Silenzi stonati

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bcoro

di Raffaella Dellera

Quando sento parlare di dolore, di drammi e di tragedie non riesco a non pensare, reminiscenza dei miei studi classici, alla funzione del coro nella tragedia greca. Dare voce, nominare l’innominabile che nella tragedia prende forma sulla scena. Del resto l’intero valore della tragedia era quello di rappresentare i massimi drammi con cui la società del tempo pensava fosse un dolore sommo e innominabile confrontarsi. I Greci, si sa, erano avanti.

Il parallelo con quanto vedo accadere ai nostri giorni mi lascia assai perplessa. Nel mondo della velocità e della liquidità, a volte mi sembra che la percezione di fatti tragici, portatori di innominabili dolori, passi attraverso lenti distorte. I fatti che leggo, sento, incontro, spesso senza distinzione semantica alcuna, vengono descritti con toni apocalittici e drammatici, per poi venire rapidamente superati e socialmente dimenticati. A meno che non diventino oggetto di morbose curiosità e allora continuino ad assurgere agli onori della cronaca, senza troppe domande o movimenti empatici nei confronti dei veri protagonisti di quei drammi, che vengono di sfuggita, qualche volta, nominati.

Recentemente mi raggiunge, attraverso echi differenti dai consueti luoghi di informazione, il racconto di un fatto tragico, la morte di un nonno e del suo nipotino disabile. Diverse cose mi colpiscono. Come nelle notizie quotidiane questa venga data di sfuggita, con un’etichetta che già la definisce e la incasella omicidio-suicidio. Come, in canali che più si soffermano sull’accaduto, si arrivi a sfiorare il tentativo di strumentalizzazione chiedendosi “cosa conduce alla disperazione…”. Come, visto che non ci sono più di tanto curiosità da telefilm poliziesco da soddisfare, la notizia nei giorni successivi scompaia.

Se fosse accaduto nel mese di agosto, senza processi illustri, pagine politiche, vertici di capi di stato e inquinamento atmosferico?  mi chiedo. L’eco da cui questo fatto pieno di dolore e disperazione mi è giunto per fortuna è diverso, e continua, insieme ad altre voci, la sua strada di rispetto e delicatezza.

In questi momenti sento il bisogno di fare distinzioni tra le parole, che sempre mi aiutano a capire. E mi dico che dispiacere, sofferenza e dolore non sono la stessa cosa e che, anche il dolore lo penso differente dal Dolore. Penso che alcune scuole di pensiero, che fanno assurgere a lutto e trauma qualsiasi perdita o evento che singolarmente risuoni come tale, a volte non aiutano. Perché tra un fidanzato che ti lascia e un figlio che muore non può non esserci una grande, enorme, abissale differenza. Proprio come tra sofferenza e Dolore.

Nella nostra lingua esistono termini per definire quasi tutto, anche nel vocabolario del dolore. Ma la lingua non ha termine per definire un genitore che perde un figlio. Mi trovo a riflettere spesso su questo e tali pensieri mi aiutano a ridimensionare e riposizionare le cose che accadono, a guardare in modo differente me stessa, gli altri e il mondo.

Sarebbe molto bello se sempre più persone potessero, nelle corse quotidiane, fermarsi un po’ di più a domandarsi se ciò che provano o ciò che incontrano meriti qualche attenzione diversa, anche se non grida forte o non è in prima pagina.

Sarebbe molto bello se ci fossero più spazi per un “coro” capace di essere cassa di risonanza per quello che non si sente e non si vede.

Tempi sordi

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tempi sordidi Irene Auletta

Sempre più spesso mi trovo circondata da domande sospese che mi interrogano rispetto alla difficoltà crescente di accorgersi che nella comunicazione esiste anche qualcun’altro. Commenti inappropriati, dichiarazioni cieche, totali disattenzioni all’interlocutore in una crescente concentrazione verso il proprio discorso.

Ciascuno di noi viene toccato, e a volte ferito, dalla disattenzione altrui e può essere che, dentro lo stesso meccanismo comunicativo, faccia anche lui la medesima cosa senza alcuna consapevolezza e in totale buona fede.

Ma cosa possiamo fare per allertare i sensi e l’attenzione? Come possiamo aiutarci dandoci segnali di allarme che orientino noi stessi e gli altri verso comunicazioni più attente e rispettose? Cosa ci succede nei nostri incontri quotidiani? Parliamo tanto di ascolto e altrettanto se ne scrive ma poi l’impressione è di essere travolti da un’ondata di individualismo sfrenato che forse non risparmia nessuno e che conferma quasi ogni giorno l’urgenza di intraprendere strade differenti.

Liberandomi da atteggiamenti giudicanti e moralisti, vorrei avere a disposizione qualcosa che, come gli occhiali dati in dotazione per assistere a proiezioni cinematografiche in tre dimensioni, offrisse nei vari incontri visioni e prospettive differenti. Qualcosa che segnali l’impertinenza, nelle sue differenti totalità.

Ciao cara …. ti abbraccio!  Allarme giallo. Non ci conosciamo quasi e siamo all’interno di una relazione professionale.

I figli sono una grande gioia e forse la cosa più bella che può capitare. Allarme rosso. Hai di fronte una persona che desidererebbe tanto averne (e tu lo sai!) ma non riesce o non può averne.

Simpatici davvero gli handicappatini! Allarme rosso vermiglio. Te lo ricordi vero che la signora che hai di fronte, amica o collega che sia ha una figlia disabile?

Non vedo proprio l’ora di staccare la spina e andare in vacanza a rilassarmi! Allarme blu cobalto. Stai parlando con qualcuno che ti sta raccontando delle sue fatiche e del fatto che non solo non fa vacanze da anni, ma che ogni giorno si arrabatta per capire come sbarcare il lunario e garantire alla sua famiglia una vita almeno decente?

E, via discorrendo su questa via, ognuno potrebbe sbizzarrirsi a partire da sè e dai propri incontri quotidiani. Educarsi a tacere e a non scivolare nelle ovvietà e nelle banalità, potrebbe essere un’ottima tappa di partenza.

Oggi voglio godermela tutta, curandomi nel silenzio.

Facciamoci un altro film

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conflitto

Ieri ero in trasferta a parlar di conflitti e adolescenti con una trentina di educatori. Oggi su Repubblica leggo Saviano che parla di regole e responsabilità. Categoria interessante che rischia sempre di svanire quando ci si infila nelle questioni educative.

Discutevamo di un evento in fondo banale e quotidiano, forse banale, o banalizzato, perché quotidiano: come si sceglie un film da guardare tutti assieme? Se si é in più di uno é facile che gusti diversi, stati d’animo, screzi in corso, trasformino la scelta di un film in una battaglia campale che alla fine rischia di lasciare sul campo morti e feriti, quale che sia il film che alla fine si riesce a noleggiare. Figurarsi se a scegliere sono otto adolescenti maschi e femmine, tutti ospiti del medesimo servizio.

É qui che intervengono le regole.

In fondo è semplice no? Siete in otto e il film lo scegliete a turno. Così siamo tutti contenti. Oppure, come é più probabile, sarete scontenti sette volte su otto. Però gli educatori potranno illudersi di aver regolato una potenziale fonte di conflitto: basta che si impegnino a fare “rispettare” la regola. Che è anche educativo, dopotutto. No?

Ni. Anche no. Insomma, dipende.

Immaginiamo che tutto fili liscio, sempre. Che nessuno mai si lamenti, che tutti rispettino il turno degli altri, guardando il film che sette volte su otto non hanno scelto, senza lamentarsi e senza defilarsi. In attesa di poter scegliere il proprio. Nel frattempo guardando quel che c’è, anche se non piace, perchè “bisogna accettare le scelte degli altri”. Sarebbe un risultato educativo? probabilmente. Sarebbe un risultato educativo auspicabile? ne dubito. A meno di non voler educare al conformismo, che è pur sempre un’opzione.

Occorre provare a immaginare la realizzazione dei propri sogni, per capire se non siano in realtà incubi.

Poi arriva il ragazzo che non ci sta e fa saltare il banco. A suo modo, naturalmente. Che non è quello di ragionare compitamente sul senso di quella regola e sull’opportunità di modificarla. Altrimenti non sarebbe un adolescente e, sopratutto, non si capirebbe a che serve un educatore. E quel modo mette in crisi l’intero castello normativo, quello che cercava appunto di “normalizzare”, facendo esplodere conflitti latenti di tutti contro tutti.

Quella trentina di educatori che ho incontrato in trasferta ieri, in battuta sostengono che le regole vanno fatte rispettare, e che il ragazzo ribelle deve capirlo. Messi poco dopo nella situazione di dar voce a ognuno dei personaggi presenti sulla scena, esprimono una profondità inaspettata che mette in risalto le ragioni di ognuno. Ragioni vere, legittime e condivisibili. Ma in conflitto tra loro. E ora che si fa? La scoperta della complessità affascina e sgomenta.

Ora forse è più difficile scegliere. Ma almeno è chiaro che la regola precedente serviva a evitare di doverlo fare. E’ chiaro anche che il rispetto lo si deve non a un astratto sistema di regole, ma alle persone coinvolte e alle loro ragioni. E che conta di più assumersi la responsabilità di dire no, non funziona, non sono più d’accordo, non era questo che doveva essere, proviamo in un altro modo, che non un presunto “rispetto delle regole” che soffoca ogni istanza e ogni ragione e che, sopratutto, non permette di imparare nella sulle regole, se non ad adattarsi passivamente o a ribellarsi violentemente.

Gesti gentili

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gesti gentilidi Irene Auletta

Dopo diverse settimane sono tornata alle mie lezioni Feldenkrais. Impegni di lavoro mi hanno portato altrove ma davvero ne ho sentito tanto la mancanza. Il mio corpo è arrivato all’incontro bisognoso di cure e ancora una volta, mi ha ricordato l’importanza di dedicarsi tempo, ascolto e attenzione a contrasto di stili di vita che sovente travolgono.

Stasera in particolare mi colpiscono due cose. Angela, la nostra insegnante, ci invita a fare un movimento chiedendoci di farlo sempre più velocemente ma non in modo frettoloso. Ce lo ripete diverse volte a sottolineare la preziosità e il senso importante di quell’indicazione. Se ci si muove con fretta non si sente mentre la velocità permette un apprendimento nuovo. Non è la prima volte che emerge un contenuto analogo e ogni volta mi raggiunge in modo profondo. Mi sembra bella questa distinzione tra fretta e velocità perchè mi pare spinga ad un ascolto intenso che ho voglia di approfondire. Lo colgo come un suggerimento per la vita e per tutte quelle situazioni in cui non si può essere lenti.

Mentre il lavoro prosegue l’insegnante ci propone di fare un movimento e ci chiede di farlo gentilmente. L’invito a essere gentili verso se stessi mi colpisce sempre molto e mi fa pensare a quante poche volte accade realmente. In fondo se essere gentili è un modo di stare al mondo, farlo passare da sè mi pare un ottimo modo per rivolgerlo anche agli altri e alle nostre relazioni.

La gentilezza, da vocabolario, definisce chi ha o denota delicatezza di sentimenti e modi garbati. Detta così mi aiuta a rinnovare il significato di quel “volersi bene” che spesso mi pare più una moda che un senso condiviso. 

Intrecciare il modo garbato con il sentimento mi fa pensare al rispetto, verso di sè e verso gli altri a cui ci rivolgiamo. In tante relazioni che incrociamo ogni giorno, la strada da percorrere è ancora assai lunga.

Stasera mi voglio prendere cura di me con molta gentilezza per poterlo poi fare anche nei confronti delle persone che più mi sono vicine. Forse essere gentili può assomigliare al sasso che gettato nello stagno disegna tanti cerchi a memoria del gesto del lancio.

Penso alle persone che come me sono chiamate ogni giorno a gesti di cura che si ripetono da anni e che coinvolgono il corpo e l’anima dei propri cari. Penso a quante volte la fatica, il dolore fisico e dello spirito, possono spingere ad essere frettolosi e non veloci, bruschi e non gentili.

Ancora una volta mi porto via un’esperienza del corpo che rinforza pensieri e la convinzione che per prendersi cura è necessario curarsi. Se, come Angela insegna, si riesce a farlo gentilmente si sfiora la perfezione.

 

Infogames

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Call center. Luogo immaginario accessibile per via telefonica. Con buon impegno e dopo un percorso estremamente impegnativo tra scelte multiple, cancelletti, asterischi, linee che cadono, è talvolta possibile conferire con un essere umano che, quasi certamente, ti spiega come fossi un bambino che hai sbagliato strada, mandandoti da un’altra parte. Il che, in soldoni, significa tornare ai blocchi di partenza e ricominciare tutto da capo. Sembrerebbe un videogame a livelli crescenti di difficoltà, ma più che altro è la versione telefonica degli uffici di qualsiasi mostro burocratico.

Per lo meno non ti muovi da casa tua.

Ma l’aspetto più interessante, sul piano antropologico naturalmente, è cosa l’umano eventualmente raggiunto di solito dice dell’umano che avevi raggiunto in precedenza: che ti ha detto cose sbagliate. Ho avuto la fortuna di assistere al top level di questo sport estremo quando un terzo umano, dopo aver liquidato i primi due in modo sbrigativo, mi ha rassicurato con voce ferma, dicendo che la sua versione era quella giusta. Rassicurato?
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Del resto è la delocalizzazione bellezza. Se il primo umano è in un call a Roma, il secondo a Torino e il terzo risponde da casa sua, che gli frega a ognuno degli altri due? Certo, magari un filo di rispetto per chi lavora come te, anzi, fa il tuo stesso lavoro, non guasterebbe. Non guasterebbe neppure un rispetto ancor più esile nei confronti della mia intelligenza. Ma nessun criterio della custmer stisfaction comprende l’intelligenza dei comportamenti nei parametri di valutazione. Figuriamoci il rispetto.
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Dunque, chiami un call center, ti impegni in una corsa a ostacoli mozza fiato chiedendoti se inizi a pagare da quando parli o da quando ti risponde la prima voce registrata, arrivi infine e forse a parlare con un umano che quasi certamente è deficiente, nel senso che manca di qualcosa, sensibilità e informazioni innanzitutto, e te lo confermerà l’umano successivo. Nel frattempo pensi anche al modo schifoso di guadagnarsi malamente da vivere cui sono costretti i deficienti che ti trattano e si trattano l’un l’altro da deficienti e non puoi prendertela neppure con l’azienda che si è avvalsa dei call center perchè viceversa non sopravvivrebbe.
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Concludendo, senza call center non sopravvivrebbero le aziende, non lavorerebbe un sacco di gente e tu non sapresti dove sbattere la testa per un miliardo di cose di cui hai bisogno. Ma sopravvivere è vita?
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Le madri che non sopporto

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di Irene Auletta

Immagino di essere una fonte non sospetta e forse, proprio per questo, credo di potermi permettere qualche piccola stizza, dopo anni che dedico il mio interesse culturale e professionale alle mamme e alle riflessioni intorno ai  temi del materno.

Chi mi conosce sa che tempo fa sono stata in una piccola città nei dintorni di Bologna per presentare un libro, insieme alle curatrici&editrici del testo stesso, dal titolo “Maternità possibili”.

Una bella idea, sostenuta dalle curatrici del testo, è stata quella di ingaggiare anche le autrici abitanti in loco, coinvolgendole nella presentazione.

Eccoci al giorno della presentazione, la seconda in realtà, perchè anche il giorno prima ci aveva ospitato una bella biblioteca della cittadina.

Una delle autrici avvisa con sms che è in ritardo per un sopraggiunto problema e che farà di tutto per raggiungerci quanto prima. Arriva trafelata sul finire della presentazione e, in un piccolo spazio che le viene dedicato per salutare il pubblico, motiva il ritardo riferendosi proprio al suo essere mamma, ad un figlio lontano da casa che ha richiesto il suo tempestivo intervento, al suo fare mille corse perchè le dispiaceva rinunciare a questo impegno. Abbiamo intuito dalle sue parole che, il tempestivo intervento,  riguardava un versamento in posta o qualcosa di simile.

Alla fine conclude dicendo: “insomma, scusatemi tanto, ma visto che è stato presentato proprio questo libro …. devo dirvi che ha vinto il mio cuore di mamma!”.

Perchè dare queste spiegazioni? Esprimere il dispiacere per il ritardo legato a un impegno sopraggiunto non basta? Si pensa di fare bella figura, trascurando il piccolo particolare delle altre persone presenti tra il pubblico (forse mamme con poco cuore?) e delle altre tre presentatrici provenienti rispettivamente da Sofia e da Milano?

Questo tipo di spiegazioni fa davvero il paio con le persone che, mentre stai parlando di lavoro ti dicono, solitamente per disdire un impegno o una responsabilità, che la loro priorità è il figlio e la famiglia.

Lavoro con donne da tanti anni e tante volte mi sono sentita ripetere questa frase.

Oggi mi viene l’orticaria, solo a intuirne la possibilità, di queste spiegazioni in arrivo.

Nessuno è tenuto a entrare nel merito della sua vita privata ma, tutti noi siamo tenuti, quando siamo in qualsiasi relazione, a chiederci se quello che stiamo dicendo (o evacuando, si potrebbe dire in  uno psigologhese pret-a-porter), non rischia di ferire chi abbiamo di fronte o, peggio ancora, di offenderlo o mortificarlo, a seconda dei casi.

Ma ogni tanto, stare zitte, no?

Domande importune

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Il dito sul gattoQuanti anni ha? Era la quarta volta che lo chiedeva. Noi impegnati sul muretto davanti alla doccia, come ogni fine mattinata trascorsa in spiaggia, con una Luna urlante perchè tre gettoni uno dopo l’altro e relativi scrosci le sembrano comunque pochi. Certo, non ci si aspetta che una quattordicenne protesti in quel modo in pubblico per una doccia troppo corta, ma per Luna interrompere qualsiasi cosa le piaccia è una tragedia insostenibile, e l’unico modo che conosce per interpretarla è urlare.

La ragazzina attanagliata dal problema dell’età di nostra figlia, di anni ne doveva avere otto o nove, forse dieci. Quanti anni ha? Nel caso non avessimo capito, puntava insistentemente il dito sul suo oggetto di interesse. Per tutta risposta, il silenzio. Alla prima, alla seconda, alla terza, alla quarta. Alla quinta la mamma di Luna le risponde, secca, che non ha alcuna intenzione di risponderle. Sopratutto davanti a sua figlia. Era la madre, ma avrei dovuto rispondere io. O forse era il padre di sua madre che ha preso la parola.

Alla sua età non mi sarei mai permessa! appunto, il permesso. Non sembra più necessario. In fondo un bambino fa una domanda a un adulto, l’adulto non risponde, il bambino lascia perdere. No. Gliela rifà. E poi gliela rifà ancora e poi ancora. E non a tre o quattro anni, che passi: a otto o dieci. Lasciamo pure stare l’oggetto della domanda e la sua ovvia impertinenza, perchè un bambino di quell’età non sa che se un adulto non risponde a una domanda non vuol dire che sia sordo?

Il principio di Autorità è scomparso, va bene, e non lo si può resuscitare. Del resto probabilmente va anche bene così. Ma urge sostituirlo con qualcosa d’altro. La sequenza veteropedagogica a) non si fanno domande agli adulti se non sono sollecitate b) se si fanno e non si ottengono risposte, non si deve insistere c) se si insiste bisogna predisporsi alle conseguenze, non ha più corso legale. Facciamo allora che impariamo a sostenere i costi delle domande, tipo che un adulto sconosciuto ti dice in faccia davanti ai tuoi genitori che sei importuna e impertinente. E che non avrai la risposta che cercavi. Non penso le costerà molto in psicoterapia, in futuro, però dovrebbe essere un’ottima opportunità per i prossimi appuntamenti educativi in famiglia.

Grazie del “grazie”

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Mi sono chiesto spesso perchè non mi venga mai di rispondere prego quando qualcuno mi dice grazie. Se non si tratta di una risposta standard tipo dopo un “mi passi il sale per favore”. Voglio dire, se qualcuno mi ringrazia sul serio per qualcosa che ho fatto, il “prego” che poi è sinonimo dei vari “ma figurati”, “ci mancherebbe”, “dovere”, “di nulla”, mi sembra sempre del tutto inappropriato. Se l’altro mi ringrazia per qualcosa che ho fatto, mi ringrazia sul serio intendo dire, significa che sta dando importanza a quello che ho fatto e non mi sembra bello condirlo via sminuendolo con un “cosa vuoi che sia”. Ti dicono guarda che è importante questa cosa per me e tu gli rispondi che in realtà “non è niente di che”? Si pensasse di più a quanto può essere arrogante la falsa umiltà.

In realtà quando mi sento ringraziato sul serio, mi viene da ringraziare a mia volta. Ma non nel senso che mi metto a cercare freneticamente qualcosa per ringraziare chi mi ringrazia e pareggiare i conti.  Quel che smuove in me ricevere un “grazie” sincero, è una gratitudine, come dire, di secondo livello. Trovo che un ringraziamento sia un dono prezioso, da custodire con cura e attenzione. Quando qualcuno mi ringrazia per ciò che faccio, mi sta dicendo che quello che faccio non è solo una cosa mia, non finisce con me dopo essere iniziato da me, ha un valore che mi trascende e che è possibile raccogliere. Chi mi ringrazia definisce i miei limiti nel momento stesso in cui mi dice che i miei atti li superano per arrivare da qualche altra parte. E mi insegna anche che ringraziare, lungi dall’essere un banale gesto di umiltà, è un atto di coraggio e di responsabilità, che mi induce a ricevere i ringraziamenti con gratitudine, ma anche a trasformare la mia gratitudine in ringraziamenti.

Grazie, dunque, ai “grazie” che in questo periodo mi stanno giungendo per vie a volte insospettate e inattese. Mi stanno facendo capire che il rispetto è ben più che tolleranza o accondiscendenza. Mi stanno facendo capire che il rispetto è ben più che il prendersi cura reciproco. Mi stanno facendo capire che il rispetto è farsene qualcosa dell’altro dicendogli “grazie a te, io…”

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