Ho capito cosa spinge tanta gente a scegliere le arti marziali: la possibilità di evitare il contatto fisico. Un paradosso? sì. Ieri sera ero in Umanitaria per il mio corso di Difesa relazionale. Scarse e affezionate presenze. Non è andato molto bene il reclutamento quest’anno: numerose partecipanti alle lezioni dimostrative, alla fine quasi tutti scomparsi all’orizzonte. Nella palestra a fianco invece, un bel gruppetto di uomini e donne di età varia impegnatissimo in una lezione di Karate. Di quelle base per intenderci. Un’ora a far vasche a suon ti tzu ki e age uke. Insomma, pugni e parate nel vuoto. Ogni tanto un bel Kiai. Questo non lo traduco, tanto non serve. Con un salutare pizzico di invidia mi sono chiesto perchè fossero lì anziché da me. Poi sono andato “da me” e, mentre ero avvinghiato a un allievo cercando di fargli capire che doveva spingermi con il bacino, ho avuto la mia risposta.
Toccarsi? ma stiamo scherzando? fa brutto e poco trendy probabilmente. E così mi sono venute in mente le arti più gettonate. Capoeira va alla grande, lì non ci si tocca neppure per sbaglio. Poi tai chi, figuriamoci. Sì va bene, nel tui show un pochino forse, ma solo con i polsi e con mooooolta delicatezza. Aikido? sembra che sia tutto un entrare in contatto, ma è una finta: alla fine dei compagni si assaggiano solo polsi e gomiti. Per non parlare di tutti gli stili cinesi, giapponesi, coreani, vietnamiti pieni di kata e forme: puoi praticare per anni senza mai sfiorare la pelle altrui nemmeno negli spogliatoi. Giusto se fai judo. Ma alla fine c’è più contatto corporeo nella pallacanestro. Per non parlare del rugby e, ovviamente, della danza. Certo, gli sport di combattimento. Li ci si tocca sul serio. Ma sono per pochi e per poco tempo. La massa intanto va avanti per decenni a sparar pugni a vuoto o a sfiorare delicatamente gli arti altrui.
Insomma, triste destino per l’arte che affonda le proprie radici nella carne e nel sudore dello scontro fisico. Un destino di rarefazione che attrae proprio chi di sudore e scontro fisico non vuole percepire neppure il riflesso. Come giocare a bocce, o a tennis, però vuoi mettere quanto le arti marziali possono essere più esotiche e anche un po’ new age? e poi intanto imparo a difendermi. Sempre che i miei eventuali aggressori evitino di avvicinarsi troppo, che potrei non reggerne l’odore.
Mar 27, 2012 @ 18:06:48
Nel prossimo corso allora titolo di quello che facciamo rigorosamente in orientale (cino – nipponico), incensi e altarini ovunque, kimoni e li shang (l’abito da pratica cinese) setosi, luci soffuse, foto di vecchi maestri defunti sui muri cui porgere deferenti saluti con tanto di culo a 90°, quadro con albero di ciliegio zen raffigurato stile Aikido sullo sfondo che può toccare solo l’allievo che tra 35 anni erediterà la discendenza della scuola e atteggiamento sussiegoso degli insegnanti che proibiranno agli allievi di toccarli, pena mille future incarnazioni quali specie mista tra rettile e sciacallo.
Ogni qual volta un allievo porge una domanda deve avere l’aria di chi stia letteralmente bevendo alla fonte prima della buddhità. Tre quarti della lezione, naturalmente, saranno dedicati al rito di saluto per fare la lezione stessa.
I Maestri, chiaramente, non debbono più avere la minima fastidiosa incombenza nella vita (quelle menate terrene quali andare in posta piuttosto che ad acquistare la passata di pomodoro in un supermarket gonfio di fetida umanità brancolante), incombenze che saranno sacralmente assolte dagli allievi solerti con l’aria di chi trascende l’umana condizione. Il mantenimento dei Buddha, scusate, volevo dire, Maestri, naturalmente non è nemmeno in discussione: gli allievi rilasciano profumate elargizioni pecuniarie a cadenza con discrezionalità del Dio. Azz.. scusate, volevo sempre dire Maestro.
Fantastico…! Tutto ciò che ormai considero il cancro dell’arte che facciamo e più in generale di qualsiasi arte (e di altro…) in cui debbano mescolarsi tutti gli elementi costitutivi dell’essere, pare essere esattamente ciò che al giorno d’oggi rende appetibile un’arte.
Questo è il mio commiato raga, dall’anno prossimo mi trovate assieme ad una bionda panterata a vendere salsicce a Cesenatico.
Il nome della bancarella? “Da Alvaro magni male paghi caro”. Ma sarà in dialetto romagnolo e quindi l’orda nordico-tedesca che viene qui a pucciare le chiappe nei nostri carnai non ci capirà un beato cavolo e si ingozzerà felice. Al pari nostro con le mille terminologie dei cammini della seta di cui abbiamo piene le orecchie da tanto, tanto tempo…
Suerte!
v
Mar 28, 2012 @ 10:54:02
Chiedo scusa, mi sono reso conto successivamente che nel mio commento di ieri sono andato sufficientemente fuori tema per alcuni versi. Il punto su cui volevo mettere l’attenzione è che l’Arte Marziale è necessariamente arte da contatto e che non si può dire di praticarla davvero se non ci si affacci un minimo alla relazione da combattimento cui rimanda ogni movimento che le appartenga. Altrimenti si fa qualcosa di comunque meraviglioso ed utilissimo ma che potrà chiamarsi Yoga piuttosto che Qi Gung o ginnastica figurativa. Perché no? L’Opera di Pechino vive su meravigliose rappresentazioni in cui le figure dei teatranti affondano le proprie radici nel movimento marziale, sottraendo però ad esso tutta l’applicazione da combattimento. Per l’appunto, recite ma non Arte Marziale. Non dimentichiamo che un’Arte come il Tai Chi Chuan, tra le sue possibili traduzioni ha “l’ultimo supremo pugno”, in quanto parallelamente ad una serie di strepitosi benefici che riverberano sui piani emotivo, fisico, spirituale e quant’altro, si dice divenga lo stile di maggior efficacia nel fighting. Siamo senz’altro di fronte ad un simpaticissimo scollamento tra significati, significanti ed azione. Al pari di imparare difficilissimi solfeggi e scale sullo spartito senza mai prendere in mano una volta lo strumento.
I punti nodo credo siano sostanzialmente due: il primo è che un arte da combattimento ci mette immediatamente in contatto con l’elemento costitutivo da cui essa stessa nasce: la paura. Combattere in modo ordinato, con un metodo che si acquisisce con la pratica nel tempo è un’esigenza che viene dalla sopravvivenza stessa dell’individuo, che sia nella forma codificata nell’esercito piuttosto che in quella di tramandazione famigliare padre – figlio.
Il secondo è che nel momento in cui un insegnante decide di incrociare le braccia con gli allievi, staccandosi da una pratica che preveda unicamente l’incessante e sussiegosa ripetizione di sequenze di movimenti preordinati a solo, figli di secolari e polverose presunte linee pure e tradizionali come l’arrosto con le patate, un enorme fetta della distanza sacrale prevista da tutte le liturgie che condiscono quella che invece dovrebbe essere “Arte Polpolare”, e quindi laica nel modo più assoluto, sparisce. Incrociare le braccia vuol dire mettersi nel gruppo, in mezzo al gruppo e non dall’altro lato. Vuol dire mettere da parte la logica di potere e di acuisizione di privilegi, vuol dire far sentire chi si è, trasmettere le cose a pelle, cuore a cuore invece che con lo sguardo mistico severo dietro un kimono pregiato e con l’occhio alla Lao Tze. Incrociare le braccia davvero, senza sapere cosa farà l’altro per cercare un incontro reale in applicazione dei principi che si studiano, comporta per forza di cose anche l’errore da parte dell’insegnante unitamente all’odore della sua ascella (addio divinità!). Può voler dire lividi… Comporta un accorciamento totale di quella distanza che è figlia del distacco imposto da tutta la mistica che accompagna e genera il desiderio di affacciarsi a qualcosa che nel caos quotidiano ci dia una via di mezzo tra un po’ di spiritualità new age e quel “benessere” che ormai è termine cardine di ogni centro ginnico, estetico e chi più ne ha più ne metta. Vuol dire coraggio e accettare di abbassare i toni di enfasi su qualcosa che rischia solo di dare false sicurezze. Più onesto fare aerobica allora.
Siamo quindi nelle dimensione del rischio… Fare Arte Marziale davvero significa “contatto fisico ed emotivo” da ambo le parti: insegnante ed allievo. Un rischio sostenibile, senz’altro, ma sempre rischio in un’era strana in cui il termine “sicurezza” ci accompagna dal salvare un documento informatico, alle caratteristiche della carta igienica nel nostro bagno.
E i giochi sono fatti!
Apr 02, 2012 @ 18:39:28
Posto il commento all’articolo di una collega che pratica le arti marziali (judo) da molti anni.
“….sarà che sono in un periodo di ammore smisurato per il karate, ma forse igor è un po’ di parte e afflitto -come dichiara- per la sua lezione di difesa relazionale, dove lì ci si tocca molto di più…
Io non penso che il karate non sia sudore e contatto: nella mia palestra prepariamo tutte le volte percorsi simili a quelli psicomotori, dove i bambini si divertono un sacco, sudano tantissimo e scaricano molto… e quando sono al culmine del sudore e della stanchezza, sono paradossalmente molto soddisfatti! oltre che ad organizzare moltissimi esercizi di coppia, dove a volte ci si sfiora, ma a volte ci si spinge proprio, sfruttando la forza dell’altro (es. tutta la palestra dal lato lungo tirando un compagno per la cintura, mentre lui cerca di avanzare)… certo che nel karate tradizionale il contatto è meno e i pugni sono molto spesso in aria, ma qui scatta la parte della pazienza, dell’imparare a “stare in un’azione”, della concentrazione e del rispetto per se stessi e per gli altri: prima imparo le tecniche, poi posso avere l’onore di applicarle su un altro… cosa che già i bambini fanno tra l’altro (l’esercizio che ho fatto fare a voi di parata/attacco).
e poi, se il karate è difesa e arte, che senso avrebbe sfondarsi come i pugili senza stile e delicatezza?
Apr 02, 2012 @ 19:04:39
Bambini, appunto. Il problema è con gli adulti. Diciamo dai 16 18 anni in poi. Comunque sono contento che in quella palestra ci sia questa pratica e sono del resto sicuro che con i bambini sia diffusa in molte palestre.
Ma non sottovaluterei il problema che ho sollevato. Non è una semplice recriminazione perchè ho pochi partecipanti al mio corso, via… Il problema esiste ed è diffuso.
Apr 02, 2012 @ 19:11:12
C’è poi una cosa interessante che viene sottolineata in questo commento: il primato della tecnica. Ovvero, per potersi toccare occorre prima sviluppare il gesto corretto. E’ esattamente questa filosofia che metto in discussione.
La gente si tocca da milioni di anni senza bisogno di avere una preparazione tecnica per farlo. Ma oggi il primato della tecnica in ogni campo dell’esperienza ha sovvertito l’ordine delle cose. Il risultato è che senza un contesto “tecnico” sembra impossibile l’incontro. O comunque più difficile.
Non c’è nulla di più naturale della lotta. I corpi che entrano in contatto misurando riflessi, velocità, forza e astuzia, sono nel nostro sangue e nei nostri geni. La tecnica viene dopo, per disciplinare ciò che c’è già. Quello che contesto a un certo modo di praticare l’arte marziale è invece proprio questo ribaltamento logico, che allontana e al tempo stesso artificializza in modo eccessivo, l’incontro con l’altro.