Mi chiedo spesso che posto occupi la fatica nella narrazione di professionalità tanto differenti dalla mia. Me lo chiedo, perchè da anni ho come il sospetto che chi come me, si occupa per professione di relazioni di aiuto, abbia sviluppato la bizzarra abitudine di porre al centro di gran parte delle riflessioni la sua fatica, facendo scivolare pian piano sullo sfondo, quella delle persone a cui dovrebbe dare una mano.
Raccolgo sovente frasi analoghe. Ci occupiamo da molto di disabili e alla fine diventa logorante …. Stare con i bambini piccoli implica una grande fatica fisica e alla fine non è possibile resistere per molti anni …. Ogni tanto mi sento quasi il “vomitatoio” di alcuni utenti e la cosa, non è certo bella.
Mettere mano e pensiero alle fatiche richieste da alcune professioni è di certo un valore, ma credo sia importante fare attenzione a logiche collusive, alimentate anche da tante culture della formazione. Altrimenti, la fatica dell’altro, solo per il fatto di essere utente, rischia di smarrirsi nelle lamentele di tanti operatori che ogni tanto io stessa, rischio di confondere, a loro volta, per utenti.
Di recente una nonna, decisamente turbata dall’intervento dei servizi sociali e dalla presenza di educatori professionali nella sua famiglia ha detto, con rabbia e disperazione, “ma com’è possibile che accada una cosa del genere proprio nella nostra famiglia? un’estraneo che entra a casa mia ad osservarci?”.
Tante volte, proprio con gli educatori che entrano nelle famiglie, così come con gli operatori che entrano nelle storie altrui, mi è capitato di affrontare il tema del tatto, del rispetto, della prudenza. Si pensa di rado che aiutare, sovente, è un’azione assai ingombrante e a volte molto invasiva.
Troppo spesso, peccando di banalità, la relazione di aiuto viene associata in automatico a qualcosa di buono e forse è proprio per questo che tanto di frequente si raccoglie lo stupore di operatori che faticano a comprendere, rifiuti, resistenze e movimenti di difesa.
Occuparmi della fatica degli operatori socioeducativi, e quindi anche della mia, mi piace se diviene occasione per creare nuovi e ricchi dialoghi con quella delle persone a cui stiamo rivolgendo la nostra attenzione e il nostro aiuto, adulti o bambini che siano. Mi piace, se apre nuove forme di attenzione verso la fatica di stare con il dolore, con il senso di impotenza, con lo smarrimento dei significati e con le difficoltà ad accettare il bisogno di essere aiutati e di imparare.
Qualche anno fa una mia straordinaria maestra mi raccontò di come, trovandosi ricoverata per gravi problemi ortopedici, mise a frutto le sue più importanti riflessioni intorno alla cura dei bambini piccoli, proprio mentre altri si prendevano cura del suo corpo sofferente e privato dell’autonomia.
Imparare dalle nostre storie, insieme al continuo approfondimento delle nostre conoscenze teoriche, mi pare un binomio insostituibile. Guardare invece solo le proprie fatiche, oltre a far perdere di vista il senso del proprio stipendio, una perdita secca.
Mag 25, 2013 @ 18:49:14
Forse non è il mestiere che hanno sempre sognato . Penso che per alcune attività professionali così delicate ci voglia , oltre la passione , una vera e propria vocazione !
Mag 25, 2013 @ 18:51:34
Forse si smarrisce per strada anche la passione che, dal mio punto di vista, va anche oltre la vocazione