di Irene Auletta

Qualche giorno fa, di getto e con un stato d’animo molto inquieto, ho scritto un post che immagino rimarrà tra i miei scritti privati, perchè troppo carico di quelle dimensioni intime che ritengo vadano sempre protette.

In genere, non mi piace condividere riflessioni centrate esclusivamente su faccende personali e, al contrario, la vera potenza la sento quando, al di là della scintilla che ha fatto scattare il pensiero, lo scritto diventa immediatamente plurale.

Ed ecco che oggi mi imbatto in questo post di Franco Bomprezzi, che tra i suoi temi rilancia proprio uno degli argomenti del mio scritto “censurato”, la spinosa faccenda del “dopo di noi” riferita ai futuri possibili, per le persone adulte gravemente disabili.

Non credo esista genitore di un figlio disabile o con gravi problemi di salute che, prima o poi non si sia trovato a porsi la fatidica e dolorosa domanda : “Che ne sarà di mio figlio quando noi non ci saremo più?”.

La questione è molto delicata e certamente raccoglie pensieri che si esprimono, diritti che si rivendicano, proteste che si sostengono.

Però, io non credo di essere molto brava a parlare di questi temi e ci sono già molte persone, genitori  e operatori, che lo fanno da anni con molta passione e con grande capacità e incisività.

A me piace ritagliarmi una piccola nicchia per andare a cogliere e recuperare quei sentimenti che si esprimono, spesso con un po’ di pudore o vergogna.

Tante volte ho sentito i genitori di figli disabili, augurarsi salute e forza per continuare a prendersi cura dei loro figli, fino alla fine della vita.

Ma della vita di chi?

Fa paura dire esplicitamente che si vorrebbe continuare a tenere per mano il proprio figlio, anche nell’ultimo passaggio dell’esistenza immaginato, tra sogni e paure, insieme, genitore e figlio.

Fa paura perchè fa risuonare l’eco di chi accusa di egoismo, di poca umanità e insomma, per dirla un po’ come si dice dalle mie parti, di sentirsi alla fine, cornuti e mazziati.

Non so se ci sia una posizione giusta ma, se dovessi partecipare ad un dibattito etico, mi piacerebbe partire da quanto sostiene Fernando Savater, proponendo una scelta etica che non sta tra il giusto e lo sbagliato, ma fra il giusto e il giusto.

Mi piacerebbe non banalizzare la questione, lasciando la parola a chi dà valore ai sentimenti, senza l’urgenza del giudizio, ma con l’accoglienza di tutta la loro umanità.

Non trovo atroce o disumano sperare di morire insieme al proprio figlio disabile, per prendersene personalmente cura fino all’ultimo istante e forse, proprio come operatori, dovremmo chiederci come mai così di frequente questo pensiero ricorre nei desideri e nei racconti dei genitori.

Ci fossero servizi e strutture più adeguate, unitamente ad una cultura sempre più attenta e sensibile, andrebbe meglio?

Sinceramente non lo so, ma non escludo che anche i sapori più amari possano riservare sorprendenti e dolci retrogusti.