Eredi grati

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“La vita va avanti comunque, e suona che tu lo voglia o no, puoi solo alzare o abbassare il volume. E devi ballare.” (Alessandro D’Avenia)

di Irene Auletta

Mio padre è un uomo di altri tempi e con il passare degli anni è rimasto “integro” e fedele ai suoi orizzonti culturali di riferimento. 

Mai come in questi ultimi mesi la sua materialità e concretezza, in merito alle questioni importanti della vita, mi restituiscono la forza di qualcosa che tiene con equilibrio radicati alla terra e alla vita.

Di fronte al bisogno (di chi?) abbastanza diffuso di chiedermi se ora va meglio, se ci sono buone novità, se il momento è più sereno, mio padre guardandomi dritta negli occhi, mi invita “semplicemente” a stare,  ricordandomi che questa è la vita.

Me lo rammenta senza fatalismo o falsa resa, ma come un invito a non perdere di vista quelle dimensioni costitutive dell’esistenza che passiamo il tempo a rimuovere tranne quando rimaniamo, per cinque minuti, affascinati e affascinate dalle parole di qualche personaggio di turno, portatore di pillole di saggezza.

Poi, tutto continua esattamente come prima. 

Le interpretazioni (o giustificazioni?) si sprecano. E’ difficile stare a fianco di chi vive momenti difficili, non tutti siamo capaci di reggere il dolore, non è strano fuggire di fronte al proprio limite e al senso di impotenza … E via di questo passo, verso vie che interrogo e cerco di comprendere da anni, con molti dubbi e ancora tante domande aperte.

Mio padre, con poche ed essenziali parole, non scappa di fronte alla realtà e quel suo dire “questa è la vita” non esclude come sentieri possibili sia buone e auspicabili speranze, che puntate o epiloghi molto tristi, di cui nessuno ha colpa o responsabilità. Vito Mancuso, a tale proposito, ha parlato di dolore innocente.

Insomma, ancora oggi mio padre non smette di insegnarmi a non aver paura del dolore, a rispettarlo e a guardarlo nella sua essenziale naturalità, senza battaglie o idealizzazioni, ma come quella dimensione che ci ricorda come esseri umani, piccoli e velocemente di passaggio su questa terra.

E così, con il passare degli anni, mi accorgo che mentre lui mi ha insegnato sostanzialmente a non aver paura di vivere, allo stesso modo, le tracce indelebili di mia madre mi sostengono ogni giorno, proprio per dare valore alla vita, a non perdere di vista la ricerca della gioia e della bellezza.

Figlia mia,  tuo padre direbbe Noi siamo l’eredità.

Scorre consolazione

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di Irene Auletta

Non preoccuparti per me, lo sai che mi fai felice se ti occupi di Luna. Poi adesso figlia mia …. lo so, lo so. Mi rispondi così quando ti dico che mi dispiace molto di non riuscire a venirti a trovare più spesso.

Sembri immersa in un mare quieto e ogni onda ti porta vicina al presente oppure un po’ più lontana. Mentre mi chiedi come sto ti distrai parlando dei mobili presenti nella stanza che nella tua mente sono collocati in un altro luogo e in un altro tempo.

Vai e torni, vai e torni e io prendo fiato mentre ti aspetto.

Ogni tanto mi punti addosso i tuoi occhi brillanti e mi ancori con lo sguardo alle tue parole. Sei troppo magra, devi curarti e non dimenticarti di mangiare, soprattutto cose buone. 

I tuoi tormentoni sono sempre gli stessi e anche il tuo modo senza filtri di rispondermi quando provo a rassicurarti. Sto bene mamma, provo a dirti quando sottolinei che ogni volta che sorrido mi compaiono tantissime rughe sul viso. Mamma, ti dico ridendo fingendomi scandalizzata, anche fosse vero non dovresti dirmelo proprio così! Ridiamo e cerco di trattenere negli occhi e nel cuore quegli occhi che vorrei non dimenticare mai, anche quando poco dopo scompaiono dietro le nuvole. 

Oggi faccio più fatica a rimanere in equilibrio perché, come mi e’ sempre successo, di fronte a te mi sento più limpida e percepisco forte la spinta a lasciarmi andare in quell’emozione tanto  trattenuta. 

Mi immagino proprio così, non la reazione mordi e fuggi che subito viene controllata, ma un movimento lungo e lento come un fiume che scorre piano.

Mi riprendo da questa immagine e proseguiamo nelle nostre chiacchiere fino a quando mi chiedi di andare per non fare aspettare troppo la  signorina rimasta all’ingresso con la zia Cate e che purtroppo oggi non ha potuto salutarti perché sei a letto.

Meglio così, non voglio che mi veda in questo stato che poi pensa che sono malata assai. 

Torni un attimo in un altro tempo e mentre ti aspetto per salutarti penso che anche oggi sei riuscita a nutrirmi di forza e coraggio. 

Nel viaggio di ritorno verso casa capisco che non stai bene perché sei molto nervosa e ti lamenti spesso. Ora e’ il mio turno di consolarti. 

Non preoccuparti amore, ho appena fatto il pieno. 

Raccolte all’orizzonte

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di Irene Auletta

Se penso ad una delle parole che negli ultimi anni ricorre frequentemente nel mio lavoro con gli operatori e con i genitori, mi pare di non avere alcun dubbio.

Il vocabolario Treccani la definisce così. Sforzo materiale che si fa per compiere un lavoro o svolgere una qualsiasi attività, e di cui si sente il peso e poi la stanchezza.

Avete già capito vero? La parola è fatica.

Che fatica, sono in fatica, periodo molto faticoso, sono solo alcuni degli incipit con cui molte volte iniziano gli scambi comunicativi e che ogni volta, ormai da molti anni, mi portano a farmi nuove domande per capire, andando alla ricerca di significati possibili capaci di guardare oltre il muro della lamentela che troppe volte definisce il tono e le sfumature delle comunicazioni.

Pensando alla mia storia educativa, penso immediatamente a mia madre e alla sua incredibile capacità di trasformare le fatiche in un valore perchè il gusto era indubbiamente nel risultato, nella raccolta e in quella soddisfazione finale che concentrava l’attenzione, alleggerendo tutto ciò che veniva prima. La ringrazio ogni giorno per questa preziosa eredità perchè la vita finora non mi ha fatto molti sconti e non sembra neppure intenzionata a modificare questa sua direzione. 

Grazie a mia madre, anche nei momenti di maggiore sconforto, appena riesco, vado alla ricerca di ciò che ogni fatica può riservarci rinnovando, insieme al nutrimento della speranza, il gusto per le nuove possibilità.

Grazie a mia madre provo a insegnare lo stesso a mia figlia che è arrivata al mondo con uno zainetto talmente pieno di fatiche che ogni tanto mi chiedo se non ci sia stato davvero un grossolano errore nella distribuzione. Infatti, oltre a non apprezzare per nulla i termini bellici guerriera o guerriero, oggi peraltro stra abusati, penso che non restituiscano giustizia né comprensione alle condizioni di vita come la tua e alle continue prove quotidiane.

Eppure ti vedo felice, tenace, resistente, curiosa, appassionata. Insomma ti vedo piena di vita. Vuoi dire che un po’ della preziosa eredità della nonna sta arrivando fino a te, trasportata da quei fili invisibili coltivati nel nostro straordinario, complesso, meraviglioso, difficile incontro?

Credo che la ricerca vada proprio orientata verso ciò che accade dopo il momento  o la situazione definita faticosa. Cosa ha permesso di imparare, di scoprire, di darci la forza e la spinta per proseguire a testa alta? Cosa può aiutarci a non smarrire, e continuare a coltivare, i piccoli attimi di felicità? Cosa possiamo insegnare ai bambini e ai ragazzi in questi delicati attraversamenti?

A me aiuta ricordare che più abbassiamo lo sguardo e ci ripieghiamo su noi stessi, più non vediamo oltre la punta dei nostri piedi, smarrendo qualsiasi gusto e interesse per ciò che ci circonda e, a volte, per la vita stessa. 

Per questo, ogni volta che inciamperai, materialmente o metaforicamente, io spero di continuare ad essere finche potrò, solo per ricordartelo.

Alza la testa Luna, guarda in alto, guarda che bello, guarda il mondo!

Cuore e brillantini

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di Irene Auletta

Mi raccomando curati, non dimenticarti un filo di rossetto e non farti compatire. Mai.

Ci sono eredità che sono al tempo stesso forza e condanna. 

Mia madre oggi probabilmente mi ripeterebbe la stessa frase, lei che appartiene a quella generazione che neppure prendeva in considerazione l’idea di mostrare fragilità e dolore. E io, la lezione l’ho imparata benino.

Chissà perché nel tuo dialetto e nella traduzione che ne hai sempre fatto, la compassione ha assunto ogni volta tinte negative escludendo quel “patire insieme” che invece porta sollievo.

Peccato mamma che, della tua versione, tu non sia riuscita a insegnami anche i costi che immagino avrai vissuto in silenzio, incapace di nominarli e condividerli.

In fondo io sono fortunata perché la scrittura lo permette, garantendo la giusta distanza e protezione. 

Come madre, per alcuni aspetti, posso interrompere questo filo ereditario senza perdere però quelle dimensioni di forza che sono tanto necessarie anche a te, figlia mia. 

Dopo quelle crisi pesanti che ogni tanto arrivano, ti vedo allontanarti e quando pian piano ritorni provo sempre a farti trovare un’accogliente allegria. Chissà se riesco a “imbrogliarti” sempre oppure ogni tanto fai finta di nulla ma intravedi le ombre negli occhi che il sorriso cerca di nascondere?

Eredità dense, preziose e profonde che tu non potrai certamente trasmettere ma che mi auguro ti aiutino ad attraversare meglio questa tua vita. Chissà.

A proposito Luna, ma stamane l’abbiamo già messo un po’ di rossetto con i brillantini?

Attimi di felicità

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di Irene Auletta

Cosa si può imparare vivendo accanto a un mondo senza parole?  Me lo chiedo da molti anni e oggi, forse, sono giunta ad un punto di equilibrio che si colloca a metà strada tra il disfattismo e il romanticismo estremo. Questa ricerca in realtà non riguarda solo gli aspetti legati alle parole e alla loro assenza, ma più in generale vale anche per molti altri aspetti legati alla condizione di disabilità.

Grazie a te, figlia mia, ho imparato che è importante cercare vie alternative e possibili senza tuttavia fuggire dal dato reale riconoscendo che, a fianco di tante possibilità alternative e agli innegabili effetti virtuosi, non sono esclusi momenti di forte frustrazione, rabbia e dolore che riguardano sia me che te.

E’ solo questa nuova opzione di compresenza, razionale e sentimentale al tempo stesso, che rende possibile la continua ricerca e la cura dei piccoli particolari di ogni giorno.

Qualche giorno fa al tuo Centro Diurno,  in uno dei tuoi momenti di forte tensione e contrasto a tutto, di fronte ad una scala da scendere e alla tua minaccia di buttarti a terra, c’è stata una bella intesa con l’educatrice presente. Visto l’insuccesso del suo intervento ci siamo accordate con lo sguardo e lei si è un po’ allontanata. 

Parlando a te, a lei e anche a me, ti ho detto di quanto in certi momenti ti vedo in gabbia ma non so come aiutarti. Mentre ti dico che ora penso a qualcosa di straordinario mi accorgo di aver attirato la tua attenzione. “Cosa ne dici Luna, facciamo  una  cosa coraggiosa? Vuoi provare a scendere le scale con gli occhi bendati?”. 

Te lo sussurro all’orecchio ma anche l’educatrice ascolta. Funziona e in silenzio l’operatrice mi fa ok con la mano dicendomi “geniale” con il labiale. Così arriviamo in auto e da lì prosegue il pomeriggio. 

Non sempre si e’ fortunati al primo tentativo e per me ciò che più importa non è solo il risultato finale ma farti sentire sempre la mia comprensione e il mio rispetto. In questi casi, le parole “oppositiva” o “sono capricci” (ma mica hai due anni!) si sprecano, ma oggi e’ andata decisamente bene e voglio trattenerne il senso e il sentimento .

Certo mi accorgo spesso che, forse anche in conseguenza al fatto che parlo tanto per lavoro, nel resto della mia vita il silenzio e’ tanto presente, anche come rifugio a un banale che mi rende sempre più “asociale”. Così anch’io mi sento a volte un po’ disabile soprattutto di fronte a domande del tipo Tuttobene? Pronta per le vacanze? Quanti anni ti mancano alla pensione? 

Mai come in questi giorni  mi manca il conforto che mia madre ha sempre saputo darmi nei momenti più difficili, fatto di poche parole e di gesti gentili. Mai come in questi giorni sento tutta la forza maturata in questa straordinaria e difficile vita.

E così eccomi qui, sempre più consapevole del valore del conforto come gesto d’amore profondo, a confortare madre e figlia, coltivando attimi di piccole silenziose felicità.

Donne, madri e figlie

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di Irene Auletta

“Sono madre, nonna e ancora figlia. Equilibri complessi soprattutto quello che mi vede come figlia nella relazione con mia madre”. Così si presenta una signora in occasione delle mie ultime serate rivolte ai genitori. 

Ripenso alle sue parole in un giorno dove, nella ricorrenza della festa della mamma, e’ facile incrociare immagini, frasi e commenti intorno a questo tema.

Penso alla mia di madre e penso a me figlia. Io adulta e lei anziana, ancora impegnate, per quanto possibile, a stare in questa importante e profonda relazione. In queste ultime settimane, con mia sorella e mio padre, abbiamo affrontato momenti molto dolorosi condividendo la decisione di non coinvolgerla. Avremo fatto bene? Avremo fatto male?

Chissà, i dilemmi etici forse devono rimanere così, sempre un po’ in bilico sul filo del dubbio e ancora oggi mi dico che, proprio nel suo ruolo di madre, abbiamo scelto di proteggerla. E va bene così.

La madre che sono è fortunata perché porta con sé un bagaglio bello ricco di figlia al quale attingo ogni volta che parlo in dialetto con mia figlia, nel nostro linguaggio d’amore, ogni volta che lo scherzo e l’allegria mi aiuta a tenere il dolore un po’ a distanza, ogni volta che devo aiutarla ad affrontare il mondo.

Sono fortunata rispetto a quella signora di cui ricordavo perchè mia madre, che pian piano svanisce nella sua memoria, è sempre più presente nel mio sguardo, nelle mie espressioni, nelle mie parole, oltre che nel mio cuore e questo mi sostiene nell’affrontare anche questa nostra ultima tappa.

La nostra storia ridefinisce ogni giorno la madre e la persona che sono e quindi oggi, guardandola negli occhi, ci farò gli auguri perchè insieme, ancora e ancora, siamo il frutto della nostra bella storia e del nostro unico e straordinario incontro.

Eredità che cura

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Ragazza seduta (con la mano sul cuore), 1938 Casorati Felice

di Irene Auletta

Era da parecchio tempo che non vedevi in nonni e, vista la particolarità dell’incontro, interpreto le tue reazioni un po’ sopra le righe come una comunicazione di emozioni arcobaleno. 

Vuoi stare e vuoi andare, mi tiri e mi spingi, ridi e ti innervosisci. Dopo poco mi fermo un attimo. Va bene Luna ho capito che qualcosa ti sta creando qualche difficoltà, ma cosa?

E allora iniziano i miei primi timidi tentativi di capire fino a quando, spostandoci dal gruppo degli altri presenti, ci riprovo guardandoti forte negli occhi. Ma senti amore, sei agitata perchè vedi la nonna così? Rimani ancorata alla domanda e con lo sguardo serio, dopo qualche secondo, rispondi con il tuo cenno di assenso. E io, finalmente capisco.

Quasi come per magia, dopo questo scambio, pian piano ritrovi quiete e serenità e mi accorgo, ancora una volta, della difficoltà a riconoscere la forza di quello che ti raggiunge e attraversa, insieme al tentativo di condividerlo spesso frustrato.

Hai ragione tesoro, penso prendendo anch’io contatto con il cuore pesante che ha accompagnato anche me durante l’incontro, tra le mille cose che ti rendono così unica, per te è proprio impossibile mentire o celare con un comportamento di circostanza quello che ci addolora o disorienta.

Ancora una volta, provando a capirti e a consolarti, mi hai aiutato a gettare luce su qualcosa che a volte, per non soffrire, viviamo frettolosamente. Rimaniamo un attimo vicine, con le mani sul cuore dell’altra, provando a raccontarci in silenzio di quelle onde che le parole non posso spiegare.

Per te, che vivi radicata nel presente, il ricordo sembra svanire facilmente, o almeno, solo questo ci è dato capire degli insondabili processi della tua mente.  Così ti godi felice il resto della giornata all’aperto, facendo quello che più ti piace, tra sole, vicinanze del cuore e leggerezza.

Solo a fine giornata, quando tutto tace e la notte ha coperto gli ultimi spiragli di luce, ripenso a quello starti accanto che spesso mi fa sentire tutta l’ambivalenza dell’esperienza in un labirinto. Lo smarrimento dei falsi riflessi e le delusioni delle vie impossibili unite alla sorpresa per le scoperte inattese e la bellezza della luce che indica chiara la via d’uscita.

Oggi e sempre mi rimane in bocca un gusto dolceamaro e scivolo nel sonno con le parole che mia madre, prima di perdersi nel tempo, mi ha lasciato come preziosa eredità.

La cura è difficile e faticosa, fatti aiutare dall’amore.

Padri

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di Irene Auletta

Uomo difficile mio padre, figlio di quella generazione che chiedeva una durezza forse per lui neppure facile da tenere e che, come figlia, sto riscoprendo ora con tutta la sua ambivalenza.

Ora, che riesce sempre meno a definire rotte, impartire direzioni e stare al comando, sembra smarrito e senza parole. Lui che di parole ne ha spese sempre poche a dispetto del suo sguardo tanto espressivo.

Da giovane, pur amandolo, speravo di non assomigliargli in quasi nulla e con il passare degli anni mi sono dovuta misurare tante volte con quelle sue parti aspre, a tratti assai severe, che mi ha lasciato in eredità.

Ora, vicino ai novant’anni fatica a dirsi anziano anche se gli occhi e la postura sono sempre di più quelli di un gigante stanco. Così lo vedo quando riesco ad andare oltre quella corazza che, ancora oggi, non rende semplice il nostro incontro e che patisce l’assenza dello sguardo amorevole e di mediazione costante di mia madre. 

Con lei è sempre stato tutto più facile e oggi, che mi riconosco così simile, ne sento tutta la presenza e la potenza nonostante abiti sempre di più in mondi paralleli. Se tutti mi volessero bene come la mia Irene! Me lo dici ogni volta che ci vediamo, a volte con tanta distrazione nello sguardo, quasi io non fossi lì vicina. E io, non faccio altro che dirti che ci puoi contare eccome, sul mio immenso bene. Sempre.

Guarda che anche tu non sei più una ragazzina mi ha detto ieri mio padre mentre, forse per la prima volta, mi parlava della sua possibile morte. Cosa intendi papà? Alzando le spalle mi ha detto che bisogna imparare ad arrendersi e che lui non ne e’ mai stato capace. Silenzio, per il resto del viaggio mentre guido verso la nostra meta.

Arrendersi. La parola mi rimane nella mente e stamane mi risveglia con tutti gli interrogativi del caso. 

Vorrei raccontarti papà di quanto mi impegno ogni giorno in questa direzione e di come solo stare nel fluire delle cose, senza resistergli continuamente, rende possibile l’incontro con quanto la vita mi chiede di affrontare. Sicuramente c’è ancora tanto da perfezionare ma, se ti assomiglio anche nella longevità, potrei migliorare ancora parecchio. 

La prossima volta magari riesco a dirtelo. 

Magari, chissà.

Gioie brillanti

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di Irene Auletta

Mia madre rimane una delle poche persone che anni fa, molto onestamente, mi disse che aveva bisogno di allontanarsi per un po’ perché stare vicino a me e alla mia famiglia era per lei, in quel particolare momento, tanto difficile. Gli altri, semplicemente, se ne sono andati.

In realtà lei e mio padre sono state in assoluto le persone che in tutti questi anni mi sono rimaste più vicine, comprensive e amorevoli, accettando di accogliere tutte le ombre che mi hanno accompagnata, soprattutto nei primi anni della mia storia di madre.

Per anni ho vissuto relazioni frammentate con chi ha accolto solo le parti di me più prendibili e tollerabili. L’amica, la collega, la nipote, la sorella. La madre che sono, è rimasta quasi sempre sullo sfondo e oggi, dopo anni di immensa solitudine, devo ammettere che sono io a sceglierlo e a fare, con molta serenità, le mie accurate selezioni.

Mia madre però mi ha aiutato a tenermi intera e per molti anni e’ stata una fonte unica di accoglienza e comprensione. Mi aveva nella mente e nel cuore e io l’ho sempre sentito con forza e grande calore. 

Così sono diventata una madre grande e da qualche anno, come figlia, e’ iniziato un processo importante di cambiamento, mentre mia madre pian piano si allontana verso il suo tramonto. Appena si aprono pertugi di lucidità e la ritrovo cerchiamo di gustarci l’attimo e di riderne insieme, come accaduto qualche giorno fa quando, parlando della mia età mi ha chiesto, ma tu mica hai davvero più di quarant’anni? Beh mamma, ti rispondo, ne ho anche già compiuti sessanta! Nooooo non è possibile, dici seria. Poi subito dopo con un sorriso aggiungi, allora ci siamo fatte vecchie anzi io molto di più di te, vecchierella!

Stiamo viaggiando, io e te da sole, verso quel luogo dove rimarrai probabilmente fino alla fine del tuo tempo, per tua scelta convinta. Sono proprio contenta che mi avete ascoltata, perché non voglio più vivere a casa.

Ti saluto mentre sembri già essere altrove, in un altro tempo, con la consapevolezza che nella storia del mio presente, ormai da qualche anno, tocca a me tenermi intera. 

Mi hai lasciato un dono prezioso e in quel mio essere quercia, come qualcuno mi ha definita, sento tutta la forza delle radici che mi hai aiutato a rendere forti e profonde.

Sono stata una figlia fortunata e oggi, a pieno cuore, trattengo tutta la tua eredità con quella gioia che solo la malinconia sa rendere così brillante.

Eredità luccicose

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di Irene Auletta

Entro in ascensore e riflessa nello specchio incrocio una signora bionda con gli occhi di mia madre. Anche mamma ha avuto i capelli biondi per molti anni, sino a quando una grave malattia l’ha costretta ad arrendersi al bianco.

Ed eccomi li, colta in quel particolare che ho fuggito per anni. Non avrei mai voluto avere quegli occhi che, lontani da sguardi indiscreti, mostravano sempre un filo di malinconia e sovente apparivano persi in chissà quale pensiero o preoccupazione del momento. Quegli stessi occhi però, brillavano quando scoppiavi in una delle tue risate che ai miei occhi ti rendevano bellissima. Ogni tanto, tra le tante ombre della tua vita al tramonto, mi sembra di scorgerne ancora piccole ma tenaci tracce. 

Le nostre due vite e storie di madri si sono intrecciate su tante esperienze comuni e allora, guardandomi allo specchio, quasi te lo vorrei dire ad alta voce. Eccoci qua mamma, ci ritroviamo anche in questo scambio di sguardi e, per mia fortuna, hai saputo insegnarmi tanta bellezza e il frizzante gusto per l’allegria.

Chissà tu, figlia mia, cosa vedi quando mi guardi e quanto riesco a far prevalere le luci che brillano tenendomi tutto il resto nel mio giardino?

Domande mute le mie, come le tue risposte impossibili. Però, mentre ti guardo, il bello che spero di regalarti ogni giorno lo vedo proprio lì, riflesso nei tuoi occhi puri, incapaci di fingere o di mentire. 

E’ in quel momento che lo penso. Ce l’abbiamo fatta mamma. La vita ci ha fatto e continua a farci parecchi sgambetti ma noi, forse proprio per questo, abbiamo scoperto che il bello di imparare a brillare è condividere quella luce con chi più amiamo.

Il resto, per dirla con Ebenezer Scrooge*, tutte fandonie!

*personaggio principale del racconto Canto di Natale, scritto da Charles Dickens nel 1843.

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