Il peso dell’aiuto

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Il peso dell'aiutodi Irene Auletta

Mi chiedo spesso che posto occupi la fatica nella narrazione di professionalità tanto differenti dalla mia. Me lo chiedo, perchè da anni ho come il sospetto che chi come me, si occupa per professione di relazioni di aiuto, abbia sviluppato la bizzarra abitudine di porre al centro di gran parte delle riflessioni la sua fatica, facendo scivolare pian piano sullo sfondo, quella delle persone a cui dovrebbe dare una mano.

Raccolgo sovente frasi analoghe. Ci occupiamo da molto di disabili e alla fine diventa logorante …. Stare con i bambini piccoli implica una grande fatica fisica e alla fine non è possibile resistere per molti anni …. Ogni tanto mi sento quasi il “vomitatoio” di alcuni utenti e la cosa, non è certo bella.

Mettere mano e pensiero alle fatiche richieste da alcune professioni è di certo un valore, ma credo sia importante fare attenzione a logiche collusive, alimentate anche da tante culture della formazione. Altrimenti, la fatica dell’altro, solo per il fatto di essere utente, rischia di smarrirsi nelle lamentele di tanti operatori che ogni tanto io stessa, rischio di confondere, a loro volta, per utenti.

Di recente una nonna, decisamente turbata dall’intervento dei servizi sociali e dalla presenza di educatori professionali nella sua famiglia ha detto, con rabbia e disperazione, “ma com’è possibile che accada una cosa del genere proprio nella nostra famiglia? un’estraneo che entra a casa mia ad osservarci?”.

Tante volte, proprio con gli educatori che entrano nelle famiglie, così come con gli operatori che entrano nelle storie altrui, mi è capitato di affrontare il tema del tatto, del rispetto, della prudenza. Si pensa di rado che aiutare, sovente, è un’azione assai ingombrante e a volte molto invasiva.

Troppo spesso, peccando di banalità, la relazione di aiuto viene associata in automatico a qualcosa di buono e forse è proprio per questo che tanto di frequente si raccoglie lo stupore di operatori che faticano a comprendere, rifiuti, resistenze e movimenti di difesa.

Occuparmi della fatica degli operatori socioeducativi, e quindi anche della mia, mi piace se diviene occasione per creare nuovi e ricchi dialoghi con quella delle persone a cui stiamo rivolgendo la nostra attenzione e il nostro aiuto, adulti o bambini che siano. Mi piace, se apre nuove forme di attenzione verso la fatica di stare con il dolore, con il senso di impotenza, con lo smarrimento dei significati e con le difficoltà ad accettare il bisogno di essere aiutati e di imparare.

Qualche anno fa una mia straordinaria maestra mi raccontò di come, trovandosi ricoverata per gravi problemi ortopedici, mise a frutto le sue più importanti riflessioni  intorno alla cura dei bambini piccoli, proprio mentre altri si prendevano cura del suo corpo sofferente e privato dell’autonomia.

Imparare dalle nostre storie, insieme al continuo approfondimento delle nostre conoscenze teoriche, mi pare un binomio insostituibile. Guardare invece solo le proprie fatiche, oltre a far perdere di vista il senso del proprio stipendio, una perdita secca.

Poveri chi?

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poveri chi?di Irene Auletta

Ma ti sembra giusto investire così tante energie per poter fare il proprio lavoro e per trovare sempre nuove strategie per collaborare tra colleghi di diversi servizi?

Ogni tanto mi accorgo che faccio molta meno fatica a dialogare con gli utenti che con alcuni colleghi. Alcuni operatori sono davvero peggio di tanti utenti!

Non mi pare che queste frasi siano particolarmente originali e, quasi certamente, chi come me lavora da anni nei servizi socioeducativi le avrà sentite, o direttamente pronunciate, in non poche occasioni.

Anche pensando alle svariate realtà incrociate tante volte nelle scuole non posso fare a meno di pensare a quante volte gli insegnanti di sostegno mi siano apparsi, loro stessi, come bisognosi di sostegno o comunque molto, ma molto, poco professionali e preparati.

Non so voi, mai io parecchie volte mi sono immaginata nei panni di quel genitore o di quell’utente, sperando di non doverli mai realmente indossare e il pensiero emerso, non mi è apparso affatto bello.

Il clima di difficoltà che stiamo tutti attraversando e che sta condizionando le nostre esistenze, pur essendo una realtà assolutamente tangibile, non può trasformarsi in un alibi e tutti noi abbiamo la responsabilità di assumerci il nostro pezzetto per non scivolare nell’oblio.

Una volta ci si indignava e si protestava, magari anche risultando esageratamente “sopra le righe” o polemici, ma ora sento un clima di resa che mi spaventa davvero tanto.

Mi irrito ogni volta che parlando di qualcuno con qualche difficoltà, anche tra operatori o insegnanti, si intercala con la parola “poverino”.

Fermiamoci seriamente e chiediamoci chi sono davvero i poveretti.

Qualche giorno fa, parlando con una mamma, ho provato una profonda stima per l’analisi che, nonostante la tragica situazione che sta vivendo, è riuscita a porgere durante il colloquio. La reazione mi è arrivata nella testa, nella pancia e anche nella zona del cuore.

E’ difficile considerare poverino chi suscita stima e rispetto.

Come operatori, insegnanti o semplici adulti che attraversiamo il mondo, abbiamo ancora tanto da imparare.

Giù le mani

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IMG_1803di Irene Auletta

Ricordo molto bene come, tanti anni fa, incontrando le educatrici dei servizi per la prima infanzia ho iniziato a trattare temi relativi al contatto fisico con i bambini e alla necessità di pensare e ripensare il lavoro educativo come occasione per svelare e nominare gli eccessi possibili nei gesti di cura. Da allora ho attraversato parecchi servizi e, nei vari luoghi di formazione e supervisione, questo tema è riapparso sovente tra quelli ricorrenti e sempre attuali.

Pochi giorni fa, in un centro per bambini disabili, la scena si è ripetuta e mi sono ritrovata a nominare l’attenzione necessaria nell’incontro con il corpo altrui e con la sua persona. E’ possibili che nove o dieci operatori mettano le mani addosso allo stesso bambino? Accompagnare in bagno per il cambio, assistere durante il pranzo, imboccare, pulire la saliva alla bocca oppure il naso, aiutare a vestirsi o svestirsi, sostenere nella miriade dei piccoli movimenti quotidiani.

Solo facendo l’elenco mi viene prurito lungo tutto il corpo.

Quando il gesto arriva dall’esterno non sempre riesce a rispettare il tempo, la misura e il tono necessario e immagino quanta tolleranza, pazienza e disponibilità sia necessario, da parte di chi lo riceve, per non mettersi a urlare o a scalciare.

In realtà a volte i bambini o ragazzini disabili lo fanno con il rischio che, prontamente, gli operatori o i loro stessi genitori, sfoderino le migliori interpretazioni. E’ aggressivo, ipercinetico, ha un brutto carattere, fa i capricci, non è collaborante e via di questo passo in un elenco che ognuno può arricchire grazie alla sua esperienza o fantasia.

Io soffro tantissimo e mi accade sempre. Quando all’asilo nido pensavo ai bambini piccoli e alle interferenze continue delle educatrici, quando penso alle condizioni di bambini e ragazzini disabili che non sono in grado di esprimersi liberamente, quando penso alle condizioni di alcuni anziani non più in possesso di tutte le loro facoltà di adulti. Anche loro come i piccoli e i disabili, ogni tanto vengono definiti capricciosi o monelli.

Soffro quando penso a mia figlia, al suo passato, al suo futuro e all’ignoranza che ancora è presente nella cultura e nei servizi che ruotano intorno al mondo della disabilità.

Ogni tanto sono presa da un grande sconforto e mi chiedo cosa è possibile fare, oltre a quello che provo ad attivare quotidianamente come genitore e come pedagogista. Come reazione, cerco di non perdere occasione per fare nuovi pensieri e ipotizzare nuove azioni.

L’altro giorno, sempre nel centro per bambini disabili, osservavo gli operatori coinvolti nella supervisione. Sono persone, stanno imparando anche loro e sono certa che cercano di svolgere al meglio il loro lavoro. Ho provato un sentimento di fiducia e mi auguro che avvicinando i loro bambini ricordino le parole e le emozioni dell’incontro.

Il gesto, di per sè, è solo un automatismo. Farlo diventare educativo  e amorevole richiede tempo, pensiero e riflessione.

Abbiate pazienza bambini, pian piano arriviamo anche noi.

Bellezza e amore

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luci verdi bisdi Irene Auletta

Le donne e le madri sanno bene di cosa parlo quando immaginano di tenere tra le braccia un bambino piccolo e di ricevere lusinghe e complimenti dagli sguardi e dalle parole di chi incontrano. Le madri che hanno esperienze con figli disabili lo sanno per differenza perchè magari alcune emozioni non le hanno mai potute sperimentare oppure non sono riuscite a godersele appieno, amareggiate dai sospetti o dalle certezze già intrecciate alla vita futura dei loro figli. Il binomio disabilità e bellezza mostra spesso un suo lato acidulo, difficile da afferrare, a volte stucchevole o forzato, sempre complicato e doloroso.

Nelle parole degli operatori socioeducativi ho spesso sentito il giudizio severo verso genitori noncuranti che, in tal modo, sottolineavano le scarse possibilità estetiche che madre natura aveva offerto al bambino o ragazzino in questione. E’ vero. Prendersi cura è un atto di amore, prima che di responsabilità e i tempi per farlo sono diversi a seconda delle esperienze, delle storie individuali e delle possibilità che ciascun genitore riesce a mettere in campo. Certo poi, la disabilità di un figlio, non facilita le cose e allora può essere che per taluni sia difficile prendersi cura di un figlio che si fatica a riconoscere.

La cultura in cui siamo tutti immersi, con i relativi canoni estetici, è solo la ciliegina finale.

Eppure, forse proprio attraverso questa esperienza, io sento di riconquistare ogni giorno un’idea di cura e di bellezza, capace di dar valore a quell’originale lì, con quella forma del corpo e quel riflesso variegato dell’anima.

Sono una grande sostenitrice dell’idea di riprendere in mano la bellezza come tema dell’educazione, insieme al gusto del bello, del suo sapore e della sua possibilità di ascoltarla. Mi piace offrire a mia figlia occasioni che le permettano di imparare qualcosa di nuovo proprio in tale direzione. Una bella scena della natura, colori nuovi e luci magiche, sapori con profumi originali, suoni e canti dolci e armoniosi, esperienza positive di contatto corporeo e, via di questo passo.

Credo che sia molto facile farsi schiacciare dal peso delle fatiche, delle delusioni e dei dolori fino a smarrire totalmente l’idea di bellezza di cui ciascuno di noi è portatore ma, come genitori, questa sarebbe una perdita pesante e per questo, su questa via, ho sempre fiducia nella possibilità di proseguire nella scoperta, nella ricerca e anche nell’insegnamento.

Mi piacerebbe che anche molti operatori tenessero sempre aperta una riflessione in tal senso, che i luoghi di accoglienza parlassero delle loro attenzioni agli aspetti di cura, che l’estetica fosse considerata sempre di più in relazione all’anima che al corpo e che, tra le finalità dei servizi educativi, ci fosse anche quella di sostenere e aiutare quei genitori che ancora non ce la fanno perchè il dolore rende tutto brutto.

Purtroppo la disabilità è ancora circondata da tante brutture e chi di noi se ne accorge, come genitore o come operatore, può fare qualcosa senza comportarsi da struzzo.

Ci sono giorni in cui faccio più fatica ad alzare la testa, la tristezza mi fa chinare il capo fino a quando una mano viene a cercarmi per attirare a sè l’attenzione e farmi uscire dall’ombra. Bellezza e felicità, sono la nostra sfida da quindici anni.

Andiamo amore, oggi vengono a pranzo i nonni. Che ne dici di farci trovare proprio carine?

Questioni amare e d’amore

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di Irene Auletta

Qualche giorno fa, di getto e con un stato d’animo molto inquieto, ho scritto un post che immagino rimarrà tra i miei scritti privati, perchè troppo carico di quelle dimensioni intime che ritengo vadano sempre protette.

In genere, non mi piace condividere riflessioni centrate esclusivamente su faccende personali e, al contrario, la vera potenza la sento quando, al di là della scintilla che ha fatto scattare il pensiero, lo scritto diventa immediatamente plurale.

Ed ecco che oggi mi imbatto in questo post di Franco Bomprezzi, che tra i suoi temi rilancia proprio uno degli argomenti del mio scritto “censurato”, la spinosa faccenda del “dopo di noi” riferita ai futuri possibili, per le persone adulte gravemente disabili.

Non credo esista genitore di un figlio disabile o con gravi problemi di salute che, prima o poi non si sia trovato a porsi la fatidica e dolorosa domanda : “Che ne sarà di mio figlio quando noi non ci saremo più?”.

La questione è molto delicata e certamente raccoglie pensieri che si esprimono, diritti che si rivendicano, proteste che si sostengono.

Però, io non credo di essere molto brava a parlare di questi temi e ci sono già molte persone, genitori  e operatori, che lo fanno da anni con molta passione e con grande capacità e incisività.

A me piace ritagliarmi una piccola nicchia per andare a cogliere e recuperare quei sentimenti che si esprimono, spesso con un po’ di pudore o vergogna.

Tante volte ho sentito i genitori di figli disabili, augurarsi salute e forza per continuare a prendersi cura dei loro figli, fino alla fine della vita.

Ma della vita di chi?

Fa paura dire esplicitamente che si vorrebbe continuare a tenere per mano il proprio figlio, anche nell’ultimo passaggio dell’esistenza immaginato, tra sogni e paure, insieme, genitore e figlio.

Fa paura perchè fa risuonare l’eco di chi accusa di egoismo, di poca umanità e insomma, per dirla un po’ come si dice dalle mie parti, di sentirsi alla fine, cornuti e mazziati.

Non so se ci sia una posizione giusta ma, se dovessi partecipare ad un dibattito etico, mi piacerebbe partire da quanto sostiene Fernando Savater, proponendo una scelta etica che non sta tra il giusto e lo sbagliato, ma fra il giusto e il giusto.

Mi piacerebbe non banalizzare la questione, lasciando la parola a chi dà valore ai sentimenti, senza l’urgenza del giudizio, ma con l’accoglienza di tutta la loro umanità.

Non trovo atroce o disumano sperare di morire insieme al proprio figlio disabile, per prendersene personalmente cura fino all’ultimo istante e forse, proprio come operatori, dovremmo chiederci come mai così di frequente questo pensiero ricorre nei desideri e nei racconti dei genitori.

Ci fossero servizi e strutture più adeguate, unitamente ad una cultura sempre più attenta e sensibile, andrebbe meglio?

Sinceramente non lo so, ma non escludo che anche i sapori più amari possano riservare sorprendenti e dolci retrogusti.

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