Luna da lontano

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di Irene Auletta

Una delle cose più difficili con i figli disabili e’ guardarli da lontano, con uno sguardo capace di lasciare la contingenza del bisogno e della richiesta continua per assaporarne la possibilità della distanza.

Il nostro vicino vicino che, nel corso degli anni, accompagna sempre meno le nostre giornate, si è conquistato pian piano uno spazio di libertà reciproca ma, quando siamo insieme, solitamente riflette un tempo di sana solitudine che ci vede impegnate ognuna per conto suo.

In occasioni come queste invece, mentre tu sei in compagnia di altre persone, adulti, ragazzi e bambini, presa completamente dalla tua esperienza, mi capita di osservarti a distanza quando ci incrociamo nel centro vacanza e quasi sempre ti intercetto mentre sorridi.

E’ evidente la tua voglia di stare in gruppo, di curiosare ciò che ti accade intorno, di partecipare ai canti, quasi che le note sprigionate dagli occhi occupino appieno il posto delle tue parole assenti. Ogni volta ho la conferma che questa è la direzione giusta per te, nella possibilità di essere adulta anche per il fatto di vivere una dipendenza che non riguardi i tuoi genitori.

Ma la smetterò mai di commuovermi in queste situazioni? Credo di no e comunque … chissenefrega!

Reduce da settimane estive che hanno visto al centro la nostra vicinanza, la cura ricorsiva non stop, la voglia di stare insieme e la nostra innegabile fatica, qui ci prendiamo un tempo di respiro.

Io da te e tu da me. Si, a guardarla bene, il bisogno e’ proprio di entrambe esattamente come il desiderio e questo mi rende davvero felice.

Dopo una lontananza ci si può ritrovare più quiete, con la voglia di stare insieme e di raccontarsi. Così ti aspetto.

Ma oggi che tuffi hai fatto? Ti sei divertita? Sono davvero contenta. Ma sai che ti ho vista da lontano e ti ho trovata splendida?

Osservandoci forse e’ difficile capire quante cose belle stanno emergendo tra quelle due donne, sedute una di fronte all’altra, in silenzio. Noi abbiamo fatto tanta strada per arrivarci, non tramite le parole e il loro abuso continuo, ma attraverso le scintille nei nostri occhi che, incontrandosi, hanno imparato a narrarsi storie.

Il nostro gusto del bello, e’ tutto qui e lo teniamo stretto, stretto.

Vale cento

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di Irene Auletta

Di solito lei utilizza la sedia a rotelle? Mi chiede indicandoti uno degli addetti alla sicurezza che ci accoglie all’ingresso della Mostra di installazioni luminose che ci stiamo accingendo a visitare.

Oddio. In un secondo la mente si riempie di domande, anche perché l’esperto di queste proposte in genere è tuo padre e quindi qualche incertezza mi raggiunge sottovoce, ma non troppo.

Non avrò esagerato a venire proprio oggi dopo la piscina? Potevo scegliere un altro giorno? Potevo chiedere a qualcuno di accompagnarci? Ce la faremo? Come per darmi ulteriori indicazioni l’addetto aggiunge che l’intera percorrenza dura circa un’ora e che in alcuni passaggi il terreno è un po’ sconnesso.

Non voglio farti sentire nessuna preoccupazione quindi rispondo, fintamente spavalda, che ce la facciamo senza nessun problema. Vero Luna? Ti dico con il mio migliore sorriso rassicurante.

Il percorso ti affascina subito per la bellezza che ci circonda e per il fatto che siamo parte di un gruppo di persone, adulti e bambini, che come noi stanno incontrando la stessa meraviglia. Guardi tutto con attenzione e il tuo corpo felice racconta di come l’esperienza ti piaccia. Solo dopo oltre metà percorso fai qualche piccola protesta perché inizi ad essere stanca e le mie braccia, che finora ti hanno sostenuta, mi fanno sentire tutta la fatica che stai facendo. 

Senti Luna facciamo un bel respiro con queste luci e poi seguiamo gli altri perché ci sono ancora cose bellissime da vedere. Come sempre lo dico a te per fare coraggio a me e quasi a volerci rassicurare un signore vicino a noi commenta che orami non manca molto e che il finale merita davvero. Vero e’ che, penso, comunque non avremmo altre alternative.

Riprendiamo poco dopo e le tue gambe sembrano sostenute da una nuova energia tanto che ci porteranno all’auto ridendo e quasi senza fatica. Poco lontane dall’ultima tappa luminosa ci superano due bambini che, correndo, provano a darsi un punteggio per la loro avventura. Io valgo dieci, io valgo venti, io valgo venticinque … Tu li guardi e ridi contagiata dal loro entusiasmo. 

Ti abbraccio forte negli ultimi passi che ci dirigono verso l’uscita e, con grande orgoglio, ti sussurro all’orecchio che hai fatto una cosa davvero molto difficile. 

Per te amore, vale cento!

Al tepore di un saluto

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di Irene Auletta

Stai facendo tante esperienze da sola e mi intenerisce sempre la serenità con cui ti affidi alle persone che ti accompagnano. 

Stamane arrivate al punto d’incontro, mentre ti guardavi intorno curiosa, mi hai stretto un po’ più forte la mano. Io che rassicuro te o tu che rincuori me? Difficile dirlo in questi tempi complicati che attraversiamo insieme

Ciao amore vengo a prenderti più tardi, divertiti tanto. Mi piace augurartelo ogni volta e, ogni volta, quando ti ritrovo mi immergo nel tuo silenzio provando a intercettare sguardi, emozioni e sensazioni. 

Ti ho lasciato da poche ore eppure quando ci ritroviamo mi sembri già più grande. Ti osservo qualche secondo prima che i tuoi occhi riescano a incontrarmi e a brillare. 

Tutto benissimo mi dicono e a me basta così, travolta dal tuo abbraccio di saluto. In viaggio verso casa, accompagnate da una dolce musica il nostro silenzio riempie tutto il nostro mondo. 

Ferme al semaforo i nostri occhi, i miei lucidi, si raccontano cose bellissime e proprio lì trovo tutta la forza di cui ho bisogno. 

Gioie brillanti

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di Irene Auletta

Mia madre rimane una delle poche persone che anni fa, molto onestamente, mi disse che aveva bisogno di allontanarsi per un po’ perché stare vicino a me e alla mia famiglia era per lei, in quel particolare momento, tanto difficile. Gli altri, semplicemente, se ne sono andati.

In realtà lei e mio padre sono state in assoluto le persone che in tutti questi anni mi sono rimaste più vicine, comprensive e amorevoli, accettando di accogliere tutte le ombre che mi hanno accompagnata, soprattutto nei primi anni della mia storia di madre.

Per anni ho vissuto relazioni frammentate con chi ha accolto solo le parti di me più prendibili e tollerabili. L’amica, la collega, la nipote, la sorella. La madre che sono, è rimasta quasi sempre sullo sfondo e oggi, dopo anni di immensa solitudine, devo ammettere che sono io a sceglierlo e a fare, con molta serenità, le mie accurate selezioni.

Mia madre però mi ha aiutato a tenermi intera e per molti anni e’ stata una fonte unica di accoglienza e comprensione. Mi aveva nella mente e nel cuore e io l’ho sempre sentito con forza e grande calore. 

Così sono diventata una madre grande e da qualche anno, come figlia, e’ iniziato un processo importante di cambiamento, mentre mia madre pian piano si allontana verso il suo tramonto. Appena si aprono pertugi di lucidità e la ritrovo cerchiamo di gustarci l’attimo e di riderne insieme, come accaduto qualche giorno fa quando, parlando della mia età mi ha chiesto, ma tu mica hai davvero più di quarant’anni? Beh mamma, ti rispondo, ne ho anche già compiuti sessanta! Nooooo non è possibile, dici seria. Poi subito dopo con un sorriso aggiungi, allora ci siamo fatte vecchie anzi io molto di più di te, vecchierella!

Stiamo viaggiando, io e te da sole, verso quel luogo dove rimarrai probabilmente fino alla fine del tuo tempo, per tua scelta convinta. Sono proprio contenta che mi avete ascoltata, perché non voglio più vivere a casa.

Ti saluto mentre sembri già essere altrove, in un altro tempo, con la consapevolezza che nella storia del mio presente, ormai da qualche anno, tocca a me tenermi intera. 

Mi hai lasciato un dono prezioso e in quel mio essere quercia, come qualcuno mi ha definita, sento tutta la forza delle radici che mi hai aiutato a rendere forti e profonde.

Sono stata una figlia fortunata e oggi, a pieno cuore, trattengo tutta la tua eredità con quella gioia che solo la malinconia sa rendere così brillante.

Eredità luccicose

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di Irene Auletta

Entro in ascensore e riflessa nello specchio incrocio una signora bionda con gli occhi di mia madre. Anche mamma ha avuto i capelli biondi per molti anni, sino a quando una grave malattia l’ha costretta ad arrendersi al bianco.

Ed eccomi li, colta in quel particolare che ho fuggito per anni. Non avrei mai voluto avere quegli occhi che, lontani da sguardi indiscreti, mostravano sempre un filo di malinconia e sovente apparivano persi in chissà quale pensiero o preoccupazione del momento. Quegli stessi occhi però, brillavano quando scoppiavi in una delle tue risate che ai miei occhi ti rendevano bellissima. Ogni tanto, tra le tante ombre della tua vita al tramonto, mi sembra di scorgerne ancora piccole ma tenaci tracce. 

Le nostre due vite e storie di madri si sono intrecciate su tante esperienze comuni e allora, guardandomi allo specchio, quasi te lo vorrei dire ad alta voce. Eccoci qua mamma, ci ritroviamo anche in questo scambio di sguardi e, per mia fortuna, hai saputo insegnarmi tanta bellezza e il frizzante gusto per l’allegria.

Chissà tu, figlia mia, cosa vedi quando mi guardi e quanto riesco a far prevalere le luci che brillano tenendomi tutto il resto nel mio giardino?

Domande mute le mie, come le tue risposte impossibili. Però, mentre ti guardo, il bello che spero di regalarti ogni giorno lo vedo proprio lì, riflesso nei tuoi occhi puri, incapaci di fingere o di mentire. 

E’ in quel momento che lo penso. Ce l’abbiamo fatta mamma. La vita ci ha fatto e continua a farci parecchi sgambetti ma noi, forse proprio per questo, abbiamo scoperto che il bello di imparare a brillare è condividere quella luce con chi più amiamo.

Il resto, per dirla con Ebenezer Scrooge*, tutte fandonie!

*personaggio principale del racconto Canto di Natale, scritto da Charles Dickens nel 1843.

Medicamenti al profumo di un sorriso

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Al Museo delle Illusioni

di Irene Auletta

Ieri sera, richiamata dal pianto di un neonato, mi sono persa ad osservare una scena che si svolgeva sul terrazzino di fronte alla mia finestra.

La mamma sta cercando di allattare un bambino che mi pare avere pochi giorni di vita e mentre lui si stacca e piange forte, come solo i neonati riescono a fare,  intorno a lei si muove una piccola di circa due anni intenta a giocare con un carrellino e con le sue bambole.

Quel pianto mi ricorda un altro pianto, il tuo, che da subito mi è parso strano, inconsolabile, difficile da contenere e accogliere. Poi all’età di tre mesi è improvvisamente scomparso e da lì, è proseguita la nostra avventura. Ogni volta che provavo a raccontarlo ai diversi specialisti mi sentivo addosso uno sguardo scettico che pian piano mi ha fatto smettere di dirlo. Ma non di sentirlo e pensarlo.

Quel pianto mi è rimasto nella carne e stasera mi permetto di accoglierlo e cullarlo come ho fatto con te per tanti, tanti anni e come, ancora oggi, soprattutto quando non stai bene, sembri chiedermi con quel tuo modo di rifugiarti tra le mie braccia.

Di strada ne abbiamo fatta parecchia e ad ogni passo, con le tante sbucciature, ho provato a trattenere quello che stava accadendo per provare a imparare qualcosa per il passo successivo. Condividerlo con altri genitori e operatori, seppur quasi sempre non in modo esplicito, ha reso possibile una tessitura preziosa che tra poco si avvicinerà ai venticinque anni.

Ma tu guarda cosa può scatenare un pianto!

Te lo racconto stamane mentre ci stiamo preparando per il consueto appuntamento con il pulmino, ma te lo racconto nel nostro modo. Poche parole e la fiducia nella forza di quel filo che ci lega, quasi a creare piccoli ponti tra le nostri menti e, soprattutto, tra i nostri cuori.

Buona giornata figlia. Oggi mi rimane impresso quel sorriso che mi dedichi  sempre e che negli anni, sempre di più, si è trasformato in un medicamento al profumo di Luna.

Madri insopportabili

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Mi capita spesso di raccogliere dagli educatori che lavorano in servizi rivolti a persone con disabilità, bambini, ragazzi o adulti, commenti un po’ aspri rivolti ai genitori. Ma soprattutto alle madri.

Ma secondo te perché sempre le madri? ho chiesto a tuo padre qualche giorno fa. Forse perché loro ci sono sempre, mi ha risposto.

Già, forse.

Le madri vengono descritte sovente come troppo esigenti o deleganti, troppo severe o incapaci di un minimo contenimento, lamentose o tigri, insomma, sempre eccessive.

Dovessero fare una classifica delle insopportabili temo mi piazzerei abbastanza bene ma, anche se negli anni ho imparato a sdrammatizzare, mi rimane nel cuore un profondo dispiacere e una solitudine incurabile che mi accompagna ormai da molto tempo, continuando a orientarmi, sempre con più forza, come professionista.

Ascoltando i racconti che sto incontrando proprio in questo fine anno scolastico, prima della pausa estiva, trovo nelle parole ricorrenti degli operatori le origini di alcune distanze siderali.  Le ho nominate spesso nei miei scritti ma oggi ho la consapevolezza, amara e asciutta, che deve cambiare qualcosa di radicale perché operatori e genitori possano parlarsi e, soprattutto, intendersi. 

Un genitore non può ritrovare il figlio solo in un elenco di comportamenti, quasi sempre problematici, e di certo fatica a far dialogare alcune immagini esterne con quelle che vive nel suo ruolo affettivo. Nei racconti degli educatori a volte non intravedo quelle connessioni di cura che parlano proprio del “prendersi a cuore” di Don Milani e che invece, quando si incrociano, raccontano anche di relazioni positive e ricche con i genitori. Ma questo non vale per tutti i genitori?

Io tante volte non ti ritrovo in alcuni racconti e quasi mai quelle narrazioni sono occasioni di confronto e sostegno. La persona che sei per me non nega alcune dimensioni legate alla tua condizione ma, ogni giorno, prova ad andare oltre l’apparenza stupendosi di quello che è possibile far emergere da uno sguardo curioso.

Penso che l’automatismo sia uno dei mali più critici dell’educazione ma forse il fermarsi all’apparenza e stare sulla superficie non è da meno. Così scompaiono le essenze e con loro le persone, soprattutto quando hanno corpi, comportamenti e gesti che ricordano in ogni istante le loro differenze.

Vedere la persona straordinaria che sei diventata, e che mi ha aperto e apre ogni giorno porte per nuove conoscenze, mi sostiene per noi e mi sconforta per la cecità altrui. E allora sarò sempre insopportabile a causa di questo scarto abissale? 

Probabilmente sì.

Pianeti preferiti

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di Irene Auletta

Approfittando di una tua giornata a casa dal Centro, andiamo a comprare gli stivali per le tue nuove sperimentazioni a cavallo. Tarda mattinata, in un grande negozio sportivo, meta di altri madri e padri con i loro figli in pausa forzata dalla scuola. 

Interessate agli stessi articoli, a fianco a noi, madre e figlia che potremmo essere noi se non fosse per l’abisso che ci divide. La madre segue un po’ annoiata le molteplici prove della figlia che pare non convincersi sulla scelta. In piedi nel corridoio osserva la figlia gettando un’occhio a lei e uno al suo cellulare. Lo saprà quella madre che si sta godendo una libertà affatto scontata?

Io, inginocchiata ai tuoi piedi, nel tentativo di infilarti stivai e stivaletti, guardo la scena dall’esterno e mi sento incerta sul mettermi a ridere o farmi travolgere dallo sconforto. Dai tesoro guarda quello stiamo facendo, mettici forza anche tu, aspetta ad alzarti che ne manca ancora uno.

Sto morendo di caldo e mentre cerco di convincerti dolcemente a seguire le mie indicazioni, provo a togliermi il giacchino cercando di non disturbare la tua concentrazione e di evitare di dover iniziare a rincorrerti di nuovo per i corridoi.

Dai sbrigati che sono davvero stravolta, dice l’altra madre seguendo la figliola  che volteggia per il negozio, guarda quella ragazzina com’è tranquilla!

No dai, ora ho troppa voglia di farle gli occhi cattivi. Allora mi avvicino e te lo racconto all’orecchio e insieme ridiamo, io per resistenza e tu per le cose buffe che ti dico, compreso il ricordarti gli scherzi che ti ho fatto mentre, prima di convincerti a sederti, ti rincorrevo per le varie corsie del negozio. 

Finalmente stamattina ti guardo mentre a cavallo sfoggi i tuoi nuovi stivali di cui non ti interessa nulla. E hai ragione tu. Penso alle corse fatte per arrivare fin qui. Cambiarti, lavarti, vestirti. La colazione, le medicine. Rivestirti perchè nel frattempo ti sei già tolta il giacchino e sfilata una scarpa. 

Finalmente stamattina ti guardo mentre a cavallo sfoggi i tuoi nuovi stivali di cui non ti interessa nulla. E hai ragione tu. Penso alle corse fatte per arrivare fin qui. Cambiarti, lavarti, vestirti. La colazione, le medicine. Rivestirti perchè nel frattempo ti sei già tolta il giacchino e sfilata una scarpa. 

Ti guardo a distanza, felice ed emozionata per questa nuova esperienza e mi godo il tepore di questo bellissimo sole autunnale. Prendo forza dalla luce perchè so che ne avrò bisogno per tutto il giorno. Essere stravolte può essere un lusso o una punizione divina.

Ti ascolto ridere di gusto e davvero, almeno per oggi, non ho dubbi.

Ci preferisco.

Madri ricorrenti

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di Igor Salomone

C’è chi, come me, ha perso la mamma tanti anni fa. Altri la stanno accompagnando nel percorso difficile della demenza che gliela toglie, lasciandola lì. Poi c’è chi può contare sui gesti di un’altra madre, quella dei propri figli e, magari, della madre di quella madre. Qualcuno, forse molti, deve accontentarsi di un saluto veloce e immateriale partito dall’altro capo di un continente o di un oceano. Tanti l’hanno ancora intorno, assaporandone la prossimità o maltollerandola.

Le madri sono ovunque: nei ritratti sulle mensole, negli oggetti che hanno usato per una vita e ora sono lì, inutilizzati, a parlarti di loro, nei cassetti colmi di biancheria ben piegata, negli odori, nei sapori e nei rumori di casa vecchi e nuovi, nelle braccia che ti hanno protetto e nelle braccia nelle quali cercherai protezione per tutti gli anni a venire, nelle lacrime asciugate e in quelle versate, nello sguardo dei tuoi figli e in quello di te figlio.

E siamo fortunati, Luna, ad avere al nostro fianco chi ce le ricorda tutte, ogni giorno, sempre.  

Oltre la genetica

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Negli ultimi mesi, complice una legge che sta aprendo nuove possibilità di esperienze di vita autonoma,  ho incontrato diversi gruppi di genitori con figli disabili adulti sul tema del Dopodinoi. 

In uno degli ultimi di questi una madre, parlando di sé, si è definita con il nome della sindrome del figlio. Non è una cosa abituale e credo che riguardi esclusivamente il mondo delle madri. Almeno, io non ho mai sentito un padre fare lo stesso.

Ricordo ancora qualche anno fa quando una signora si rivolse a me dicendomi che non aveva capito che “anch’io ero una mamma Angelman”. Al momento la cosa mi aveva lasciata un po’ stupita e confusa e non nascondo qualche battuta ironica, rimasta imprigionata nella mia testa.

Tuttavia negli anni mi è capitato sovente di riflettere su questa definizione che, in alcune occasioni, mi è parsa assumere una vera e propria forma di identità, come a definire una categoria di appartenenza. Sicuramente anche le nuove forme di comunicazione offerte dai social media hanno aperto possibilità differenti di pensarsi gruppo e di riconoscersi in esperienze comuni. E già solo questo mi pare una buona cosa.

Incontrando questi genitori, come sovente mi accade, rifletto aiutando loro a riflettere e la veste professionale mi scalda quasi a proteggermi dalle tante emozioni che, inevitabilmente, emergono trattando tali argomenti. Persone che dopo anni hanno ancora voglia di incontrarsi e confrontarsi non possono che suscitare la mia stima e spesso mi accorgo di incrociare persone, madri e padri, davvero straordinarie. 

E così oggi tornando a casa ho ripensato proprio a quella madre citata all’inizio e alle domande che ancora mi girano in testa. Come te, ho un mondo segreto solo mio? Sono testarda, oppositiva, tenace, attaccata alla vita, solare, avvinta alla meraviglia della vita con una certa innata disponibilità al sorriso?

Si, figlia mia, mi sa che sono decisamente un po’ Angelman anch’io.

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