“All’inizio l’uomo non sa niente. Niente di niente. Le uniche cose che non ha bisogno di imparare sono respirare, vedere, sentire, mangiare, pisciare, cagare, addormentarsi e svegliarsi. Ma neanche. Sentiamo, ma dobbiamo imparare ad ascoltare. Vediamo, ma dobbiamo imparare a guardare. Mangiamo, ma dobbiamo imparare a tagliare la carne. Caghiamo, ma dobbiamo imparare a farla nel vasino. Pisciamo, ma quando non ci pisciamo più sui piedi dobbiamo imparare a prendere la mira. Imparare vuol dire prima di tutto imparare a essere padroni del proprio corpo.”  Daniel Pennac, Storia di un corpo, Feltrinelli, 2012, p. 23

Queste parole mi afferrano lo stomaco. Mi parlano nel profondo. Non di ciò che ero e sono diventato, troppo lontani quei ricordi sulla mia carne. Mi parlano di ciò che sono oggi e che continuamente divento, da quando sono diventando padre. Non c’è che avere un figlio per capire che sentire e ascoltare, vedere e guardare,  pisciare  e fare i propri bisogni dove i propri bisogni vanno fatti, sono cose diverse. E se il figlio è disabile hai tutto il tempo per capirlo, tutto il tempo che vuoi. Infatti Pennac non è riuscito a cogliere la differenza tra addormentarsi e dormire, che abbiamo dovuto imparare negli anni di sonno perduto, sedimentati sotto i nostri occhi.

Essere disabili, alla fine, significa non essere in grado di diventare padroni del proprio corpo due volte. La prima perchè la disabilità, per definizione, impedisce la padronanza del corpo. La seconda perchè l’assenza di padronanza riduce il corpo alla mercè dei corpi altrui.

Credo sia quello che tenta di dirmi mia figlia ogni volta che devo lavarla, vestirla, portarla, accompagnarla, guidarla. Ogni maledetta volta.