Gesti che tolgono il fiato

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gesti che tolgono il fiatodi Irene Auletta

Lo dico spesso. Scrivere mi aiuta a capire, pensare, condividere, elaborare. A volte è più facile altre, come stasera, le dita sulla tastiera picchiano forte nel tentativo di liberare attraverso ciascuna lettera la rabbia, lo sconforto e l’amarezza.

Oggi, giornata straordinaria, perchè a causa dell’iscrizione al centro estivo, sono andata a prendere mia figlia a scuola. Di solito rientra con il pulmino che si occupa dei trasporti. L’impatto con la scuola speciale, dopo anni, per me non è ancora semplice, nonostante tante volte ho ripetuto e raccontato la mia esperienza e valutazione molto positiva.

Guarda é arrivata la mamma e c’è anche una doppia sorpresa perchè è insieme al papà.

Immagino te lo abbiano anticipato perchè appena incrocio il tuo sguardo ti vedo già gesticolare felice quasi saltando sulla sedia. Ogni volta è così e, ad ogni nostro incontro, il tuo corpo esprime una gioia grande come se non ci vedessimo da giorni.

L’ingresso della scuola è abbastanza affollato. Bambini, ragazzi e insegnanti attendono il loro turno per avviarsi verso i pulmini che riaccompagneranno a casa gli alunni.  Mi scatta un click e inizio, quasi senza accorgermene, a memorizzare e poi contare, tutte le volte che qualcuno ti tocca, mettendoti le mani addosso. Passano meno di quindici minuti e ho bisogno di uscire, perchè mi manca l’aria.

Penso ad Angela, la mia insegnante Feldenkrais e ricordo tutte le volte che invita ad essere gentili nei movimenti e nel lavoro che facciamo sul nostro corpo.

Sdraiatevi sulla schiena, chiudete gli occhi, ascoltate quello che il corpo vi racconta e vi suggerisce. Il silenzio aiuta un ascolto profondo e va oltre le nostre parole.

Chissà cosa ti dice il tuo corpo, mentre una volta, due, tre, quattro…. ventisei volte, in meno di quindici minuti, mani altrui ti toccano spesso senza alcun preavviso e in modo molto impulsivo. Non lo saprò mai figlia mia e da anni provo a scrutare le tue reazioni per capire, cercando di non interpretare i tuoi comportamenti in base a quello che farei io, se fossi al tuo posto. E io, farei cose brutte.

Qualche giorno fa al bar sotto casa ho ascoltato un frammento di chiacchiere tra nonne. Mio nipote ha solo tre anni e guai a toccarlo. Se un estraneo ci prova lui lo dice proprio, che non vuole essere toccato!

Tu però non hai tre anni, ne hai quindici e non puoi dirlo, nè potrai mai farlo.

Siamo circondati da corpi sordi che non sanno ascoltare, incapaci di stare nelle relazioni con chi non sa dire. Stasera non mi importa  pensare alle buone intenzioni, perchè non sono quelle che metto in discussione.

La prossima volta chiederemo ad Angela di aiutarci. Escludendo l’ipotesi che la mamma possa picchiare tutti, come facciamo a chiedere al mondo di essere gentile con te, anche se non hai parole per dirlo? 

Scoppi a ridere mentre ti leggo le ultime cose che sto scrivendo. Te la immagini la mamma che picchia tutti, vero amore?

Bellezze morbide

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bellezze morbidedi Irene Auletta

Ogni tanto ti osservo  e mi stupisco di come un corpo come il tuo, che ogni giorno deve affrontare mille prove di equilibrismo per muoversi, possa assumere posture così morbide e femminili.

Ieri sera durante la lezione Feldenkrais, che anche tu fai da anni sempre con la stessa insegnante, ho sperimentato ancora una volta la possibilità di movimenti morbidi, rotondi, flessuosi. Ti ho pensata …. sicuramente hai imparato anche da lì.

Da quando abbiamo sostituito quella morbidità con la tensione che sovente accompagna i nostri gesti, il nostro modo di stare e muoversi nel mondo e nelle relazioni?

Penso al modo di camminare che sperimento dopo ogni lezione e mi accorgo di quanto centri poco con le icone che molte di noi hanno interiorizzato come immagini di femminile. Penso anche a come i movimenti del nostro corpo , quando sono rigidi, un po’ a scatti, tesi, riflettono il nostro modo di parlare e di stare nell’incontro con noi stessi e con gli altri.

Non a caso, al termine delle lezioni anche il tono di voce cambia e svaniscono quei toni acuti, a volte aspri, che ogni tanto sentiamo e agiamo nelle nostre comunicazioni verbali. Che belle parole ho sentito stasera, ha commentato una nuova compagna di viaggio.

Angela, l’insegnante Feldenkrais, ti ha insegnato a far uscire la voce anche senza la forma delle parole e dopo ogni seduta, sento che anche tu ne raccogli i benefici regalandoci nuovi toni e sfumature.

Il corpo cresce, si muove e impara anche in presenza di qualche disabilita’ e la sfida, anche stasera, mi pare la ricerca continua della bellezza da insegnarti. In barba a tutti gli immaginari tu per me, figlia mia, sei la prova di cio’ che e’ possibile.

Gesti gentili

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gesti gentilidi Irene Auletta

Dopo diverse settimane sono tornata alle mie lezioni Feldenkrais. Impegni di lavoro mi hanno portato altrove ma davvero ne ho sentito tanto la mancanza. Il mio corpo è arrivato all’incontro bisognoso di cure e ancora una volta, mi ha ricordato l’importanza di dedicarsi tempo, ascolto e attenzione a contrasto di stili di vita che sovente travolgono.

Stasera in particolare mi colpiscono due cose. Angela, la nostra insegnante, ci invita a fare un movimento chiedendoci di farlo sempre più velocemente ma non in modo frettoloso. Ce lo ripete diverse volte a sottolineare la preziosità e il senso importante di quell’indicazione. Se ci si muove con fretta non si sente mentre la velocità permette un apprendimento nuovo. Non è la prima volte che emerge un contenuto analogo e ogni volta mi raggiunge in modo profondo. Mi sembra bella questa distinzione tra fretta e velocità perchè mi pare spinga ad un ascolto intenso che ho voglia di approfondire. Lo colgo come un suggerimento per la vita e per tutte quelle situazioni in cui non si può essere lenti.

Mentre il lavoro prosegue l’insegnante ci propone di fare un movimento e ci chiede di farlo gentilmente. L’invito a essere gentili verso se stessi mi colpisce sempre molto e mi fa pensare a quante poche volte accade realmente. In fondo se essere gentili è un modo di stare al mondo, farlo passare da sè mi pare un ottimo modo per rivolgerlo anche agli altri e alle nostre relazioni.

La gentilezza, da vocabolario, definisce chi ha o denota delicatezza di sentimenti e modi garbati. Detta così mi aiuta a rinnovare il significato di quel “volersi bene” che spesso mi pare più una moda che un senso condiviso. 

Intrecciare il modo garbato con il sentimento mi fa pensare al rispetto, verso di sè e verso gli altri a cui ci rivolgiamo. In tante relazioni che incrociamo ogni giorno, la strada da percorrere è ancora assai lunga.

Stasera mi voglio prendere cura di me con molta gentilezza per poterlo poi fare anche nei confronti delle persone che più mi sono vicine. Forse essere gentili può assomigliare al sasso che gettato nello stagno disegna tanti cerchi a memoria del gesto del lancio.

Penso alle persone che come me sono chiamate ogni giorno a gesti di cura che si ripetono da anni e che coinvolgono il corpo e l’anima dei propri cari. Penso a quante volte la fatica, il dolore fisico e dello spirito, possono spingere ad essere frettolosi e non veloci, bruschi e non gentili.

Ancora una volta mi porto via un’esperienza del corpo che rinforza pensieri e la convinzione che per prendersi cura è necessario curarsi. Se, come Angela insegna, si riesce a farlo gentilmente si sfiora la perfezione.

 

Spalle per volare

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spalle per volare 1di Irene Auletta

Succede così ogni volta. Arrivo alla lezione Feldenkrais, pronta alla sorpresa del viaggio che ci aspetta e a farmi accompagnare nella nuova scoperta da Angela, la nostra insegnante. La proposta della serata riguarda un lavoro sulle spalle e io la ringrazio mentalmente per la scelta, consapevole di trascinarmi da qualche giorno un peso e un dolore ad una spalla in particolare.

E’ fin troppo ricorrente l’immagine dei corpi reclinati per il peso degli eventi e di certo ciascuno potrebbe provare a dare un nome alle fatiche che sente di portarsi proprio sulle spalle, all’interno di un’invisibile ma pesante gerla esistenziale.

Avete in mente cosa portano le nostre spalle? Stasera proveremo proprio a dedicarci più attenzione.

Il lavoro ci aiuta a riprendere contatto con noi stessi e consapevolezza del nostro corpo per terra e nello spazio. I movimenti sono sempre delicati e tanto più profondi quanto lenti.

Mi piace l’invito a riconoscere la direzione dello sguardo che, anche ad occhi chiusi, segue sempre una sua traiettoria. Le spalle pesanti sono sovente accompagnate dagli occhi che guardano a terra o comunque verso il basso. Un senso di chiusura, di protezione, di isolamento che, quasi inconsapevolmente, si finisce con lo scegliere in tanti momenti della vita. Come non pensare ai nostri stati d’animo più faticosi e a quelli che incrociamo, immaginando di fotografare corpi che si spostano a fatica, pesanti e poco disponibili all’incontro.

Penso alla donna alata di Notti al circo e alla ricerca di una leggerezza possibile. L’ho citata proprio qualche giorno fa durante una supervisione proponendo al gruppo di operatori un cambio di prospettiva e una differente direzione dello sguardo.

Alla fine della lezione le braccia sono molto più presenti e le mie spalle decisamente meno doloranti.

Come si fa a sopportare questa fatica? Ma tu come fai?

L’immagine riflessa dalle vetrine a volte è impietosa e allora ci vuole proprio un atto di volontà. Stasera le spalle possono fare di meglio.

Per un momento, basta essere schiacciate dai pesi. Il vento fa uno strano effetto. Le spalle posso essere più libere e insieme all’armonia del movimento delle braccia, mi fanno pensare al volo.

Da qui la prospettiva è un po’ diversa. Respiro.

Giù le mani

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IMG_1803di Irene Auletta

Ricordo molto bene come, tanti anni fa, incontrando le educatrici dei servizi per la prima infanzia ho iniziato a trattare temi relativi al contatto fisico con i bambini e alla necessità di pensare e ripensare il lavoro educativo come occasione per svelare e nominare gli eccessi possibili nei gesti di cura. Da allora ho attraversato parecchi servizi e, nei vari luoghi di formazione e supervisione, questo tema è riapparso sovente tra quelli ricorrenti e sempre attuali.

Pochi giorni fa, in un centro per bambini disabili, la scena si è ripetuta e mi sono ritrovata a nominare l’attenzione necessaria nell’incontro con il corpo altrui e con la sua persona. E’ possibili che nove o dieci operatori mettano le mani addosso allo stesso bambino? Accompagnare in bagno per il cambio, assistere durante il pranzo, imboccare, pulire la saliva alla bocca oppure il naso, aiutare a vestirsi o svestirsi, sostenere nella miriade dei piccoli movimenti quotidiani.

Solo facendo l’elenco mi viene prurito lungo tutto il corpo.

Quando il gesto arriva dall’esterno non sempre riesce a rispettare il tempo, la misura e il tono necessario e immagino quanta tolleranza, pazienza e disponibilità sia necessario, da parte di chi lo riceve, per non mettersi a urlare o a scalciare.

In realtà a volte i bambini o ragazzini disabili lo fanno con il rischio che, prontamente, gli operatori o i loro stessi genitori, sfoderino le migliori interpretazioni. E’ aggressivo, ipercinetico, ha un brutto carattere, fa i capricci, non è collaborante e via di questo passo in un elenco che ognuno può arricchire grazie alla sua esperienza o fantasia.

Io soffro tantissimo e mi accade sempre. Quando all’asilo nido pensavo ai bambini piccoli e alle interferenze continue delle educatrici, quando penso alle condizioni di bambini e ragazzini disabili che non sono in grado di esprimersi liberamente, quando penso alle condizioni di alcuni anziani non più in possesso di tutte le loro facoltà di adulti. Anche loro come i piccoli e i disabili, ogni tanto vengono definiti capricciosi o monelli.

Soffro quando penso a mia figlia, al suo passato, al suo futuro e all’ignoranza che ancora è presente nella cultura e nei servizi che ruotano intorno al mondo della disabilità.

Ogni tanto sono presa da un grande sconforto e mi chiedo cosa è possibile fare, oltre a quello che provo ad attivare quotidianamente come genitore e come pedagogista. Come reazione, cerco di non perdere occasione per fare nuovi pensieri e ipotizzare nuove azioni.

L’altro giorno, sempre nel centro per bambini disabili, osservavo gli operatori coinvolti nella supervisione. Sono persone, stanno imparando anche loro e sono certa che cercano di svolgere al meglio il loro lavoro. Ho provato un sentimento di fiducia e mi auguro che avvicinando i loro bambini ricordino le parole e le emozioni dell’incontro.

Il gesto, di per sè, è solo un automatismo. Farlo diventare educativo  e amorevole richiede tempo, pensiero e riflessione.

Abbiate pazienza bambini, pian piano arriviamo anche noi.

Valori per volare

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valori per volaredi Irene Auletta

Mai come in questo ultimo periodo arrivano nella mia posta elettronica messaggi pubblicitari e link che promettono di aiutare a ritrovare la propria femminilità. Si offrono seni generosi  mostrando altrettanto generosi decoltè e sottolineando la possibilità di porre finalmente giustizia nei confronti di una natura poco favorevole (testuali parole). Immagino che sia anche per la vicinanza delle imminenti festività natalizie e la possibilità di sollecitare questo desiderio, nella letterina per Babbo Natale!

Scorrendo i messaggi mi colpisce come in tutti si evidenzi la necessità di essere maggiorenni e la cosa mi riporta alla memoria la notizia di qualche anno fa che evidenziava l’aumento della richiesta di interventi di chirurgia estetica da parte di minorenni, con  il consenso e l’autorizzazione dei genitori.

Cosa possono insegnare oggi i genitori rispetto al valore del corpo, dell’appartenenza ad un genere, del maschile e del femminile? Credo sia proprio necessario andare oltre il rosa o l’azzurro, le bambole o le macchinine, le trousse per il trucco o le playstation.

Mi pare si debba uscire anche dalla forbice un po’ bacchettona di parlare di quelli che sono i valori veri, come mi diceva una mamma parlando di una figlia senza valori perchè interessata solo alla moda, alla magrezza, all’abbigliamento.

Perchè la cura del corpo, l’estetica, il femminile non sarebbero valori?

Forse il problema non è questo e come genitori o educatori penso sia necessario tornare a esplorare tutti i significati, aiutando le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, a comprendere quali culture vengono veicolati dalle varie immagini. Decidere a priori quelle giuste o sbagliate, in una continua scherma tra etica e morale, è solo un modo per riproporre modelli educativi che dichiariamo da anni obsoleti ma che continuano a ricomparire nelle nostre parole e nelle nostre azioni.

Parlo con una ragazza di sedici anni che mi racconta di come a tredici si procurava il vomito dopo mangiato perchè si vedeva grassa e di come oggi prende delle pastiglie per sentirsi bene. Parlo con alcune insegnanti di scuole medie inferiori che segnalano tra gli alunni il fenomeno di prestazioni sessuali per l’acquisto di ricariche telefoniche o cinture griffate. Ripenso a quella madre che parla con un po’ di disprezzo della figlia che non capisce i valori veri e lei stessa mi pare confusa e abbrutita in un ruolo che sembra solo mortificarla.

Prendo una decisione. Con i genitori e con gli educatori tornerò a parlare, insieme al valore del corpo e della cura, anche dello spazio per la bellezza e per l’estetica perchè anche di questo hanno bisogno le anime, per risplendere.

Padronanze corporee

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“All’inizio l’uomo non sa niente. Niente di niente. Le uniche cose che non ha bisogno di imparare sono respirare, vedere, sentire, mangiare, pisciare, cagare, addormentarsi e svegliarsi. Ma neanche. Sentiamo, ma dobbiamo imparare ad ascoltare. Vediamo, ma dobbiamo imparare a guardare. Mangiamo, ma dobbiamo imparare a tagliare la carne. Caghiamo, ma dobbiamo imparare a farla nel vasino. Pisciamo, ma quando non ci pisciamo più sui piedi dobbiamo imparare a prendere la mira. Imparare vuol dire prima di tutto imparare a essere padroni del proprio corpo.”  Daniel Pennac, Storia di un corpo, Feltrinelli, 2012, p. 23

Queste parole mi afferrano lo stomaco. Mi parlano nel profondo. Non di ciò che ero e sono diventato, troppo lontani quei ricordi sulla mia carne. Mi parlano di ciò che sono oggi e che continuamente divento, da quando sono diventando padre. Non c’è che avere un figlio per capire che sentire e ascoltare, vedere e guardare,  pisciare  e fare i propri bisogni dove i propri bisogni vanno fatti, sono cose diverse. E se il figlio è disabile hai tutto il tempo per capirlo, tutto il tempo che vuoi. Infatti Pennac non è riuscito a cogliere la differenza tra addormentarsi e dormire, che abbiamo dovuto imparare negli anni di sonno perduto, sedimentati sotto i nostri occhi.

Essere disabili, alla fine, significa non essere in grado di diventare padroni del proprio corpo due volte. La prima perchè la disabilità, per definizione, impedisce la padronanza del corpo. La seconda perchè l’assenza di padronanza riduce il corpo alla mercè dei corpi altrui.

Credo sia quello che tenta di dirmi mia figlia ogni volta che devo lavarla, vestirla, portarla, accompagnarla, guidarla. Ogni maledetta volta.

In compagnia del respiro

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di Irene Auletta

Ci sono frasi che ci colpiscono, persistendo nella nostra memoria e gironzolando dentro di noi alla ricerca di un luogo quieto. Stavo leggendo qualcosa a proposito del lavoro sul corpo e delle arti meditative quando ho incrociato una delle tante riflessioni intorno al respiro, al nostro rapporto con esso e alla possibilità di sentirsi e di stare in sua compagnia.

Non ci avevo mai pensato al respiro come compagno di viaggio, come uditore delle mie gioie o delle mie preoccupazioni. Eppure, solo a dedicarci un attimo di attenzione, ognuno di noi può realizzare come di fronte ad una tensione sentiamo un peso sul petto, come un dolore ci chiude la gola e come, a volte, i momenti di gioia arrivano fino in fondo alla pancia.

In tutti questi movimenti il nostro respiro è complice di come stiamo e, andarlo a ripescare come amico, mi pare proprio un bel suggerimento.

Da quando dedico tempo ad un lavoro sul mio corpo, mi ritrovo spesso ad accorgermi quando il mio interlocutore sta trattenendo il respiro, quando ha quello che comunemente chiamiamo fiato corto, quando la voce non è fluida. Di mezzo ci sono sempre le emozioni e certamente non è sufficiente lavorare solo sul respiro, però è un interessante punto di partenza. Per me è sempre un invito e una possibilità  a volgere lo sguardo verso di noi, a sentire come stiamo, come ci stiamo ponendo di fronte ad una determinata circostanza.

In sostanza, negli anni, ho imparato ad apprezzare i cambiamenti che posso attivare in me stessa e molto spesso come riflesso, ho osservato anche il mutamento di alcune relazioni che mi circondano.

Siamo poco abituati a prendere tempo, a fare pause, a lasciar andare a ….respirare. Lo sappiamo.

Ogni giorno mi impongo momenti di tregua e sempre di più riesco a rubarli alla frenesia dell’esistenza. Tutto questo ha tanto a che fare anche con l’educazione e con la mia professione. Quando i genitori, ma soprattutto le mamme, mi raccontano delle loro corse sento l’affanno nelle parole e nelle relazioni. Ogni tanto mi ritrovo a consigliare piccoli momenti di silenzio e mi immagino le scene possibili.

Mamma, ma cosa stiamo facendo qui in silenzio e senza fare nulla? Ci ascoltiamo amore.

Picchiami con delicatezza

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Ho capito cosa spinge tanta gente a scegliere le arti marziali: la possibilità di evitare il contatto fisico. Un paradosso? sì. Ieri sera ero in Umanitaria per il mio corso di Difesa relazionale. Scarse e affezionate presenze. Non è andato molto bene il reclutamento quest’anno: numerose partecipanti alle lezioni dimostrative, alla fine quasi tutti scomparsi all’orizzonte. Nella palestra a fianco invece, un bel gruppetto di uomini e donne di età varia impegnatissimo in una lezione di Karate. Di quelle base per intenderci. Un’ora a far vasche a suon ti tzu ki e age uke. Insomma, pugni e parate nel vuoto. Ogni tanto un bel Kiai. Questo non lo traduco, tanto non serve. Con un salutare pizzico di invidia mi sono chiesto perchè fossero lì anziché da me. Poi sono andato “da me” e, mentre ero avvinghiato a un allievo cercando di fargli capire che doveva spingermi con il bacino, ho avuto la mia risposta.

Toccarsi? ma stiamo scherzando? fa brutto e poco trendy probabilmente. E così mi sono venute in mente le arti più gettonate. Capoeira va alla grande, lì non ci si tocca neppure per sbaglio. Poi tai chi, figuriamoci. Sì va bene, nel tui show un pochino forse, ma solo con i polsi e con mooooolta delicatezza. Aikido? sembra che sia tutto un entrare in contatto, ma è una finta: alla fine dei compagni si assaggiano solo polsi e gomiti. Per non parlare di tutti gli stili cinesi, giapponesi, coreani, vietnamiti pieni di kata e forme: puoi praticare per anni senza mai sfiorare la pelle altrui nemmeno negli spogliatoi. Giusto se fai judo. Ma alla fine c’è più contatto corporeo nella pallacanestro. Per non parlare del rugby e, ovviamente, della danza. Certo, gli sport di combattimento. Li ci si tocca sul serio. Ma sono per pochi e per poco tempo. La massa intanto va avanti per decenni a sparar pugni a vuoto o a sfiorare delicatamente gli arti altrui.

Insomma, triste destino per l’arte che affonda le proprie radici nella carne e nel sudore dello scontro fisico. Un destino di rarefazione che attrae proprio chi di sudore e scontro fisico non vuole percepire neppure il riflesso. Come giocare a bocce, o a tennis, però vuoi mettere quanto le arti marziali possono essere più esotiche e anche un po’ new age? e poi intanto imparo a difendermi. Sempre che i miei eventuali aggressori evitino di avvicinarsi troppo, che potrei non reggerne l’odore.

Il corpo sintattico

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Con la voce dico “spingo”, ed è una cosa. Il mio corpo non “dice”: spinge e basta. Lungo questo spartiacque corre il confine sottile tra due bacini d’esperienza differenti: “spingere” e spingere. Ieri sera, poco prima di cena, ero sul piazzale ghiaioso prospicente la “casa bianca”, l’unico casale di questa tenuta abruzzese non adibito ad agriturismo, teatro dei miei allenamenti sdrucciolosi da quando vengo in vacanza da queste parti. E ascoltavo.

Quante volte avrò spinto nella vita? Milioni probabilmente, e il mio corpo, il me-corpo, lo sa. Poi ci sono due decenni e passa di pratica marziale, e hai voglia. Così spingevo. Non c’era nessuno e intorno non c’era nulla, dunque spingevo l’aria, sostanzialmente. E la terra, ovvio. Spingere il nulla, sentendolo, e ascoltare l’effetto della spinta correre giù giù sino alle piante dei piedi, è una semplice e fantastica esperienza. Si tratta solo di ascoltare.

Sapete che il corpo conosce la sintassi? O forse la sintassi è già espressione di esperienze profondamente corporee, non so. A ogni modo, mentre spingevo, mi accorgevo che c’era spinta e spinta. Così ero io che spingevo qualcosa, o qualcuno, in quest’altro modo era qualcosa o qualcuno che mi spingeva e io mi facevo spingere, oppure respingevo, e ancora ero io che mi spingevo via. “Spingere” è un verbo, spingere è una semplice azione, ma nell’azione ascoltavo le forme attiva, passiva e riflessiva del verbo. Il mio corpo, il me-corpo, stava conversando con il proprio movimento.

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