Teniamoci per mano

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“Fb mi chiede a cosa sto pensando…..Penso alla giornata di oggi, penso a mia figlia Ester che stamattina alle 8 era pronta per andare a manifestare pacificamente, penso alle dimostrazioni sincere di attenzione di alcuni simpatizzanti e persone sensibili alle problematiche che quotidianamente affrontiamo, penso all’assenza di risposta del Comune, penso che i nostri ragazzi hanno rischiato, per il caldo, di avere le convulsioni davanti al Palazzo e nonostante tutto volevano rimanere. Penso che domani ritorneremo a Piazza Pretoria, silenziosamente, civilmente, a chiedere un po’ di attenzione, penso che non possa essere possibile non tendere la mano per aiutare chi soffre. Ma forse sono io che, invecchiando, divento più fragile, più sensibile? oppure non riesco ad abituarmi alla non-cultura di ignorare il più fragile? In ogni caso, domani noi ci saremo. Noi saremo ancora davanti Palazzo delle Aquile, in silenzio, portando con noi solo il sorriso un po’ malinconico dei nostri meravigliosi ragazzi….”

radici intrecciatedi Irene Auletta

Mi raggiunge così, nella zona vicina al cuore, il post di Fiorella, madre di una figlia adulta che come tanti genitori sta cercando di affrontare il vuoto dei servizi e la precarietà delle proposte da rivolgere a persone disabili. L’ho sentito dire tante volte che “dopo i sedici anni i problemi aumentano” ed in effetti il momento storico ed economico non è certo dei migliori soprattutto in una cultura che purtroppo guarda ancora alle fragilità come un peso e non come un’occasione per esibire coscienza civica e responsabilità.

Non posso dimenticare l’espressione sorpresa di una dirigente di servizi sociali di fronte alle mie affermazioni riguardanti il futuro di questi figli e il desiderio dei genitori di cercare e scegliere il contesto per loro più adeguato. Non è facile trovare un posto, figuriamoci poi scegliere … sarebbe un lusso! La signora in questione mi parlava come professionista del settore ignorando il mio duplice abito, anche di genitore coinvolto direttamente nella questione. Avrei potuto svelarlo sottolineandole che aveva perso una bella occasione per tacere e per connettere lingua e cervello ma, a volte, è meglio andare oltre.

Gli operatori parlano di disabili, di strutture, di fondi, noi parliamo dei nostri figli, della loro qualità di vita e questo a volte traccia una linea di demarcazione insuperabile.

A volte ci si incontra, genitori e operatori, e lì si coglie un tepore speciale, di quelli che fanno sentire a casa. Dovrebbe essere un diritto? La strada è ancora lunga e per questo molte delle nostre mani sono intrecciate a distanza, per infondersi forza e coraggio.

In punta di piedi

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In punta di piedidi Irene Auletta

Mi piace immaginarmi così, quando entro nelle storie altrui e mi ritrovo ad ascoltare frammenti di vita, di amori, di fatiche e di dolori. L’ho scelto anche per professione e condivido questa passione con importanti e preziosi compagni di viaggio.

Nel mio incontro con educatori e insegnanti mi imbatto sovente in affermazioni che immagino familiari a molti, perchè assumono le vesti dei luoghi comuni. Tra le più gettonate ne ricorre una. I genitori non capiscono che facciamo o diciamo alcune cose per il bene dei loro figli!  

Appunto. Il bene dei figli non dovrebbe riguardare proprio i genitori?

Durante un recente colloquio con nonni che hanno perso la loro figlia e si occupano del nipote, il dolore è straripato dalle trame della comunicazione. Voi siete tecnici, non potete capire l’amore … di quello ci occupiamo noi! 

Qualche anno fa forse avrei fatto fatica a capire e ad accogliere reazioni di questo genere, presa anch’io da quel senso di onnipotenza che spinge molti operatori a sentirti portatori della verità. Oggi no.

L’amore e gli affetti cari sono faccende assai delicate. Me lo ha insegnato la vita più che i miei studi ed è un apprendimento che custodisco gelosamente come un oggetto prezioso, ogni volta che incontro storie. Alcune sono più fragili di altre e richiedono una cura ancora maggiore e un grande rispetto.

Qualche anno fa, mentre mia figlia stava attraversando un momento molto delicato della sua vita, un medico mi tempestò di domande e cogliendo il mio disappunto per la sua intrusione sbottò dicendomi che non capivo. Quello che stava facendo era per il bene di mia figlia e non per divertirsi. Chissà se in quel momento, o in altri della sua carriera, quel medico si è mai fermato a pensare che così dicendo stava insinuando che lo stava facendo al mio posto oppure che io non lo facevo abbastanza? Brutta bestia l’arroganza sorella della presunzione.

Però, negli anni, l’ho ringraziato tante volte a distanza insieme ad una cerchia di altri personaggi che mi è capitato di incrociare, come esempio da non dimenticare solo per poterne sempre prendere distanza.

Forse noi tutti, nei nostri incontri, siamo come ballerini della vita. Abbiamo bisogno di passare per la goffaggine, i piedi pestati, gli spintoni per arrivare a gustare l’armonia di un passo in punta di piedi. I più fortunati di noi, riescono anche a volteggiare, ma per questo ci vuole tanta pazienza e un pizzico di magia.

Storie di ordinaria cattiveria

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ombredi Irene Auletta

E’ successo ancora. Video che gira in rete urlando indignazione, rabbia, sconforto, paura. La ripresa si sofferma impietosamente su maltrattamenti, verbali e fisici, inflitti ad un ragazzino disabile. Non vi sembra la stessa scena che non molti mesi fa riprendeva una badante che malmenava una signora anziana oppure quella di una madre decisamente poco amorevole con il proprio bambino di qualche mese di vita?

Da anni vado nominando soggetti e categorie a rischio di violenza che, non a caso, sono riconoscibili nei bambini piccoli, nei disabili e negli anziani. Soggetti che faticano a raccontare e, soprattutto, a difendersi. Provate a immaginare la stessa scena con adolescenti senza problemi e vi accorgerete che a rischio, potrebbero essere in questo caso gli adulti. Allargando il campo e la visuale, dentro e fuori i confini del nostro paese, a rinforzare le fila dei fragili, non mancano neppure le donne, sempre alla ribalta nelle scene di cronaca come vittime di una violenza che sovente non lascia scampo.

Eppure ogni volta sembra la prima volta e lo scandalo sembra raggiungere lo stupore di quanti immagino con la bocca spalancata a dire, davvero? ma come è possibile che accadano cose del genere? Gli stessi che magari hanno commentato tramite web o negli scambi di persona, esibendo un livello di aggressività altrettanto preoccupante e comunque non originale. Immaginatevi la mia faccia quando in un intervista ad una nota psicoterapeuta l’ho sentita affermare, quasi fosse il pensiero più intelligente dell’anno, che il problema riguarda la selezione del personale delle strutture educative. Ma dai. Piantiamola con le fesserie e per favore parliamo di cose serie.

Sicuramente sono stati offerti su tematiche analoghe, commenti e riflessioni assai autorevoli. Io mi sento di guardare un po’ da vicino un antico dibattito tra viscere, testa e cuore. Le viscere, di genitore o di adulto sano, non possono che gridare vendetta, con quella voglia di avere tra le mani i violenti e, come si dice dalle mie parti, fargli passare un guaio. Il cuore batte forte e perde colpi, pensandosi la madre di quel ragazzo o di quel bambino, oppure la figlia di quell’anziano, oppure ancora quella donna maltrattata dal suo compagno presa a chiedersi dov’è l’amore.

La testa, almeno la mia, ingaggia una sfida con la professionista che sono, presa a interrogare il senso di talune vicende e la necessità di abbandonare codici buonisti per guardare con coraggio le parti dell’animo umano, tra cui la cattiveria ha sovente un posto d’onore. Ce lo confermano secoli di storia, se solo alziamo il nostro sguardo da terra e tratteniamo la nostra rabbia o la voglia di non sapere.

E allora che si fa? Me lo sono chiesta tante volte, negli anni, di fronte a racconti di violenza o di fronte a fessure che mi hanno lasciato immaginare e intravere comportamenti aggressivi di genitori e di operatori. Non ho alcuna risposta magica, nè una ricetta miracolosa che trasformi i cattivi in buoni.

So però che mi ha aiutato riconoscere la cattiveria come parte dell’umano, guardarla in faccia senza troppi timori, non abbassare gli occhi per il dolore. Mi ha aiutato chiedere alle persone di parlarne, senza erigermi a giudice, ma provando a capire come evitarne il ripetersi. Vicende analoghe sono sempre accadute, accadono oggi e accadranno ancora. Ognuno di noi, come singolo cittadino  o come professionista, può chiedersi come mettere a disposizione la sua intelligenza e il suo cuore per affrontarle, sperando di prevenirle. Ognuno di noi, parte di una testa e un cuore collettivo, dovrebbe mettersi gli occhiali del disincanto e da lì partire, per cercare vie percorribili e possibili per non attendere inerme, il prossimo scandalo.

Esperienze speciali

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DSCN5881di Irene Auletta

Lo ricordo bene quel marzo di parecchi anni fa e la mia prima visita alla scuola speciale. Ci ero già stata nelle vesti di operatore e tornarci in quelle di madre non era stato affatto semplice. Ancora una volta di fronte a quelle domande ormai divenute compagne di viaggio.

Perchè proprio mia figlia? Cosa centra con questo posto e con le persone che lo abitano? Come si sopravvive a questo dolore?

Eppure, neppure per un secondo ho pensato che quella non fosse la scelta giusta per te, per offrirti nuove possibilità per imparare e per diventare grande nel rispetto delle tue possibilità e caratteristiche. Ho lottato aspramente, ingoiando chiodi, con chi ha criticato la nostra scelta, chi ha giudicato senza nessun scrupolo, chi non ha trattenuto commenti idioti.

Non sono stati anni facili, perchè la vita non è facile. Però siamo stati fortunati e abbiamo avuto la possibilità di incontrare le due insegnanti che ci sono rimaste accanto per tutto il viaggio e ti hanno insegnato ciò che noi non avremmo mai potuto fare.

Il senso di tutto il percorso, lo ritrovo commossa, proprio in questi giorni di saluti, in tutte le tracce che testimoniano la tua storia degli ultimi anni raccolte in ricordi, racconti, quaderni, fotografie. Tante emozioni che si affastellano e che mi accompagnano oscillando tra un sorriso costante e un magone che mi stringe la gola.

Ancora oggi le domande amiche sono sempre al mio fianco ma sono diventate un po’ più leggere anche grazie agli incontri, alle nuove condivisioni e al passare del tempo.

Si aprono nuove strade, si intravedono altri possibili incontri e l’orizzonte è sempre lì, con i suoi raggi di luce e le sue ombre. Noi non siamo più gli stessi e neppure tu, nonostante il tuo aspetto fatichi a reclamare gli anni passati, conferendoti sempre un aspetto da bambina. Nel nostro bagaglio abbiamo aggiunto un’esperienza importante che tratteniamo, riconoscenti, negli occhi e nel cuore.

Ora, teniamoci forte per mano e andiamo avanti.

Parliamoci d’amore

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fotodi Irene Auletta

Qualche giorno fa, un anziano signore chinato al bordo della strada ha attirato la mia attenzione. Cercando di destreggiarsi con la sua stampella, il signore si muoveva goffamente vicino ad un cespuglio di rose che costeggiava la pista ciclabile. Pensando ad un malore, stavo giusto valutando di fermarmi per chiederglielo, quando l’ho visto rialzarsi dalla posizione assunta e, quasi furtivamente, nascondere la rosa raccolta all’interno di un giornale tenuto sotto il braccio.

Chissà per chi ha raccolto quella rosa. Me lo sono immaginato arrivare a casa e consegnarla con amore a sua moglie, alla figlia che lo accudisce o alla badante che si prende cura di lui. Chissà.

Quando raccolgo dai genitori le fatiche che incontrano con i loro figli, mi piace sempre riprendere le dimensioni legate all’affetto che li lega a loro e al bisogno di non seppellirlo sotto le prescrizioni educative, le mille cose da fare e che riempiono il nostro quotidiano, saturandolo quasi completamente.

Io sono fortunata. Me lo chiedi tu, figlia mia, di rallentare, di fermarmi. Me lo chiedi tu abbracciandomi forte e parlandomi del tuo amore, intenso come sovente solo l’amore senza parole sa essere.

Attraversiamo tutti giorni assai cupi, colmi di preoccupazioni per il presente e per il futuro. Rischiamo di essere travolti in massa dalle mancanze, da ciò che abbiamo perso, dalle nostre fatiche e dal vezzo, che mi pare molto moderno, di fare continui elenchi di quanto ci affatica la vita e tutto quello che abbiamo da fare.

Io ho sempre più spesso voglia di dire stop. Ho voglia di gustarmi quello che ho e di cui mi posso nutrire, restituendo valore a quel quotidiano che non smette di regalarmi risate, condivisioni, scambi di esperienze, incontri inattesi, affetto e amore.

E tutto il resto allora non esiste? Vuol dire che sono davvero un’inguaribile ottimista o, come qualcuno potrebbe pensare, una persona superficiale, che non si lascia toccare dalle durezze dell’esistenza? Sono un’ingenua romantica, poco attenta ai toni scuri che dipingono il nostro tempo?

Qualche giorno fa, Jacopo Fo salutando la madre Franca Rame, ha speso parole d’amore ricordando ciò per cui ha vissuto e lottato. Gioie e dolori, fatiche e preoccupazioni, si possono attraversare in tanti modi lasciando differenti tracce nelle nostre esistenze.

Grazie a te, che da anni mi aiuti, io so bene qual’è la strada che voglio continuare a seguire.

Bambini separati

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bambini separatidi Irene Auletta

Nel mio  lavoro, mi imbatto di frequente in provvedimenti del Tribunale per i Minorenni o in accordi sanciti di fronte ad un Legale in seguito alla separazione dei coniugi e alla regolamentazione della loro nuova organizzazione di vita come genitori.

In realtà, i nuovi accordi e la ricerca di un equilibrio inedito, dovrebbero porre al centro dell’attenzione i bisogni dei bambini, unitamente ai loro diritti, ma a volte mi sorge qualche dubbio.

Di recente una madre separata mi ha descritto la sua organizzazione mensile, insieme a quella dell’ex marito e del figlio di otto anni e, a metà descrizione, mi ero già persa. Prima settimana dal … al …  con la mamma, dal …  al … con il papà. Seconda settimana dal … al … con la mamma e dal … al … con il papà …. e così a ripetersi per quattro settimane in un’alternanza di giorni e orari che francamente, per essere seguiti correttamente,  credo richiedano l’utilizzo di un’agenda. I non addetti ai lavori potrebbero chiedersi perchè si giunge a tali follie quotidiane e, in realtà, la risposta è abbastanza semplice. Gli adulti, in questi casi che non sono poi così eccezionali, risultano incapaci di accordi, mediazioni, ricerca condivisa di altri equilibri e valutazioni circa il senso delle nuove scelte di vita per i loro figli e per loro stessi.

Un padre mi racconta che il figlio di nove anni protesta spesso dicendo, io non sono il vostre pacchettino, decidetevi con chi devo stare!

Difficili quesiti che di certo non si possono affrontare con immaginarie bacchette magiche, luoghi comuni o banalizzazioni della reale complessità.

Mi dico di frequente che il problema non sono le risposte giuste, ma la ricerca di nuove domande e, in casi come questi, parto da qui per orientare il mio sguardo mentre mi accingo ad aiutare e sostenere genitori che stanno attraversando momenti di grande confusione e disorientamento.

Se tutti tornassimo a farci più domande prima di decidere o di affermare il nostro pensiero, forse ridurremmo i tanti fastidiosi punti esclamativi che accompagnano, spesso con un filo di arroganza, molte delle nostre comunicazioni quotidiane. Quando ascolto, non so quali sono le soluzioni migliori e auspico di trovarle insieme alle persone che ho di fronte o al mio fianco, come colleghi. Non è sempre facile, perchè per ciascuno urge il bisogno di far valere il proprio punto di vista e io non sono certo esente da tali tentazioni.

Anni fa i figli dei genitori separati venivano definiti bambini con la valigia. Oggi mi piacerebbe che iniziassimo a condividere il senso dei viaggi.

Riflessi di vita

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riflessi di luce 1di Irene Auletta

Mi capita spesso, quando incontro i genitori per il mio lavoro, di entrare in uno spazio di ascolto che sembra lasciare fuori il mondo, facendone entrare solo fili di luce che portano riflessi in quello che accade proprio lì.

Ma come fai a fare questo lavoro e a lasciare fuori la tua esperienza di madre?

Me l’ha chiesto qualche giorno fa un’amica che non incrociavo di persona da tempo ma che mi segue molto attraverso le pagine di questo blog.

Se fossi al tuo posto, con quello che ti ritrovi ad affrontare ogni giorno, forse sarei sempre incazzata e di certo sarei poco disponibile a capire i piccoli problemi con i figli che, gran parte di noi, ingigantiscono.

Capisco che in realtà il quesito può sorgere spontaneo e mi sono ritrovata a fare un salto nel passato. Quando mia figlia era piccola mi trovavo, molto più di oggi, ad attraversare il mondo dei servizi per l’infanzia, incrociando operatori, bambini e genitori che, in ogni momento, segnavano lo scarto impietoso con l’esperienza che in parallelo stavo vivendo come madre.

Ricordo molto bene le spalle curve, appesantite dalla mia nuova esperienza e il respiro profondo che facevo ogni giorno, prima di aprire la porta che mi introduceva nel mio mondo professionale. Eppure, anche allora, l’ascolto dell’altro mi aiutava a sospendere quello rivolto alla mia vita e nel tempo, ho imparato che prendendomi cura dell’altro, lenivo pian piano anche le mie ferite. Non ho mai pensato che l’altro genitore mi portasse banalità e, al contrario, spesso provavo e provo dispiacere, quando intravedo una concentrazione su singoli aspetti definiti problematici che rischiano di lasciare sullo sfondo la bellezza di quel figlio e di quell’incontro.

Certamente negli anni tutti i genitori, e anche gli operatori, che ho incontrato mi hanno permesso di trovare connessioni, incroci e nuovi dialoghi tra esperienze educative diverse e con esse, anche con la mia.

Razionalmente so tutto e capisco bene quello che mi dicono le insegnanti e le terapiste ma ho bisogno di continuare a parlarne perchè io non l’accetto che mia figlia abbia queste difficoltà.

Inutile dirle che sono piccole difficoltà, che stanno pian piano risolvendosi, che tutto probabilmente andrà bene. Inutile almeno per me, per come intendo il mio lavoro, senza ricette. Forse stupisco questa madre quando le dico che fa bene a dirlo, a ripeterlo e che l’accettazione richiede tempo e grande disponibilità a mettersi in cammino.

Non mi viene mai da confrontare quello che ascolto con la mia realtà, con la mia storia di genitore o con mia figlia e, semplicemente, non mi viene perchè non mi appartiene. La mia storia di genitore mi insegna ogni giorno moltissimo e credo che i genitori che incontro beneficino, senza saperlo, di una ricchezza che va oltre la mia competenza tecnica e finisce negli occhi che stasera mi guardano felici mentre, dopo mesi di inappetenza e nausee, mi rubano il cibo dal piatto.

Questa è la mia felicità e domani, ne porterò con me spiragli di luce.

Cavernicoli dei nostri giorni

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thecroodssneakpeek-11413di Irene Auletta

Negli ultimi dieci anni le sale cinematografiche che proiettano cartoni animati, hanno subito vere trasformazioni antropologiche visibili agli occhi del comune spettatore che abbia avuto la pazienza di seguirne l’evoluzione. Se da una parte sono sempre più presenti adulti o ragazzi appassionati del genere, la netta maggioranza è composta da adulti che accompagnano i loro figli che negli anni, sono diventati sempre più piccoli. Una volta, anche come tecnico, sconsigliavo ai genitori l’esperienza prima dei cinque o sei anni e per alcuni bambini era necessario anche andare oltre perchè apparivano disturbati da un’esposizione per loro troppo precoce.

Quando al figlio del protagonista, un giovane e impacciato cavernicolo, accade una certa cosa, il signore seduto dietro di noi che non smette un secondo di commentare quasi fosse comodamente sdraiato nel salotto di casa sua esclama, vedi cosa ti dice sempre papà, si impara dall’esperienza!

Vabbè, sta disturbando da un po’ però almeno fa un commento educativo di tutto rispetto. L’illusione dura pochissimo perchè mi accorgo che alle mie spalle saltella, piagnucola e protesta, un bimbetto di non più di tre anni che dopo circa quindici minuti dall’inizio del film non manca di mostrare tutti i segnali di disagio possibile, rispetto ad una situazione di certo non a sua misura.

Del resto nella sala si possono osservare parecchie situazioni analoghe. Bambini che piangono, che saltano tra le poltrone creando imbarazzo e fastidio agli altri spettatori, genitori che spesso sono costretti ad uscire e altri ancora che si arrendono uscendo dalla sala a metà proiezione.

Tornando al bambino di poco fa, ha passato tutto il secondo tempo a saltare per le scale, spesso rincorso e richiamato dal padre, con un immancabile succhiotto che ha tenuto in bocca per tutto il tempo. Se solo si guardassero e ascoltassero più spesso, i bambini ce la mettono tutta per inviarci segnali di aiuto.

Da uno a dieci, dimmelo quanto ti è piaciuto?

Per fortuna il film è terminato e questa è l’ultima frase che riesce a raggiungermi del fastidioso signore che ho cercato di ignorare per tutta la durata del film, senza riuscire a volte a nascondere il mio fastidio e, in parte, il dispiacere nel vedere adulti così smarriti e confusi.

Scorrono i titoli di coda, accompagnati da una forte musica mentre una bambina che sembra ancora incerta sulla gambe, si esibisce in una danza scatenata con tanto di movimento di bacino, quasi a imitare i movimenti sensuali che spesso scorrono sugli schermi televisivi.

Ci guardiamo noi tre. Vuoi dire che alla fine i più normali sembriamo noi?

Ridiamo della tua battuta e ridiamo guardando nostra figlia che sembra divertita e  assai incuriosita da alcune delle bizzarrie che ci circondano. Così è la vita.

Ma quali eroi?

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ma quali eroi 1

di Irene Auletta

Da anni vado dicendo che mi sento una madre apolide. Proprio così, nel senso di senza cittadinanza e senza appartenenza. Fatico a trovare  possibili condivisioni sia con chi vive esperienze tanto differenti dalla mia che con chi attraversa vicende esistenziali assai simili. Una parentesi piacevole e particolarmente positiva la sto scoprendo in questi ultimi anni grazie allo scambio e al confronto tramite il web dove, forse per il numero delle frequentazioni o per le caratteristiche del luogo, sempre più spesso incrocio echi di significati familiari e che riconosco con gradevole sorpresa.

Ho già scritto della questione e qualcuno mi ha anche un po’ presa in giro per il mio cipiglio. Ho osato affermare che mi irritano profondamente tutti quei genitori che, sicuramente per loro difficoltà, hanno sempre bisogno di normalizzare, banalizzando. Li riconosco subito in coloro che di fronte a qualsiasi considerazione o commento riferito ad un figlio disabile, hanno bisogno di affermare subito che anche loro stanno attraversando difficoltà simili, spesso facendo confronti che francamente a volte mi lasciano davvero basita. In genere i figli in questione hanno problemi a scuola, di peso e non raramente, faticano a stare dentro alle mitiche categorie dei percentili pediatrici di sviluppo, divenuti la nuova persecuzione di molti genitori. Naturalmente a disturbarmi non sono questi loro problemi, che comprendo e rispetto, ma l’esigenza di metterli a confronto con qualcosa che sovente è proprio molto lontano dalla loro comprensione.

Sono ancora più in difficoltà quando penso che chi ho di fronte dovrebbe più o meno parlare la mia stessa lingua e invece mi sento una marziana. So bene che ognuno ha bisogno di trovare le sue spiegazioni a quanto sta vivendo ma a me sono sempre state un po’ strette quella sorta di omelie che snocciolano le caratteristiche dei genitori di figli disabili definendoli come individui speciali, persone toccate da fortune o doni inspiegabili, illuminati sulle vie di qualche strano luogo. Questo davvero ho sempre fatto molta fatica a comprenderlo, pur nel totale rispetto del pensiero altrui. Figuriamoci a condividerlo.

Ultimamente invece, mi ha confortato leggere il commento di una mamma, una di quelle che mi fa sentire meno ufo e che, con un tatto invidiabile, invita i genitori con figli disabili a fare meno gli eroi e a chiedere aiuto, pensando anche a se stessi e alla propria vita. Ho apprezzato molto, provando grande rispetto, anche il coraggio di un’altra madre che si è concessa di scrivere in un post di come si ritrova a piangere per la stanchezza, a causa dei disturbi del sonno del figlio. La disperazione a volte spinge a farsi anche queste domande, ma che vita è la mia?  Non c’è bisogno di risposte banali, di luoghi comuni e di assurde spiegazioni. Forse bisogna proprio imparare a non aver paura della rabbia, del dolore, dello sconforto, del senso profondo di ingiustizia e del grande smarrimento.

Molte di noi, madri con figli disabili o con gravi problemi di salute, hanno finalmente voglia di allontanarsi da quell’immagine di Madonna a cui sovente vengono associate, per riprendersi in mano la loro vita di donne, madri, amiche, professioniste, mogli.

Vi sembra troppo? Io, per fortuna, inizio a sentirmi in buona compagnia.

Cuori analfabeti

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cuori analfabetidi Irene Auletta

Com’è noto, quando gli eventi accadono nelle nostre vicinanze, ne sentiamo più forte la tensione e il calore, così come mi è accaduto qualche giorno fa rispetto ad un grave incidente stradale che ha coinvolto la giovane figlia di conoscenti.

Ho saputo di tua figlia, mi dispiace molto, immagino la vostra paura e preoccupazione.

Il padre, esibendo una chiara dissociazione tra ciò che contengono i suoi occhi e le sue parole dichiara quasi con tono freddo che sono cose che succedono.

Quante volte ho sentito questa frase da mio padre e da mia madre, di fronte all’inspiegabile, al dolore insopportabile e allo smarrimento provocato da notizie incomprensibili. Ero molto giovane e ricordo ancora bene la voce rotta di mia madre mentre mi annunciava per telefono, la morte di sua madre, mia nonna. Lo stesso ricordo mi raggiunge rispetto ad un’analoga comunicazione da parte di mio padre, ma questa volta riguardava suo figlio, mio fratello. Entrambi incapaci di accogliere una solidarietà dolorosa respinta quasi sempre prontamente con la solita frase, sono cose che succedono.

E’ in tal modo che, molto spesso senza alcuna consapevolezza, si insegna ai figli come rapportarsi con le emozioni forti e affrontare le situazioni di grande difficoltà. Si finisce così, sin da bambini, con il ricevere messaggi precisi che veicolano significati e indicazioni di modalità per stare al mondo.

Smettila di piangere, non ti sei fatto nulla!

Quante volte l’ho sentito dire a genitori o a educatori nei servizi per l’infanzia. Li osservo di fronte al mio invito che interroga il senso di quell’affermazione e la possibilità di introdurre cambiamenti che consentano al bambino di esprimere con maggiore libertà le proprie variegate emozioni.

Mi ci sono voluti anni di lavoro, a volte durissimo, per evitare di ringhiare nei momenti di sofferenza e, ancora oggi, ogni tanto mi scappa. Sono cresciuta confusa rispetto alla gestione del dolore e come molti, da adulta ho dovuto scoprire nuove strade e possibilità per affrontare le “cose che succedono”.

Invito spesso gli adulti, genitori o educatori, a proporre ai bambini la possibilità di piangere e ho di fronte agli occhi alcuni dei loro sguardi perplessi e quasi sospettosi.

Per me è stato un successo poterci arrivare pian piano e di sicuro mi sento bene quando mi ascolto dire piangi pure, ne hai tutte le tue ragioni e la mamma rimane qui, vicino a te.

 

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