Onde canterine

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di Irene Auletta

L’ho imparato vivendo insieme ad una figlia come te. 

La vita è davvero come un imprevedibile mare, con giorni di quiete, onde lente e morbide, con quella luce  tiepida che accarezza il cuore. Altri invece nascono già con onde alte, odore di tempesta e un’acqua  che sembra fatta di sola schiuma, sotto un cielo scuro.

Abbiamo imparato insieme a goderne di entrambi, perché così è la vita. Così è la nostra vita.

Ma dove recuperiamo quella gioia che non ci lascia tanto facilmente o che comunque torniamo a ricercare appena sentiamo che ci sfugge tra le dita, esattamente come quella sabbia tiepida su cui mi piace tanto passeggiare?

La ricerca della gioia dovrebbe, o potrebbe, essere quasi una missione di vita e, forse, lo è ancora di più per quelle storie trafitte da dolori forti, che accompagnano nella vita senza lasciarti mai. Insomma, avere un compagno di vita come il dolore che ogni tanto arriva a trovarti e’ una cosa, ma quando il compagno di viaggio diventa un ospite fisso che abita con te da anni e che non intende andarsene,  e’ necessario inventarsi qualcosa e tanto dipende da noi.

A seconda di come lo trattiamo, possiamo ritrovarci imprigionati per sempre oppure scoprici affascinati di fronte ad orizzonti inediti, capaci di insegnarci sempre qualcosa di nuovo.

Ci sono sicuramente diverse persone ed esperienze che negli anni mi hanno accompagnato e aiutato in questa interessante ricerca ma, prima di tutte, rimane sempre lei. Mia madre, ormai lontana, ma sempre vicinissima.

Ogni volta che ripesco la gioia dopo uno smarrimento, la ritrovo lì al mio fianco, a sussurrarmi parole di conforto. Le stesse che ci aiutano a rialzarci e che, ancora con le ginocchia sbucciate, ci fanno scoppiare in una risata, colma di gratitudine.

Da qualche mese hai ricominciato ad utilizzare la voce, per mesi rimasta chiusa in cassetti di triste malinconia. Ogni volta è una sorpresa ritrovare quella tua forza che ci hai insegnato ad amare, anche quando ci manda ai matti!

Stamane cantavi a voce alta e io, commossa, mi sono sentita piena di felicità. Per te, per me e per quel canto capace di dirlo ancora e ancora.

Il mare sa sempre brillare e non c’è nulla come un canto senza parole che possa farlo scoppiare di  splendore.

La tragedia e l’educazione

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di Irene Auletta

Come molte persone nel mondo, sono rimasta senza fiato di fronte alla notizia che da ieri rimbalza nel web e che nominando Gaza, parla dello “strazio di Alaa, la pediatra che ha perso 9 dei suoi 10 figli in un raid”.

Di solito, di fronte a queste notizie, rimango silente e fatico a esprimere opinioni su questioni così complesse che richiedono una grande conoscenza e la capacità di trattenere superficiali commenti o esternazioni emotive, a mio parere, sovente un po’ fini a sé stessi. 

Ma stamane l’anima si smuove aprendo domande alle quali non trovo risposte di fronte a ciò che l’umano riesce a mettere in scena, costringendoci a non dimenticare la complicità di tanti in un’orrore difficile anche solo da nominare. Credo che per questo sia facile voltare la faccia altrove, oppure indignarsi senza intravedere direzioni possibili di azioni individuali.

Io riesco solo a pensare, molto in piccolo, a cosa posso fare, ogni giorno perchè ciò che sta accadendo, a Gaza e in altre parti del mondo, non rimanga uno sfondo della mia vita, ma si incarni in scelte, modalità comunicative e modi di stare al mondo e incontrare questa vita.

Stamane ho subito pensato a qualcosa di cui ho parlato proprio in questi giorni, in occasione di un evento culturale dedicato alla cura e alla necessità di assumere uno sguardo e una postura capaci di scegliere valori oggi assai poco di moda, per un’etica della cura che ci veda capaci di andare oltre il nostro interesse individuale per volgere lo sguardo verso chi sta attraversando sentieri esistenziali dissestati.

Lontana dai proclami, non posso non pensare a quanto ciò che accade può diventare occasione quotidiana per coloro che si occupano a vario titolo, personale o professionale, di educazione. Cosa possiamo continuare a insegnare ai bambini, ai giovani e agli adulti sui temi della vicinanza, della solidarietà, della comprensione, della gentilezza, e di quella creatività capace di sostituire la pretesa, l’arroganza, il lamento, l’individualismo a oltranza?

Cosa possiamo insegnare, non solo con le parole, ma attraverso le nostre scelte, le nostre azioni e i nostri comportamenti?

So che posso fare pochissimo e stamane il lenzuolo bianco, metafora del sudario di Gaza, vorrei che si stendesse su tante relazioni umane, personali e professionali, che ogni tanto mi pare abbiamo davvero perso la bussola rispetto a ciò che tutti noi dovremmo avere a cuore, prendendocene cura.

So per certo che provo a farlo da anni, in modo assolutamente imperfetto, ma l’urgenza mi arriva forte sostenendomi proprio in quella direzione. Fermiamoci tutte e tutti per favore. Fermiamoci un attimo solo e guardiamo a ciò che sta accadendo al nostro fianco e vicinissimo a noi. Solo così potremo dare un nostro autentico contributo, nel rispetto di chi, anche lontano, sta attraversando tragedie indicibili.

Per tutti quelli che invece riescono anche a fare altro, con azioni concrete capaci di andare nella stessa direzione, ma in modo molto più forte e potente, non posso che esprimere una profonda gratitudine.

Con riverenza.

Cuori forti

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di Irene Auletta

Mi capita spesso di riflettere e di scrivere intorno al tema della fatica che per molte persone pare essere una condizione inscindibile dall’esistenza. Mi dispiace tanto per loro ma quello su cui cerco di concentrarmi sono gli effetti di questo comportamento sull’educazione. 

Ne discutevo giusto qualche sera fa con un gruppo di genitori parlando di ciò che si insegna, sovente, senza alcuna consapevolezza. Il perenne lamento, la polemica continua, la critica appena possibile, la fatica per tutto, anche mentre si descrive qualcosa di bello, e via in questa direzione nel trascorrere dei giorni. Cosa insegniamo ai nostri figli e ai bambini e ragazzi tutti con questi comportamenti? 

Ti ho salutato tante volte in questi ultimi mesi e ogni volta il tuo cuore ha continuato a resistere rimandando il momento della tua morte, che ogni giorno diviene inesorabilmente più vicino. Oggi, mentre ti invito a riposare, ti racconto delle tante cose belle che mi hai insegnato, del mio bene immenso e della fortuna di averti avuto come madre. Anche la fatica mamma sei riuscita a farmela vivere con leggerezza e bellezza aiutandomi ogni volta a riempirla di quel senso che la giustificava dandole valore. 

Ti racconto di quanto mi sento immensamente grata mentre tu sei già altrove e forse neppure riconosci questa tipa che da un’ora ti stringe le mani e ti abbraccia. 

Quando sono diventata madre mi hai aiutata a rimettere insieme i pezzi di una maternità inattesa e piena di dolore e pian piano mi hai accompagnata a riprendermi la voglia di non perdere di vista la gioia. Il tuo dono più grande che oggi mi fa me e che fa di me la madre che provo a essere ogni giorno.

Signora non si faccia vedere mentre piange, mi dice un’assistente che passa dalla tua camera. Non rimango zitta e, chiedendole il perché della sua affermazione, le dico che le emozioni sono belle di tutti i colori e che nella storia con mia madre hanno sempre avuto un posto importante. Oggi non sarà un’eccezione.

Non voglio la sua risposta ma solo che esca dalla stanza insieme alle sue inutili prescrizioni che ancora una volta stridono con la mia idea di saluto. Quanto è difficile vivere la morte nella sua dimensione naturale e nel rispetto di chi si stringe nel suo dolore. 

Anche adesso, nelle tue ultime battute di vita, le tue mani instancabili sembrano cercare sempre qualcosa da fare e qualcuno di cui occuparsi. 

Anche adesso sei tu mamma, proprio la mamma che mi ha insegnato la profondità del valore della cura e della preziosità di occuparsi di chi amiamo. La parola fatica l’ho sentita pochissime volte uscire dalla tua bocca perché sei sempre andata oltre alla ricerca dei significati più profondi e me li hai insegnati. 

Poche parole, tantissimi gesti e azioni concrete.

Così, anch’io oggi, ti saluto in silenzio, con il dolore nel petto e il cuore forte che mi accompagna nella vita e ogni volta che abbraccio mia figlia.

Proprio , in quell’abbraccio, ogni volta siamo in tre.

“Più che temere che la mia vita abbia fine, temo che non abbia inizio. Non ho paura di morire, a questo tutti siamo obbligati, ma di non vivere. A te ne chiedo il segreto, cuore. Deve esser nascosto nella tua cavità se abbiamo scelto te, un organo cavo, per riassumere la vita dell’uomo, perché è ‘al cuore’ che si fa sempre ritorno”. Resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali di Alessandro D’Avenia

Cura, cuore e grammatica

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di Irene Auletta

In alcune situazioni delicate o di difficoltà ho sentito spesso mia madre ripetere una frase in dialetto che tradotta suona più o meno così. Il male è di chi lo sente e di chi lo ha in mente.

Avere nella mente è un’espressione che mi è sempre piaciuta e che sento più potente del “semplice” pensare, perchè mi restituisce un’idea di continuità, di processo, di una forma di vicinanza e di attenzione particolari.

Forse non a caso questa frase l’ho ritrovata familiare e sentita vicina nel mio percorso, personale e professionale, di ricerca sulla cura e su ciò che le ruota intorno, caratterizzandola.

Avere nella mente a partire da chi “sente il male”, mi evoca anche una condizione di rispetto per chi sta vivendo quel momento e la necessità di sapersi posizionare nel modo adeguato. Siamo circondati da una frettolosità che sovente rischia di farci fare scivolate, dal punto di vista comunicativo, rubando la scena alla storia dell’altro. 

Quante volte, di fronte a chi prova a raccontare, si ascolta subito l’eco di coloro che hanno urgenza di mettersi in primo piano sulla scena narrativa. Si anche a me è successo, anch’io vivo lo stesso, ti capisco perchè anche a me, perchè anche io

Questo IO dominante che, decisamente distante dalla condivisione, interferisce con quell’ascolto profondo fatto  sovente di sguardi, vicinanza e silenzi.

Se fossi una maestra elementare forse approfitterei della grammatica e dell’insegnamento dei pronomi personali per aiutare i bambini a comprendere il valore del tu, noi, loro in un intreccio tra grammatica e significato relazionale.

Mia madre mi ha insegnato ad avere rispetto del racconto dell’altro, perchè lì c’è la sua storia, il suo malessere, il suo male, il suo dispiacere, non il nostro. Il rispetto nella dimensione dell’ascolto, molto difficile da praticare, chiede una delicata  attenzione e una grande disciplina.

Il “male” di mia madre comprende sia il dolore fisico che quello del cuore e, nelle relazioni di cura, fa intravedere la dimensione della protezione, verso chi sta attraversando un momento di fragilità o difficoltà.

In questi casi ho imparato che ciò che rende intensa la scena di tale incontro, può essere solo la comprensione vista a braccetto con la condivisione, nel silenzio pieno di quei significati che tu mi hai insegnato ad apprezzare e ad amare.

La danza della cura, tra la mente e il cuore.

Eredi grati

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“La vita va avanti comunque, e suona che tu lo voglia o no, puoi solo alzare o abbassare il volume. E devi ballare.” (Alessandro D’Avenia)

di Irene Auletta

Mio padre è un uomo di altri tempi e con il passare degli anni è rimasto “integro” e fedele ai suoi orizzonti culturali di riferimento. 

Mai come in questi ultimi mesi la sua materialità e concretezza, in merito alle questioni importanti della vita, mi restituiscono la forza di qualcosa che tiene con equilibrio radicati alla terra e alla vita.

Di fronte al bisogno (di chi?) abbastanza diffuso di chiedermi se ora va meglio, se ci sono buone novità, se il momento è più sereno, mio padre guardandomi dritta negli occhi, mi invita “semplicemente” a stare,  ricordandomi che questa è la vita.

Me lo rammenta senza fatalismo o falsa resa, ma come un invito a non perdere di vista quelle dimensioni costitutive dell’esistenza che passiamo il tempo a rimuovere tranne quando rimaniamo, per cinque minuti, affascinati e affascinate dalle parole di qualche personaggio di turno, portatore di pillole di saggezza.

Poi, tutto continua esattamente come prima. 

Le interpretazioni (o giustificazioni?) si sprecano. E’ difficile stare a fianco di chi vive momenti difficili, non tutti siamo capaci di reggere il dolore, non è strano fuggire di fronte al proprio limite e al senso di impotenza … E via di questo passo, verso vie che interrogo e cerco di comprendere da anni, con molti dubbi e ancora tante domande aperte.

Mio padre, con poche ed essenziali parole, non scappa di fronte alla realtà e quel suo dire “questa è la vita” non esclude come sentieri possibili sia buone e auspicabili speranze, che puntate o epiloghi molto tristi, di cui nessuno ha colpa o responsabilità. Vito Mancuso, a tale proposito, ha parlato di dolore innocente.

Insomma, ancora oggi mio padre non smette di insegnarmi a non aver paura del dolore, a rispettarlo e a guardarlo nella sua essenziale naturalità, senza battaglie o idealizzazioni, ma come quella dimensione che ci ricorda come esseri umani, piccoli e velocemente di passaggio su questa terra.

E così, con il passare degli anni, mi accorgo che mentre lui mi ha insegnato sostanzialmente a non aver paura di vivere, allo stesso modo, le tracce indelebili di mia madre mi sostengono ogni giorno, proprio per dare valore alla vita, a non perdere di vista la ricerca della gioia e della bellezza.

Figlia mia,  tuo padre direbbe Noi siamo l’eredità.

Perturbazioni e tormenti

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di Irene Auletta

E’ tornata, dico a tuo padre, dopo oltre dieci giorni di cuore sospeso.

Sei tornata anche tu, mi risponde. 

Non è strano nella nostra esperienza vederti star male e poi riprenderti ogni volta con forza e tenacia. Ma stavolta l’incubo di quello che ci circonda ha reso tutto più complesso e difficile e mi rendo conto, oggi più che mai, che in queste circostanze sento un forte bisogno di fare silenzio intorno a me. Non amo condividere più di tanto quello che accade in questi casi e, appena posso faccio silenzio, provando a far scorrere nella “normalità” la vita intorno a me.

Le forme del dolore e della preoccupazione sono diverse e questa è quella che protegge me da molti anni. Quella bolla magica in cui ci nascondo e in cui ti racconto che anche stavolta, passerà.

Questi strani tempi attuali, dove mi raggiunge forte l’eco di tanti altri cuori sospesi, mi aiutano anche a capire il perchè di molte mie scelte e del mio rapporto con quello che mi circonda che, nel tempo, ho imparato a perfezionare. La mia attività professionale non si è mai sospesa anche nei momenti più bui e, al di là di quello che possono aver intuito o intravisto le persone che negli anni mi hanno incontrata, so di aver trovato un modo per mettermi in protezione.

Di sicuro ho imparato che di fronte alle sfumature della vita si può reagire in molti modi e, senza farne un elenco più o meno virtuoso, ho scelto il mio. Questo per me vuol dire imparare nelle intemperie e di certo non vuol dire sentirsi speciali né particolarmente fighi.

Chi sta male, o porta nello zaino della sua vita grandi preoccupazioni, fa sempre un po’ paura e forse anche per questo di fronte al malessere scatta subito la tentazione di raccontarne uno proprio o di rassicurare, finendo così inconsapevolmente, per banalizzare il senso dell’altro. Mi viene in mente un bel video sull’empatia che riesce, con leggerezza, a trattenere grandi profondità e che consiglio di vedere.

Così, quando tuo padre mi restituisce il cambiamento che si legge nei miei occhi mentre attraverso le onde, mi ci riconosco moltissimo perchè proprio lì sento una profonda sintonia con te. Non so quanto ciò appartenga a tutte le madri, ma per me questo è un tratto forte e ineliminabile. La mia priorità, di fronte all’incertezza, diventa tenerti per mano e tutto il resto, non scomparendo, finisce al contrario per risultarmi molto più chiaro. 

In questo sei la mia bussola di senso e ogni volta, insieme a te, riemergo con nuovi significati da trattenere e approfondire. Continuare a scriverne,  lungi da me il desiderio di ricevere domande nello specifico, mi aiuta a trattenere la forza necessaria per affrontare le ombre, tenacemente alla ricerca del tepore e della bellezza della luce. 

Non è questo il momento perfetto per condividerlo?

Oltre la vita

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di Irene Auletta

In questi giorni ho accompagnato mio padre nelle varie tappe di saluto al suo fratello minore. Ieri camera ardente, oggi funerale. Il dolore rende ancora più vulnerabili e mi ritrovo a guardare i miei genitori che, improvvisamente, mi sembrano diventati ancora più anziani. 

Con questo zio, molti anni fa, avevo avuto uno scambio non facile sempre in occasione di un funerale. Ma quella volta, si trattava di quello di mio fratello quindicenne. Avrei capito solo molto anni dopo che nella nostra famiglia il dolore, allora, assumeva le forme più svariate di eccesso di spiegazioni, inutili razionalizzazioni e negazione delle emozioni.

In questi giorni ho dialogato un po’ con la memoria di mio zio e gli ho raccontato della strada fatta. Oggi al suo funerale, nel silenzio della funzione religiosa, gli ho detto quanto ho imparato in questi anni, proprio a partire da quel nostro scambio di anni fa, dove il mio dolore sapeva esprimersi solo con rabbia.

Vedere mio padre piangere e’ stato quasi un sollievo e mi è parso che il tempo passato, abbia insegnato qualcosa anche a lui. Mia madre invece, le sue lacrime le ha esaurite e nel mondo in cui a volte si perde sembra esserci spazio solo per un po’ di leggerezza. La vita satura e le persone anziane, ognuna a suo modo, sembrano ricordarcelo.

Oggi mi sono portata a casa, insieme a molte emozioni evocate da tanti incontri, un monito alla misura e all’equilibrio. In fondo la morte, come ha detto saggiamente mia madre, ci ricorda di non pensarci eterni e di “fare, appena possibile, pace con la vita”. 

Con il dolore ci faccio pace ogni giorno e, ogni giorno, grazie a questo, intravedo pertugi di gioia.

La vita e la morte oggi mi hanno mostrato una nuova danza.

Forme di gentilezza

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di Irene Auletta

Da quando sei piccola, hai un modo molto particolare di reagire al dolore fisico. Quasi come fanno in modo istintivo gli animali, ti metti in protezione, proprio tu che con il dolore hai uno strano rapporto. Sembri averne una tolleranza altissima, figlia del grave disturbo neurologico, e al tempo stesso ti blocca. 

Per fortuna non hai mai avuto incidenti molto gravi ma tante storte alle caviglie che per giorni hanno bloccato o rallentato il cammino, piccole contusioni o botte che ti hanno fatto assumere atteggiamenti di chiusura, e ombrose stereotipie,  a volte molto difficili da accettare e comprendere.

Così, di ritorno dalla tua vacanza lontana da noi, mi accorgo di una mano gonfia e di quel tuo comportamento che la lascia lontana da qualsiasi azione possa coinvolgerla direttamente. Non la utilizzi più per mangiare, ed è proprio la destra, o comunque lo fai con estrema fatica e lentezza, non la usi per prendere, stringere, appoggiarti.

Da subito Angela, la tua maestra Feldenkrais, ci rassicura, rispetto al timore di una piccola frattura e dopo due settimane oggi ti ricontrolla. Il problema sta rientrando e pian piano anche tu permetti alla mano di assumere piccole fatiche o pressioni. Anche se poi tuo padre mi racconta che pochi giorni fa in piscina ti sei scatenata anche mettendo la stessa mano sotto fortissimi getti di acqua. 

Di fronte al tuo comportamento Angela riconosce quel tuo fare di sempre e sottolinea che è molto bello il tuo modo di essere gentile con un tuo dolore e di prendertene cura.

Ecco, queste sue parole continuano a girarmi nella testa e ti corrispondono tantissimo in quel tuo essere goffa, maldestra e al tempo stesso piena di grazia, anche verso alcune tue fragilità.

Quanto ho ancora da imparare cara ragazza del mio cuore!

Dolore e ammorbidente

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di Irene Auletta

Il tempo  ha davvero un grande potere lenitivo e curativo ma a volte i ricordi riemergono attraverso i sensi. Proprio in questi giorni, leggendo alcuni post, sono stata raggiunta da quel profumo di ammorbidente, per anni rimasto lì a riposo in un angolo della mia memoria.

Quando si pensa alla disabilità di un figlio sovente si viene toccati dall’idea di sofferenza mentre rimane decisamente sullo sfondo ciò che invece molti genitori conoscono benissimo e che risponde al nome-eco di fatica, fatica, fatica.  

Nei primi tuoi anni di vita, quando ancora non sapevamo che tutta quella varietà di sintomi fosse da attribuire non solo alla disabilità ma anche alla malattia autoimmune aggiunta al tuo corredino genetico, passavo il tempo a lavare indumenti e lenzuola. Credo di essere arrivata a fare fino a sei/sette lavatrici in una sola giornata e risparmio, per rispetto a te e a me, i particolari relativi a pavimenti, arredi e abiti della sottoscritta.

Quello che normalmente gestisce una famiglia in presenza di un neonato, solitamente ricordato come “quel periodo del rigurgito o della cacchina santa”, rischia di diventare una vicenda senza fine in cui si rimane intrappolati. In quegli anni nella nostra casa aleggiava un costante profumo di ammorbidente e neppure ricordo il numero di stendini accampati ovunque.

Lì, proprio in quel periodo della nostra vita, ho capito che si sopravvive a tutto. Al dolore, alla fatica, alle notti insonni, all’ansia che non ti lascia mai, alla sensazione di essere precipitati in un baratro di cui non si intravede il fondo. Si riesce quasi a vivere senza respirare!

Poi, per fortuna o semplicemente perchè è così la vita, accade qualcosa che interviene pietosamente in soccorso e a noi è accaduto che, crescendo, molti tuoi problemi sono rientrati ed altri, pur non scomparendo, ci hanno dato un po’ di tregua. 

Per questo oggi mi godo ogni attimo, perchè so che l’inferno potrebbe nuovamente bussare alla nostra porta e non voglio avere nessun rimpianto. Oggi per fortuna respiro e nel naso mi raggiunge solo un profumo che, a ricordarlo, mi strappa un sorriso.

Curiamandoci

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di Irene Auletta

Ti guardo mentre ti aggiri per casa un po’ insofferente. Difficile avere un fastidio che non si può dire, che non si può condividere e che neppure si può gestire nella maniera che sarebbe la migliore possibile per diminuirne l’intensità.

Alla fine quello che fai sta ritardando la guarigione e non c’è verso di aiutarti a capire che non e’ quella la strada giusta. 

E’ così ieri sera ad un certo punto ho perso le staffe e ti ho detto secca che devi smetterla, che così non guarisci, che il fastidio aumenta … bla bla bla

Ho parlato per me, per gestire quella frustrazione che dura ormai da giorni, per non sentire il dolore dell’impotenza e perché in fondo è chiarissimo cosa mi accade, in questi momenti più che mai.

Ti vedo disabile. Non solo fragile ma proprio disabile. Persa nel tuo mondo di stereotipie dove a volte mi sembra impossibile raggiungerti. Stasera siamo a casa da sole e in questo momento ognuna di noi è isolata e persa nella sua “bolla autistica”.

Dura poco, ma abbastanza per farmi parecchio male e allora inizio quel lento ricucire di sguardi, gesti e alla fine carezze, che accetti come pomata lenitiva.

Ti convinco a curare quella parte dolorante e mentre lo faccio, con la tua massima collaborazione, ti sussurro che mi dispiace tanto non riuscire sempre a capire come aiutarti e poi, scema di una scema, ti faccio pure i “cazziatoni”. Che mamma insopportabile hai certe volte, Luna!

E tu ridi e mi sorridi.

Mi guardi con gli occhi e il cuore da grande, regalandomi il tuo migliore abbraccio di consolazione. E’ anche così che noi due ci amiamo, curandoci le ferite, tra il riso e il pianto.

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