Gesti preziosi e fagiolini

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di Irene Auletta

Mia madre mi ha insegnato che stare vicino è un fatto di carne, di azioni concrete, di gesti. Poche parole e tanti fatti diceva sempre lei che neppure aveva idea di essere così vicina al filosofo Seneca quando scriveva che i fatti devono provare la bontà delle parole. Altrimenti …

Quando aprivo la porta sorpresa dalla loro visita, la sua e quella di mio padre, la sua frase ricorrente accompagnava una visita di saluto, di compagnia, di vicinanza. Vuoi che ti prepari qualcosa per cena? Guarda cosa ti ho cucinato a casa. Dammi qualcosa da fare, che faccio qui con le mani in mano?

Le parole non erano il suo forte, anche se le sue espressioni e le sue massime in dialetto mi accompagnano ancora oggi ogni giorno, ma i suoi gesti mi hanno sempre raggiunta forti, delicati, amorevoli, presenti. Mi ha insegnato l’allegria proprio così, mentre ripeteva ricordati che ad essere allegri quando va tutto bene, sono capaci tutti! Si mamma, avevi proprio ragione, è l’allegria del cuore pesante la vera sfida, quella che ti orienta a sostenere un sorriso nella tempesta e a cercare tenacemente di insegnarla a chi ami, proprio mentre sta attraversando strade assai accidentate, vicinissime a burroni.

Mia madre non immaginava neppure lontanamente che oggi le vicinanze avrebbero preso quasi esclusivamente la forma di messaggini ed emoticon, rimarcando una solitudine del genere umano forse mai vissuta prima, soprattutto di fronte ad una mancanza grande, ad un dolore, ad un grave inciampo della vita. 

Direbbero i ragazzi, vuoto cosmico, cuoricini e baci come se non ci fosse un domani mentre ciascuno fa i conti con le sue onde esistenziali, che tanto, prima o poi, ci coinvolgono tutti. 

Si è proprio vero, i fatti devono provare la bontà delle parole e, per quello che mi riguarda provo a farne tesoro, ogni giorno, con le mie vicinanze preziose, con i miei affetti più cari e con quella fantastica signorina che non si fa fregare dalle parole.

Siamo sedute vicino, io un po’ persa nei miei pensieri, quando la tua mano si avvicina al mio viso per girarmelo delicatamente, ma senza equivoci e con fermezza, verso di te. Per un attimo i tuoi occhi mi trafiggono riportandomi vicina con la carne. Le tue mani mi cercano tirandomi a te e qui, proprio qui, c’è il prezioso che mi guida indicandomi la via. 

Sto imparando da parecchi anni a non perdere di vista l’intensità della vita lasciando andare tutto ciò che non mi riguarda e che davvero non ha più senso. Piano piano imparo Luna, tu continua ad avere pazienza.  Che ti preparo per cena? Vengo vicino a te a pulire i fagiolini, che faccio qui con le mani in mano? 

Navigando

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di Irene Auletta

Come genitore di una giovane donna con disabilità mi misuro quasi ogni giorno con qualche ambivalenza. Credo fermamente nell’importanza di riconoscere la tua età e di non vederti eternamente bambina o ragazza, che a questo già ci pensa il mondo, ma a volte, di fronte ad alcune tue reazioni,  sono proprio io a resistere.

Luna mi sembra molto preoccupata, da qualche tempo la trovo triste.

E io, che ti riconosco così, sento un sacco di pizzichi al cuore e alla pancia. Ma la malinconia, la tristezza e la preoccupazione non fanno parte della vita adulta?

In questi tempi hai tutte le ragioni per esserlo, malinconica, triste e preoccupata e, come del resto accade anche a me, sei chiamata a stare con questi stati dell’anima trovando possibili strategie per non soccombere. Razionalmente tutti i pensieri in questa direzione scorrono lisci come seta ma quando ti guardo, sei proprio tu a occupare parte della mia preoccupazione. Con tutte le ambivalenze del caso. 

Luna e’ grande, mi ha detto di recente un’operatrice, e si vede quanto avete fatto per lei e quanto l’avete nutrita e continuate a farlo. Abbia fiducia in lei!

In questa frase, che accolgo con gratitudine, trovo riparo e cerco quiete per la mia anima in tempesta.

Domenica siamo state a visitare un’abbazia dove ci siamo fermate, originali pellegrine, a gustare quel silenzio che solo luoghi pieni di tanta spiritualità permettono di assaporare.

Luna accendiamo una candela della fortuna? Lo facciamo in silenzio, tenendoci per mano.

Qui siamo noi, la nostra essenza e la nostra fragile forza. Teniamoci forte amore, alziamo gli occhi verso l’alto e facciamoci curare dalla bellezza degli affreschi che, ancora una volta ci ricordano quanto siamo piccole e quanto ancora possiamo gustarci di questa vita.

Il resto, per dirla con Ebenezer Scrooge, (*) tutte fandonie!

(*) Il personaggio principale del racconto Canto di Natale, scritto da Charles Dickens nel 1843.

C’est la Vie 

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di Irene Auletta

Dove vai figlia mia quanto ti perdi nei tuoi mondi a me sconosciuti? Dove vado io quando attraverso i miei sentieri misteriosi?

Viaggiatrici toste ma in affanno stiamo vivendo tempi difficili e ognuna di noi due, per le sue vie, cerca soluzioni per affrontare tempeste e schiarite. 

I nostri viaggi in auto sono da sempre un’occasione per perdersi e ritrovarsi e ogni martedì ci aspetta il prima e dopo piscina che riempiamo di silenzi con tante chiacchiere di intensità. Con il cuore pesante alcune settimane fa ti ho raccontato che la nonna si è addormentata per sempre.

Ho fatto riferimento allo stesso linguaggio che anni fa ci aveva aiutato di fronte alla morte della nostra gatta. Ti  aveva accolto alla nascita, in casa, annusando la placenta e da allora ti ha protetto come sua cucciola fino alla fine. Avevi accettato di accarezzarla nelle sue ultime ore di vita ma, appena morta, ti sei rifiutata categoricamente di avvicinarti. Luna, ti ho detto, la nostra Mimi’ si è addormentata per sempre e tu sembravi aver capito benissimo.

E ora, con gli occhi pieni di lacrime e il cuore dolorante, mi chiedo se riesco a raggiungerti. Non ti nascondo il mio pianto perché so che quando arriva lo senti, ma provo a trasformarlo, come ci ha insegnato la nonna, per renderlo più leggero. Hai già tanto peso da portare nel tuo zainetto  e purtroppo negli ultimi anni la vita ha aggiunto ancora qualcosa da portare insieme.

Mentre a volte sembri davvero altrove, altre vedo e sento i tuoi occhi profondi che mi cercano e mi scrutano, insieme a quella ricerca di contatto che ci tiene strette nel nostro incontro d’amore a prenderci cura l’una dell’altra.

Senti Luna, ti ho visto tuffarti, sei davvero coraggiosa … Non vedo l’ora di nuotare con te e di divertirci insieme in acqua a farci gli scherzi!

In acqua le tue enormi difficoltà motorie diventano morbide e il tuo viso felice racconta l’esperienza di quella fluidità per te assai difficile nella gravità. Osservo la stessa leggerezza ogni settimana dopo  la tua lezione Feldenkrais  che, nel nostro ritrovarci, mi coinvolge in quella tua camminata addolcita, quasi a compiere insieme passi di danza.

Così ogni volta, grazie all’esperienza che passa dal corpo, provo a stare con te nelle piccole leggerezze ritrovate e possibili e, cercando di gustarmi questi momenti preziosi, chiedo aiuto alla terra di radicarci forte e a quell’indelebile sorriso abbracciato al mio cuore di continuare a illuminarci la via. 

Sempre, sempre. Nelle dolorose cadute e nei nostri fantastici voli.

C’est la vie mon amour!

Cuori forti

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di Irene Auletta

Mi capita spesso di riflettere e di scrivere intorno al tema della fatica che per molte persone pare essere una condizione inscindibile dall’esistenza. Mi dispiace tanto per loro ma quello su cui cerco di concentrarmi sono gli effetti di questo comportamento sull’educazione. 

Ne discutevo giusto qualche sera fa con un gruppo di genitori parlando di ciò che si insegna, sovente, senza alcuna consapevolezza. Il perenne lamento, la polemica continua, la critica appena possibile, la fatica per tutto, anche mentre si descrive qualcosa di bello, e via in questa direzione nel trascorrere dei giorni. Cosa insegniamo ai nostri figli e ai bambini e ragazzi tutti con questi comportamenti? 

Ti ho salutato tante volte in questi ultimi mesi e ogni volta il tuo cuore ha continuato a resistere rimandando il momento della tua morte, che ogni giorno diviene inesorabilmente più vicino. Oggi, mentre ti invito a riposare, ti racconto delle tante cose belle che mi hai insegnato, del mio bene immenso e della fortuna di averti avuto come madre. Anche la fatica mamma sei riuscita a farmela vivere con leggerezza e bellezza aiutandomi ogni volta a riempirla di quel senso che la giustificava dandole valore. 

Ti racconto di quanto mi sento immensamente grata mentre tu sei già altrove e forse neppure riconosci questa tipa che da un’ora ti stringe le mani e ti abbraccia. 

Quando sono diventata madre mi hai aiutata a rimettere insieme i pezzi di una maternità inattesa e piena di dolore e pian piano mi hai accompagnata a riprendermi la voglia di non perdere di vista la gioia. Il tuo dono più grande che oggi mi fa me e che fa di me la madre che provo a essere ogni giorno.

Signora non si faccia vedere mentre piange, mi dice un’assistente che passa dalla tua camera. Non rimango zitta e, chiedendole il perché della sua affermazione, le dico che le emozioni sono belle di tutti i colori e che nella storia con mia madre hanno sempre avuto un posto importante. Oggi non sarà un’eccezione.

Non voglio la sua risposta ma solo che esca dalla stanza insieme alle sue inutili prescrizioni che ancora una volta stridono con la mia idea di saluto. Quanto è difficile vivere la morte nella sua dimensione naturale e nel rispetto di chi si stringe nel suo dolore. 

Anche adesso, nelle tue ultime battute di vita, le tue mani instancabili sembrano cercare sempre qualcosa da fare e qualcuno di cui occuparsi. 

Anche adesso sei tu mamma, proprio la mamma che mi ha insegnato la profondità del valore della cura e della preziosità di occuparsi di chi amiamo. La parola fatica l’ho sentita pochissime volte uscire dalla tua bocca perché sei sempre andata oltre alla ricerca dei significati più profondi e me li hai insegnati. 

Poche parole, tantissimi gesti e azioni concrete.

Così, anch’io oggi, ti saluto in silenzio, con il dolore nel petto e il cuore forte che mi accompagna nella vita e ogni volta che abbraccio mia figlia.

Proprio , in quell’abbraccio, ogni volta siamo in tre.

“Più che temere che la mia vita abbia fine, temo che non abbia inizio. Non ho paura di morire, a questo tutti siamo obbligati, ma di non vivere. A te ne chiedo il segreto, cuore. Deve esser nascosto nella tua cavità se abbiamo scelto te, un organo cavo, per riassumere la vita dell’uomo, perché è ‘al cuore’ che si fa sempre ritorno”. Resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali di Alessandro D’Avenia

Incontri al cloro

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di Irene Auletta

Scusa se ti osservo tanto ma ogni volta che ti vedo penso che mi piacerebbe imparare da  una mamma come te.

Ci incrociamo da circa un anno, una volta alla settimana, in piscina con i nostri figli. Il suo un bambino, la mia una signorina, lei una giovane donna, io con parecchi anni in più.

Di fronte alla sua affermazione prendo tempo anche perché la vestizione ci chiama mentre già penso al momento di infilarti  la muta e alla mia spalla dolorante. 

Poco dopo, mentre siamo in attesa a bordo vasca, osservando da lontano i nostri figli le chiedo se ha piacere di spiegarmi la sua affermazione di poco prima.

Così mi racconta delle preoccupazioni per il futuro e dei timori di fronte alla crescita del suo bambino. Vedi, ora quasi non si vede la sua differenza ma quando vedo i ragazzi grandi e gli stessi comportamenti mi chiedo come farò a gestirli. Si smette di soffrire con il tempo? Quando ti guardo con tua figlia mi sembri così serena e allora penso che forse è possibile!

Quante volte ho sentito queste frasi e forse io stessa le ho formulate dentro di me. Le sorrido mentre riesco solo a dire che si impara a diventare genitori grandi insieme alla crescita dei nostri figli, esattamente come fanno tutti i genitori ma dentro di me so che manca un pezzo importante e che sto scivolando sulla superficie. 

La settimana successiva mentre all’arrivo ci salutiamo, mi avvicino con alcuni fogli raccolti proprio per lei. Ho pensato alle tue domande e, se può esserti utile, ti ho portato queste poche pagine da leggere che in passato sono riuscite, e ancora oggi riescono, a consolarmi anche nei momenti più bui. 

Ci sorridiamo e così accade anche nelle settimane successive quando mi dice, toste quelle pagine grazie, ma sappi che continuerò a guardarti per rubarti i segreti!

Il dolore mi ha insegnato e continua a insegnarmi davvero tanto ma ci sono incontri che riescono a restituirmi nuove sfumature di senso di questa avventura insieme a pizzichi di inattesa serenità. 

Ti osservo da lontano e ti vedo, sempre con un po’ di maldicuore, con tutte le tue enormi difficoltà  e con i  tuoi limiti. Però, mentre mi avvicino alla vasca, i contorni dei sentimenti vanno sfumandosi e di fronte a me vedo solo mia figlia.

La vita, con tutte le sue strampalate altalene, per ora non può che strapparmi un sorriso mentre ci ritroviamo in quell’abbraccio al cloro che ci fa Noi restituendomi la bellezza del nostro incontro.

Passeggiando nel tempo

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di Irene Auletta

Negli ultimi tempi gli incontri con mia  madre si sono trasformati in viaggi nel tempo. Il segreto è non porre resistenza e farsi accompagnare in sbalzi da capogiro, in un movimento continuo tra passato prossimo e passato remoto, con qualche puntatina nel presente.

Diversamente da chi in tali situazioni si angoscia, io ho scoperto la via della curiosità e la possibilità di stupirmi insieme a lei di qualcosa che, anche ripetuta a distanza di cinque minuti, diventa una sfiziosa novità.

Ti stupisci della tua età e della mia e riesci sempre a dirmi che sono sciupata e troppo magra.  Dai mamma non è poi tanto vero, ti dico nel nostro ultimo incontro. Allora mi sorridi e con candore mi rispondi che forse mi “sono fatta vecchia”. Replico ridendo che questo è troppo e le ricordo ogni volta le sue di primavere! Ma veramente? Allora mi sono fatta vecchia pure io!

Così va meglio.

Ti faccio vedere spesso qualche foto di Luna, solo un paio perché di più fai fatica a seguirle e non di rado commenti chiedendomi se riesce a farsi capire. Questa tua domanda mi commuove sempre perché era la tua preoccupazione di sempre nei suoi primi anni di vita e colgo lo stupore quando ti ricordo che ora ha ventisei anni.  Cerco di raccontarti solo cose belle e leggere ma ogni tanto mi punti gli occhi negli occhi e sei tu, che mi osservi nel profondo. 

Quante cose pesanti la vita ti ha messo sulle spalle … Lo dici quasi a bassavoce, come fosse un sospiro.

Non faccio neppure in tempo a trattenere le ultime battute che sei già altrove, indietro di trenta, venti, dieci, cinque anni fa.

Mi torna in mente la bellissima frase di film che ho visto di recente. “A volte è meglio non sapere le cose. Il bello della vita è proprio questo: ignorare che cosa accadrà domani; anzi, che cosa accadrà tra un istante. Del resto, come potremmo nutrire qualche speranza sul nostro futuro, se lo conoscessimo già?”.

Appunto.

Quando mi riprendo dal mio vagare, ti vengo a cercare in un altro tempo e così fino alla fine del nostro incontro, con il tuo saluto che ripete sempre le medesime parole con cui mi accogli. 

La mia Irene … la mia Irene.

E così ti saluto incrociando il tuo sorriso stanco mentre i tuoi occhi sono già di fronte ad un altro paesaggio a guardare chissà cosa. Ogni volta devo fare pace con il desiderio di esserci di più e con la mia vita che decide le sue battute spesso incurante di ciò che vorrei non perdere o trattenere il più possibile. 

Dopo ogni visita, ritorno pian piano verso casa accarezzando attimi di nostalgica malinconia in compagnia dei temporali e delle schiarire del cuore.

Quando torno da te figlia mia, il tempo è quello di un magnifico e terribile inesorabile presente.

Luna lo sai cosa ho raccontato alla nonna? Le guardiamo un po’ di foto delle tante cose belle fatte insieme? 

Nel tuo tempo dell’eterno presente i ricordi, tra profumo di violetta e Leocrema, mi riportano in equilibrio tra i miei affetti più cari e profondi e proprio lì, il battito trova attimi di quiete e di felicità.

L’aula e la classe (La sala professori Ep finale)

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di Igor Salomone

Con questo episodio si conclude la miniserie dedicata al film La sala professori. Spero nel frattempo chi voleva vederlo l’abbia visto così può lanciarsi nella lettura delle mie riflessioni in proposito. Ci sono moltissimi SPOILER, quindi procedete solo se siete più interessati ai miei sproloqui pedagogici che al film. L’ultimo episodio, come spesso succede nelle serie televisive, è piuttosto lungo, armatevi di pazienza e vi assicuro che ho trascurato diversi momenti interessanti per non dilungarmi eccessivamente. Magari chi invece ha visto il film e non trova alcuni passaggi nella mia analisi, può sempre porre domande nei commenti, sia su Fb che sul blog.

Ah, lancerò a breve un invito alla mia prima Live Stream su YouTube. Ebbene sì quella mi mancava, ne sto seguendo un bel po’ e mi sono detto perchè non provo anch’io?

La data prevista sarà il 13 aprile alle 10 del mattino (è un sabato) e avrà come titolo probabile:

“La scomparsa dell’educazione è una deep fake”

Arriverà il link sui social e via mail. Non avete che da collegarvi.

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Come ho detto nell’episodio 1, il titolo del film La sala professori è fuorviante: mette al centro della vicenda una scena che non lo è affatto. Una scena non è un semplice spazio allestito e adibito, ma un luogo nel quale si snodano vicende varie, ognuna delle quali si pone come momento-scena con regole e significati suoi propri. In una sala professori si possono tenere riunioni tra docenti, colloqui con gli studenti, persino approntare un videospionaggio per cogliere in flagrante qualche collega, utilizzo improprio praticato nel film e al centro di tutti i conflitti successivi. In tutti i casi la “sala professori” non è solo uno spazio esclusivo dove i docenti si incontrano, leggono, preparano le lezioni, correggono i compiti, ma è di volta in volta una sala riunioni, un spazio colloqui, una scena del crimine. Che il contenitore sia definito dal contenuto lo dimostrano alcuni piccoli ma significativi tratti: nelle riunioni è presente anche la preside che non è tecnicamente una docente, i colloqui prevedono almeno un alunno o un genitore, anch’essi evidentemente estranei al corpo docente, e il videospionaggio espelle dalla sala tutti i ruoli normali, introducendo i personaggi del sospettato e dell’investigatore.

Insomma, abbiamo un solo spazio con la sua struttura materiale, ma diverse scene eterogenee tra loro. Alcune possono essere considerate scene educative, altre no. Un momento in cui i docenti si riuniscono oppure correggono i compiti, non è una scena educativa. Tanto basti per sostenere che la sala professori non è il centro della narrazione. Devono essersene accorti anche regista e sceneggiatori, perchè il film è pieno di scene educative che si susseguono intrecciandosi tra loro.

Quindi cominciamo da principio: lo spazio clou della vicenda è l’aula dove l’insegnante di matematica insegna alla sua classe di studenti presumibilmente del primo anno. L’insegnante entra in aula e tipicamente trova un gruppo di studenti e studentesse occupato a fare ciò che fanno tutti i gruppi classe prima che inizi la lezione: parlano a gruppetti, giocano a qualcosa, si bullizzano un po’, qualcuno ripassa, in un vociare collettivo inconfondibile. La docente non profferisce parola, resta in piedi, allarga le braccia, palmi delle mani rivolti verso l’alto, portando in su entrambe le braccia. Nell’aula il rumore di fondo svanisce lasciando spazio al silenzio. Parte un breve battimani offerto dalla professoressa seguito da un battimani ritmico altrettanto breve di risposta da parte della classe. A quel punto tutti sono seduti al proprio posto, in silenzio, e la lezione può iniziare.

Solitamente scene di questo tipo, raccontate o rappresentate in un film, scatenano la pancia metodologica di ogni educatore. E si formano fazioni. Chi plaude all’idea, chi la considera irreale e non praticabile, chi la mette n croce come pratica politicamente non corretta. Si possono formulare i giudizi più disparati su una tecnica di questo tipo, e possiamo stare certi che su dieci educatori o insegnanti o genitori, avremo dieci giudizi differenti. Se non di più. E tutti non colgono il nocciolo della questione: cosa sta facendo concretamente l’insegnante, al di là che lo faccia bene, male o così così.

Le scene educative non si snocciolano senza soluzione di continuità, tra l’una e l’altra si colloca un momento di transizione necessario sia perché si passa quasi sempre da un sistema di regole a un altro, sia perchè l’avvio di un momento-scena istituisce la scena connettendola a quelle precedenti dello stesso tipo. In altre parole, l’insegnante letteralmente “avvia” la scena con un rito collettivo che ricorda a tutti con chi sono a fare cosa.  E presidia quel momento in modo chiaro, al punto che il concertino ritmico si ripete anche durante la lezione quando succede qualcosa che la interrompe e occorre riavviarla.  Detto questo e solo detto questo possiamo avanzare riserve sul metodo particolare che ha utilizzato. Magari un rito sempre uguale non era il caso, oppure poteva essere inadeguato all’età degli studenti, o anche rivelarsi troppo prescrittivo e autoritario. Comunque sia, quel momento di avvio della scena è cruciale, puoi gestirlo male, in modo banale e semplicistico, oppure ignorarne l’esistenza, ma quella transizione non puoi evitarla perchè è una struttura profonda dell’educazione.

Che la scena non vada confusa con il luogo è reso plasticamente anche dalle lezioni di ginnastica che l’insegnante di matematica si trova a tenere, non so per quale strana alchimia della scuola tedesca. La classe è la medesima, l’aula subisce una metamorfosi assumendo le sembianze di una palestra, il movimento dei corpi è radicalmente differente e l’insegnante, libera dal vincolo dei banchi, fa dialogare gli studenti attraverso il movimento e il contatto fisico. Non è questione di aver sostituito una lezione frontale con un po’ di movimento in salsa psicomotoria, si tratta di vedere come uno stesso momento-scena può evolvere in spazi differenti utilizzandone le possibilità intrinseche, anche se, come accade nel film, il cambio di registro non risolve il problema che voleva risolvere, ovvero il conflitto tra due ragazzi generato dal casino che aveva messo in piedi l’insegnante per giocare a CSI.

L’inefficacia dei tentativi della professoressa tocca il suo punto massimo quando l’intera classe la boicotta mantenendo un rigido silenzio davanti alle sue domande. L’acme drammatico si raggiunge quando uno dei ragazzi dice all’insegnante sempre più attonita e impotente: “noi facciamo questa cosa di battere le mani solo per lei”. Dimostrando con questa uscita che anche da parte dei ragazzi non è in discussione l’importanza di quel momento di istituzione della scena ma il modo tutto sommato goffo con il quale l’insegnante l’ha trattato. Poteva andar bene sino a un certo punto, ma nel momento in cui l’insegnante perde tutta la sua credibilità, la tecnica che utilizza appare improvvisamente povera e un po’ ridicola, anche agli occhi della classe. Ma non il momento di transizione che istituisce il momento-scena, che emerge dalle ceneri del metodo per stagliarsi in tutta la sua necessità.

Vedere con lucidità la struttura e il significato di questo momento-scena, la lezione, permette di capire che il conflitto tra l’insegnante, la segretaria, la preside, i genitori, lo studente e nel gruppo classe, si gioca in un campo nel quale ciò che accade acquista di senso proprio perchè accade in quel campo. Siamo a scuola, quindi in un luogo sociale preposto a insegnare agli studenti i fondamenti della cultura e le derivate disciplinari necessarie per apprendere quei fondamenti e farli propri. E per far questo ogni insegnante deve chiarire ogni maledetto giorno cosa sono lì a fare e perchè, presidiare le differenze tra i momenti-scena attraversati nel corso della giornata, affrontare ed esplorare i temi emergenti con tutti gli attori coinvolti. Il pedagogico è una questione di postura da assumere prima che di metodi da applicare o di obiettivi da raggiugnere.

Ne La sala professori, invece, tutto ciò si dissolve nell’infinita serie di incontri più o meno infuocati che seguono il fattaccio commesso dall’insegnante alla ricerca del colpevole. Il tema del rapporto tra verità, rispetto e fiducia, non viene affrontato con la classe, mettendo gli studenti nelle condizioni di sottrarsi alle parole e ai residui di intenzionalità educativa rimasti e allargando questa débâcle a tutti gli studenti della scuola. Alcuni studenti, se non ricordo male i rappresentanti di classe, vengono sottoposti a un interrogatorio e stretti al muro in forte difficoltà, nel consiglio di classe gli stessi studenti, già in precario equilibrio tra il loro ruolo organizzativo e quello di educandi, sembrano voler sparire confondendosi con la tappezzeria, gli incontri con i genitori dei ragazzi coinvolti seguono lo standard del chi difende chi, lasciando il figlio/studente del tutto inascoltato, il giornalino della scuola infine diventa un’arma che gli studenti tutti brandiscono per difendersi dal casino che non hanno creato loro ma che li ha tirati in mezzo a loro insaputa e il successivo atto di censura promulgato dalla preside trasforma un evento, che potrebbe essere squisitamente educativo per tutti, in uno scontro dall’amaro sapore ideologico.

Peccato, ognuna delle scene educative proposte dal film avrebbe potuto essere trattata come una scena educativa. Invece di fatto lo è stata comunque, a insaputa di tutti gli attori, insegnando ai ragazzi, se ancora ne avessero avuto bisogno, che degli adulti non ci si può fidare, che la scuola disattende le proprie promesse e che non è un ambiente protetto capace di affrontare e aiutarli a risolvere i loro problemi, piuttosto tende a crearli. L’unica speranza è da riporre nella capacità di una insegnante, magari proprio la responsabile di tutto il casino, di ricostruire una relazione dal vago sapore educativo con la vittima designata di tutta la faccenda sospesa da scuola ma decisa a restarci incollandosi alla sua sedia e arroccandosi dietro un muro impenetrabile di silenzio. Qualcuno probabilmente in questa scena a due finale, scorge i riflessi di un grande successo nato dall’ascolto del silenzio triste dello studente grazie al silenzio accogliente dell’insegnante, ammutolita dai fatti ma trasformatasi in questa scena giocata ai supplementari, in una muta consapevole. Ma è un errore di prospettiva. Per farla funzionare l’insegnante ha dovuto chiudere a chiave la porta dell’aula dopo aver mandato via la classe con un altro insegnante, trasformandola in uno spazio pseudo-terapeutico e, soprattutto chiudendo fuori gli altri, la preside, il suo vice e, simbolicamente, l’intera scuola. E quando per affrontare un problema scolastico si lascia fuori l’intera scuola, trovo difficile si possa in alcun modo parlare di successo educativo.

Prospettive del cuore

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di Irene Auletta

Ogni stereotipia (schema comportamentale rigido, compiuto in maniera ripetitiva e continua, senza alcuno scopo o funzione apparente) sembra peggiore della precedente e ogni volta il percorso da fare deve aggrapparsi alle parole magiche. Passerà, passerà, passerà.

Il “bello” delle tue stereotipe è che poi in effetti passano. Il brutto è che mentre ci sono ti cambiano profondamente nell’umore, nel comportamento e negli stati d’animo. Difficile non farsi contagiare e rimanere,  come dice Vito Mancuso, in equilibrio tra le due fondamentali esperienze esistenziali. La bellezza e la sofferenza. 

Di sicuro io soffro tantissimo e in quei momenti il richiamo alla bellezza non è sempre facile, soprattutto perché il contesto che ci circonda ci restituisce esattamente il contrario. 

Mentre stiamo andando in piscina per il nostro appuntamento TMA del martedì, ti racconto a modo nostro come possiamo fare a superare questa nuova difficoltà. 

Senti, te lo ricordi che Giulia ti sta insegnando a scendere in vasca con la scaletta? Eh … salire e’ fatta ma scendere all’indietro e tutta un’altra storia. Secondo me ci sei quasi e ce la farai sicuramente!

Così, una volta arrivate, ti saluto come da rituale e mi posiziono, per non disturbare la tua esperienza in acqua, in un punto dove non puoi vedermi. Segui l’istruttrice e con molta serenità ascolti le sue indicazioni mentre sperimenti la discesa in acqua con la scaletta. Pochi passaggi per te impegnativi e sei in acqua accolta dal suo applauso. 

Lì vicino, sulle panche a bordo vasca, ci sono mamme e papà di bambini piccoli che, al tuo confronto, stanno facendo acrobazie da Cinque du Soleil. Mentre ti guardo commossa quando l’istruttrice solleva il pollice nella mia direzione, incrocio lo sguardo di una mamma che mi guarda curiosa e forse anche un po’ stupita. Chissà cosa penserà.

Le sorrido perché ormai ho imparato che la nostra esperienza, oltre che per noi, può essere preziosa anche per chi ci osserva. Solo per chi ha occhi e cuore per farlo. Altrimenti, mi dispiace per loro.

Torno a te e stavolta ti mando un bacio al volo mentre esco.

A fra pochissimo amore. Ti aspetto con il tuo abbraccio fresco e bagnato e so già cosa potrò raccontarti nel nostro viaggio di ritorno a casa. 

E la stereotipia del momento?

Passerà, passerà, passerà. 

La sala professori – Ep 1

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Di Igor Salomone

(Occhio, il post è pieno di SPOILER. Se avete intenzione di andare a vedere il film senza i miei commenti in testa, fermatevi qui. Altrimenti, buona lettura)

Non riesco da anni a vedere un film o una serie senza leggerli in salsa pedagogica. Figuriamoci se il film o la serie sono esplicitamente focalizzati su temi educativi. Per questo ho avvertito una certa resistenza nell’infilarmi al cinema per vedere “La sala professori”. Niente da fare, soffro di una vera e propria compulsione che mi ha costretto ad analizzarne le dinamiche educative.

Ovvio, direte voi, il set è una scuola, media suppongo, e i personaggi sono professori, presidi, personale, studenti, genitori. Cos’altro avrei mai dovuto vederci? Ma la vicenda può essere narrata in modo molto standard, tipo: i rapporti difficili tra un’insegnante di matematica e la sua classe e i dilemmi educativi che sorgono quando l’insegnante tenta di scagionare i ragazzi dalle accuse implicite di essere gli autori di alcuni furti avvenuti a scuola. I furti sembrano compiuti nella sala professori e l’insegnante cerca di verificare chi può essere stato scegliendo una tattica inaudita: gira un video con il computer che sembra tirare in causa la segretaria della scuola. Da qui le cose precipitano e inizia un tutti contro tutti: alunni contro alunni, preside contro insegnanti, genitori contro insegnanti e, sopratutto, tutti contro l’insegnante di matematica. In ballo ci sono il rispetto dell’Autorità versus il rispetto dei ragazzi che i ragazzi stessi rivendicano. Per non parlare del conflitto feroce scoppiato tra l’insegnante protagonista e la segretaria presunta colpevole. Conflitto che scatena in parallelo un conflitto ancor più pesante con il figlio della segretaria, alunno dell’insegnante di matematica.

Insomma, un casino. Ma la ciccia pedagogica dov’è? Sì certo, il gioco dei valori, il rispetto di ognuno per tutti contrapposto alla “tolleranza zero” sostenuta dalla Preside. Una lettura standard del fenomeno educativo, appunto. E anche piuttosto noiosa, di quelle viste e straviste in mille narrazioni simili. Alla fine si riduce tutto a un gioco di relazioni che conduce a imbuto alla centralità della relazione educativa tra l’insegnante protagonista e il suo alunno, figlio della presunta ladra. Per dirla con i più, la relazione educativa fondata sull’ascolto e l’empatia alla fine vince in un tripudio di emozioni, con la ricollocazione al centro della vicenda del ragazzo-alunno-figlio, portato in trionfo nella scena finale su una sedia sostenuta a spalle da due poliziotti.

Rrronffff…

(Nel secondo episodio: perchè il titolo è fuorviante, che struttura emerge in filigrana dalla vicenda, cosa sceneggiatori e regista hanno raccontato veramente, probabilmente senza neppure saperlo, ma sarebbe interessante chiederglielo)

Perchè ne so più di te

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di Igor Salomone

Lui è un personaggio chiave per la difesa di una casa dalla decadenza. Sappiamo tutti quanto velocemente possa aumentare il degrado del posto che abitiamo: cose che si accumulano e non trovi mai il tempo di portare in discarica, esistenze che maturano bisogni differenti stratificando ere geologiche di oggetti, impianti che invecchiano, mode che passano abbandonando le loro tracce nell’arredo. Una volta se ne occupava l’uomo di casa, non certo io, sempre attanagliato tra necessità evidenti e la supponente sensazione che il semplice cambio di una lampadina fosse un’insostenibile perdita del mio preziosissimo tempo.

Nei decenni però, le competenze del manutentore casalingo si sono così frammentate da richiedere per ognuna l’intervento di uno specialista. O di una cooperativa sociale per lo sgombero del ciarpame ormai ingovernabile.

Lui invece è un tecnico d’altri tempi. Elettricista di base, è da trent’anni sempre disponibile a farsi largo tra i suoi numerosi interventi per venire da noi, mettere mano su ciò cui può mettere mano e indirizzandoci a chi di dovere quando si arriva al confine delle sue competenze.

L’ultima volta ci è venuto in soccorso perchè a forza di aggiungere elettrodomestici, device elettronici, punti luce, il groviglio di fili e di riduttori montati su altri riduttori aveva raggiunto, anzi superato, un livello di guardia preoccupante. Temevo un’ispezione improvvisa di qualche Autorità preposta alla sicurezza delle abitazioni. Sentivo che mi avrebbero passato per le armi sul posto senza nepppure uno straccio di processo.

Arriva fiancheggiato da un assistente che scopro essere suo figlio. Che bello, ho pensato immediatamente, c’è ancora qualche giovane che impara il mestiere del padre e in prospettiva ne rileverà l’attività. Lo dico a entrambi, separatamente. Il padre tecnico mi racconta che è contento anche lui anche se non è stato facile perchè inizialmente il figlio aveva preferito, dopo un breve tirocinio con lui, un lavoro sotto terzi. Ma alla fine era tornato, spontaneamente e anche notevolmente cambiato.

La prima esperienza assieme era stata piuttosto burrascosa. “Faceva le cose come le aveva in testa lui e combinava un sacco di casini”. Quando dopo il periodo di distacco è tornato, il padre ha messo in chiaro i termini della questione così: “Sia chiaro che devi fare come ti dico io. E non perchè sono tuo padre, ma perchè ne so più di te. Trent’anni di esperienza più di te”

Avrei voluto fargli una ola.

Ormai trovo il pedagogico nelle pieghe più sottili della vita quotidiana. Ci sarebbe da scrivere un trattato su quell’asserzione perentoria del tecnico-padre rivolta all’apprendista figlio. Non preoccupatevi, non lo farò. Mi limito, coerentemente con lo spirito di questo luogo di scrittura, a lanciare qualche provocazione prima di una chiosa finale a mo’ di morale educativa sulla quale meditare.

Quanti genitori sono in grado di dire e dirsi “cosa ne so di più” per poterlo insegnare ai propri figli? Forse molti. Un bel “ai miei tempi”, “ perchè lo dico io”, “quando sarai grande capirai”, non si nega a nessuno, pescando nel mucchio folto e confuso degli standard pedagogici di sempre. Ma questo non significa saperne di più, nè tanto meno essere credibili quel tanto che basta a convincere chi impara che ne vale la pena.

“Saperne di più” implica avere qualcosa di significativo da dire sulla vita e le sue sfaccettature, qualcosa che possa avere un senso anche per chi non ha la tua stessa esperienza. Non importa se più giovane o più vecchio, parente stretto, conoscente o estraneo, quel che conta è riuscire a vedere nell’esperienza dell’altro degli insegnamenti possibili.

Ci siamo convinti nei decenni, noi figli di questa cultura individualista a oltranza, che nessuno possa dirci nulla e che ognuno deve imparare da ciò che fa e non da ciò che ha fatto qualcun altro. Bene, è stato anche un guadagno. Abbiamo buttato alle ortiche un sacco di immondizia scaduta da tempo come il principio di autorità o l’idea che trasmettere la propria esperienza fosse una semplice trascrizione da una mente a un altra. Però ci siamo dimenticati che l’educazione è esattamente questo: far sì che quel quid che io so e che tu non sai, possa in qualche modo esserti utile. Anzi, che possa essere utile a entrambi. E’ una responsabilità della quale ci siamo liberati in fretta, con un certo sollievo, lasciando all’altro il compito di imparare solo da se stesso e soltanto il cazzo che vuole, così si realizza.

L’educazione o è una responsabilità collettiva o non è nulla. Su questa responsabilità si sono evolute le culture umane e abbandonarla non può che portarci alla decadenza. Per fortuna ci sono ancora gli adulti-artigiani pronti a tenere in piedi quel che resta di casa nostra. Quindi chapeau mio caro mastro-elettricista, che la tua sapienza pedagogica possa salvare il mondo. O, per lo meno, quel pezzo di mondo che abiti.

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