettavi che io comunque capissi perchè, per la miseria, sono tua madre?

In silenzio ti ho abbracciato a lungo in mezzo al traffico e ai passanti, avvolte in una bolla fragile e nella speranza di un’unica forza, quella del nostro amore.

 

Sogni al mattino

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sogni al mattinodi Irene Auletta

Molti genitori con figli “grandi” ricordano i primi anni di vita del figlio narrando di notti insonni che sembravano non finire mai. Per chi invece sta ancora attraversando quella fase, sembra impossibile pensare che un giorno passerà. Nella gran parte delle situazioni la questione si risolve nel giro di qualche anno e in quel tempo, le madri e i padri coinvolti in questa non facile avventura, avvertono un pizzico nella pancia ogni volta che altri esclamano mio figlio? mangia e dorme!

Per pochi altri invece ci vogliono molti più anni e a volte, ancora dopo sedici anni, la notte si possono rubare strani dialoghi.

Che ore sono? Le tre. Vai tu o vado io?

Che ore sono? Le nove, per fortuna alla fine ce l’ha fatta. Si è appena addormentata.

Questi genitori, è vero che sono una minoranza, ma sanno bene di non essere gli unici e insieme agli altri, ormai hanno finito di parlarne o di vivere la situazione come una tragedia, perchè ognuno ha trovato un suo modo per viverla come può e come riesce. O almeno, così auguro a tutti coloro che si ritrovano in situazioni analoghe.

Mi piace parlarne perchè all’inizio io credevo di impazzire ed ero certa che non sarei sopravvissuta. A questo e a molto altro ancora. In realtà il tempo e l’esperienza raccolta possono davvero produrre cambiamenti inattesi a patto che prima, ci si arrenda, convogliando l’energia della lotta nella ricerca di possibili strategie.

Mi piacerebbe raccogliere altre testimonianze perchè sono certa che farebbero bene a molti e che potrebbero aiutare ad incontrare il nuovo giorno con un atteggiamento più amorevole.

Ma a me che, come tanti, comincio ogni giornata con pensieri di rabbia, rassegnazione e inadeguatezza, la sua storia continuerà a insegnare che con l’amore si può fare tutto e che tutto, nella vita, va fatto con amore.  Così Massimo Gramellini , ricordando Augusto Odone, conclude il suo Buongiorno di qualche giorno fa.

Ci sono storie che vivono giorno e notte, anche inventando cose folli per dare un senso alla loro realtà. Sono storie che ridanno nuovo spazio alle emozioni e alle vicende della vita.

Mentre finalmente stai crollando non posso fare a meno di fare la mia solita battuta. Scommetto che stanotte babbo non ti ha raccontano nulla. Per la prossima notte mamma ha già pronta una bella sorpresa per te.

 

Uguaglianze diverse

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uguaglianze diversedi Irene Auletta

In coda al supermercato due donne stanno scambiandosi pensieri sui figli adolescenti e mi accorgo senza alcun stupore che ricorre più volte la solita frase “come tutti quelli della loro età”. Tante volte nel mio lavoro con i genitori mi sono chiesta quanto li aiuti sapere che la medesima difficoltà o problema è largamente condiviso da altri adulti con il loro stesso ruolo.

Mi piace aver sempre presente i due sguardi possibili che intrecciano ciò che accade “da manuale” in un certo momento di crescita e quanto sta accadendo proprio a quel bambino o quel ragazzo lì e nelle relazioni che lo circondano. Se già trovo abbastanza superficiale uno scambio simile tra due genitori, lo trovo decisamente debole quando ad essere coinvolto è anche un professionista dell’educazione.

La questione poi viene travolta dalle bizzarre onde della banalizzazione quando l’altro porge ed esprime differenze innegabili e visibili ai più. Non solo perchè magari il suo corpo o la sua mente hanno chiaramente particolari caratteristiche ma anche perchè ce li ha la sua storia. Penso ad un bambino di nove anni, lasciato da entrambi i genitori, vissuto quasi da sempre con i nonni materni che di recente ha perso il nonno, per lui importante riferimento. Davvero alcuni dei suoi comportamenti possono essere liquidati pensando agli stessi esibiti da bambini della sua stessa età?

La madre di una ragazza di quattordici anni mi racconta un momento di particolare difficoltà che sta attraversando la figlia e con commozione non nasconde di essersi chiesta “perchè queste cose accadono proprio a mia figlia?”. La signora in questione sa bene che anche altre ragazze attraversano le medesime difficoltà ma lì porta sua figlia e il suo affetto per lei. Si illumina quando le dico che come madri possiamo sapere tante cose ben solide nella nostra testa ma quando siamo preoccupate per i nostri figli dobbiamo fare i conti anche con il nostro cuore. Per quello, non ci sono riferimenti a troppi manuali.

Penso a lei e penso a me.

Vedo mia figlia tra ragazzi della sua età, nuovi compagni di un pezzetto della sua storia. Sembrano universi lontani accomunati solo da un dato anagrafico o almeno, così a me pare mentre osservo una scena nuova. La trovo sdraiata a riposare da sola in una stanza sconosciuta. Mi accoglie seria, senza il sorriso del giorno precedente come persa a chiedersi dei confini di quel luogo. Da anni mi faccio le domande che lei non può farsi per spiegarsi il mondo che incontra e i suoi cambiamenti.

So che non sei più piccola e che puoi sostenere anche questo momento ma non posso fare a meno di coglierti un po’ abbandonata mentre una mano invisibile mi serra la gola. In auto non mi guardi e non rispondi ai miei tentativi di riprendere un contatto con te. Mi asciugo quasi di nascosto le lacrime.

Tutti così questi adolescenti!

Teniamoci per mano

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“Fb mi chiede a cosa sto pensando…..Penso alla giornata di oggi, penso a mia figlia Ester che stamattina alle 8 era pronta per andare a manifestare pacificamente, penso alle dimostrazioni sincere di attenzione di alcuni simpatizzanti e persone sensibili alle problematiche che quotidianamente affrontiamo, penso all’assenza di risposta del Comune, penso che i nostri ragazzi hanno rischiato, per il caldo, di avere le convulsioni davanti al Palazzo e nonostante tutto volevano rimanere. Penso che domani ritorneremo a Piazza Pretoria, silenziosamente, civilmente, a chiedere un po’ di attenzione, penso che non possa essere possibile non tendere la mano per aiutare chi soffre. Ma forse sono io che, invecchiando, divento più fragile, più sensibile? oppure non riesco ad abituarmi alla non-cultura di ignorare il più fragile? In ogni caso, domani noi ci saremo. Noi saremo ancora davanti Palazzo delle Aquile, in silenzio, portando con noi solo il sorriso un po’ malinconico dei nostri meravigliosi ragazzi….”

radici intrecciatedi Irene Auletta

Mi raggiunge così, nella zona vicina al cuore, il post di Fiorella, madre di una figlia adulta che come tanti genitori sta cercando di affrontare il vuoto dei servizi e la precarietà delle proposte da rivolgere a persone disabili. L’ho sentito dire tante volte che “dopo i sedici anni i problemi aumentano” ed in effetti il momento storico ed economico non è certo dei migliori soprattutto in una cultura che purtroppo guarda ancora alle fragilità come un peso e non come un’occasione per esibire coscienza civica e responsabilità.

Non posso dimenticare l’espressione sorpresa di una dirigente di servizi sociali di fronte alle mie affermazioni riguardanti il futuro di questi figli e il desiderio dei genitori di cercare e scegliere il contesto per loro più adeguato. Non è facile trovare un posto, figuriamoci poi scegliere … sarebbe un lusso! La signora in questione mi parlava come professionista del settore ignorando il mio duplice abito, anche di genitore coinvolto direttamente nella questione. Avrei potuto svelarlo sottolineandole che aveva perso una bella occasione per tacere e per connettere lingua e cervello ma, a volte, è meglio andare oltre.

Gli operatori parlano di disabili, di strutture, di fondi, noi parliamo dei nostri figli, della loro qualità di vita e questo a volte traccia una linea di demarcazione insuperabile.

A volte ci si incontra, genitori e operatori, e lì si coglie un tepore speciale, di quelli che fanno sentire a casa. Dovrebbe essere un diritto? La strada è ancora lunga e per questo molte delle nostre mani sono intrecciate a distanza, per infondersi forza e coraggio.

In punta di piedi

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In punta di piedidi Irene Auletta

Mi piace immaginarmi così, quando entro nelle storie altrui e mi ritrovo ad ascoltare frammenti di vita, di amori, di fatiche e di dolori. L’ho scelto anche per professione e condivido questa passione con importanti e preziosi compagni di viaggio.

Nel mio incontro con educatori e insegnanti mi imbatto sovente in affermazioni che immagino familiari a molti, perchè assumono le vesti dei luoghi comuni. Tra le più gettonate ne ricorre una. I genitori non capiscono che facciamo o diciamo alcune cose per il bene dei loro figli!  

Appunto. Il bene dei figli non dovrebbe riguardare proprio i genitori?

Durante un recente colloquio con nonni che hanno perso la loro figlia e si occupano del nipote, il dolore è straripato dalle trame della comunicazione. Voi siete tecnici, non potete capire l’amore … di quello ci occupiamo noi! 

Qualche anno fa forse avrei fatto fatica a capire e ad accogliere reazioni di questo genere, presa anch’io da quel senso di onnipotenza che spinge molti operatori a sentirti portatori della verità. Oggi no.

L’amore e gli affetti cari sono faccende assai delicate. Me lo ha insegnato la vita più che i miei studi ed è un apprendimento che custodisco gelosamente come un oggetto prezioso, ogni volta che incontro storie. Alcune sono più fragili di altre e richiedono una cura ancora maggiore e un grande rispetto.

Qualche anno fa, mentre mia figlia stava attraversando un momento molto delicato della sua vita, un medico mi tempestò di domande e cogliendo il mio disappunto per la sua intrusione sbottò dicendomi che non capivo. Quello che stava facendo era per il bene di mia figlia e non per divertirsi. Chissà se in quel momento, o in altri della sua carriera, quel medico si è mai fermato a pensare che così dicendo stava insinuando che lo stava facendo al mio posto oppure che io non lo facevo abbastanza? Brutta bestia l’arroganza sorella della presunzione.

Però, negli anni, l’ho ringraziato tante volte a distanza insieme ad una cerchia di altri personaggi che mi è capitato di incrociare, come esempio da non dimenticare solo per poterne sempre prendere distanza.

Forse noi tutti, nei nostri incontri, siamo come ballerini della vita. Abbiamo bisogno di passare per la goffaggine, i piedi pestati, gli spintoni per arrivare a gustare l’armonia di un passo in punta di piedi. I più fortunati di noi, riescono anche a volteggiare, ma per questo ci vuole tanta pazienza e un pizzico di magia.

L’era dell’iperbole

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l'era dell'iperboledi Irene Auletta

“Il bambino ha un’accentuata balbuzie e, avendo escluso origini patologiche, i genitori hanno raccontato le loro strategie per incoraggiare il figlio. In realtà quello più coinvolto sembra essere il padre che di fronte alle difficoltà lo sostiene dicendogli ripetutamente che lui è il massimo, che è il numero uno”.

Inizia così il racconto di un’insegnante di scuola per l’infanzia in un recente incontro di formazione che prova a mettere a tema alcune difficoltà nel rapporto con le famiglie e in particolare, con quelle famiglie che si trovano ad affrontare qualche disagio, piccolo o grande, che riguarda il loro bambino e il suo sviluppo.

Cambiano le agenzie educative, i territori di riferimento, gli operatori, ma ci sono episodi che ricorrono con una precisione impressionante sia nelle narrazioni degli operatori, che nelle strategie ricorrenti attivate dai genitori. Quando metto l’accento su questioni più specificamente pedagogiche guidando fuori da pantani psicologici che a volte intrappolano le insegnanti in interrogativi infiniti, ritrovo sguardi perplessi. In particolare, a suscitare dubbi e stupore, sembra essere il mio riferimento alla nostra epoca e all’invasione dei superlativi assoluti in gran parte degli scambi educativi che riguardano bambini al di sotto dei dieci anni. O perlomeno, fino a quest’età mi pare che l’eccesso riguardi un’enfasi su caratteri positivi, dopo ho l’impressione che si assista ad un’inversione di rotta e allo snodarsi di una storia assai differente.

Un’insegnante tra le esperte prende la parola. Ma se la mia generazione è cresciuta con pochissime gratificazioni, una spinta continua verso il senso dovere, un’avarizia di gratificazioni, non è giusto invece riconoscere e premiare per sostenere ed incoraggiare?

Interessante quesito che spalanca porte semantiche. Da quando per incoraggiare l’unica via sembra quella di fare indigestione di “complimenti”? Gli eccessi di ciò che è considerato buono, possono anche far molto male e, paradossalmente, produrre proprio l’effetto contrario di quanto invece sta nelle intenzioni di chi li attraversa. Soprattutto, mi pare che sia importante ritornare alla sostanza, all’essenza e riconoscere senza timori quell’apparenza che getta ombre e fumo nello sguardo di molti adulti, genitori e insegnanti.

Se ad esempio, un bambino esprime insicurezza , bisogno continuo di rassicurazione e incoraggiamento, forse non lo aiutiamo solo rinforzandolo con i vari bravissimo, sei un genio, sei il numero uno. Anzi, personalmente ho parecchie perplessità.

Un po’ nostalgicamente, io sono legata anche ad altre vie e mi piace suggerire differenti percorsi paralleli. Mi piace pensare l’adulto che, da persona grande, consola invitando il bambino a non preoccuparsi e garantendo con forza il suo aiuto. L’adulto che sospende il torrente di parole per far parlare un silenzio affettuoso che stringe fra le braccia e impara a recuperare il valore di tutto ciò che sembra sempre una mancanza.

Educare può essere davvero una meravigliosa avventura ma, per viverla, mi pare giunto il momento di fare parecchia pulizia.

Esperienze speciali

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DSCN5881di Irene Auletta

Lo ricordo bene quel marzo di parecchi anni fa e la mia prima visita alla scuola speciale. Ci ero già stata nelle vesti di operatore e tornarci in quelle di madre non era stato affatto semplice. Ancora una volta di fronte a quelle domande ormai divenute compagne di viaggio.

Perchè proprio mia figlia? Cosa centra con questo posto e con le persone che lo abitano? Come si sopravvive a questo dolore?

Eppure, neppure per un secondo ho pensato che quella non fosse la scelta giusta per te, per offrirti nuove possibilità per imparare e per diventare grande nel rispetto delle tue possibilità e caratteristiche. Ho lottato aspramente, ingoiando chiodi, con chi ha criticato la nostra scelta, chi ha giudicato senza nessun scrupolo, chi non ha trattenuto commenti idioti.

Non sono stati anni facili, perchè la vita non è facile. Però siamo stati fortunati e abbiamo avuto la possibilità di incontrare le due insegnanti che ci sono rimaste accanto per tutto il viaggio e ti hanno insegnato ciò che noi non avremmo mai potuto fare.

Il senso di tutto il percorso, lo ritrovo commossa, proprio in questi giorni di saluti, in tutte le tracce che testimoniano la tua storia degli ultimi anni raccolte in ricordi, racconti, quaderni, fotografie. Tante emozioni che si affastellano e che mi accompagnano oscillando tra un sorriso costante e un magone che mi stringe la gola.

Ancora oggi le domande amiche sono sempre al mio fianco ma sono diventate un po’ più leggere anche grazie agli incontri, alle nuove condivisioni e al passare del tempo.

Si aprono nuove strade, si intravedono altri possibili incontri e l’orizzonte è sempre lì, con i suoi raggi di luce e le sue ombre. Noi non siamo più gli stessi e neppure tu, nonostante il tuo aspetto fatichi a reclamare gli anni passati, conferendoti sempre un aspetto da bambina. Nel nostro bagaglio abbiamo aggiunto un’esperienza importante che tratteniamo, riconoscenti, negli occhi e nel cuore.

Ora, teniamoci forte per mano e andiamo avanti.

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