Gocce di libertà

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di Irene Auletta

Come siamo abili a trasformare il dolore in normalità!

Questo è l’esordio di tuo padre mentre ci troviamo riuniti insieme ad altre famiglie in una situazione, che da qualche anno attraversiamo, accompagnandoti a vivere un’esperienza terapeutica, di gioco, di divertimento, educativa, piena di tanta bellezza e possibilità.

Da sempre, nel mio quotidiano, mi misuro con la stessa ambivalenza dinanzi allo sguardo riflesso degli altri. Raramente gradevole.

Di sicuro qui è impossibile sentire estraneità e il peso della diversità, a volte insostenibile, sembra scomparire come per magia. Qui almeno non ci sentiamo sempre diverse e osservate come sotto una lente di ingrandimento, mi dice una madre mentre entrambe stiamo cercando di contenere i movimenti non sempre finalizzati delle nostre figlie.

Mi commuove e stupisce al tempo stesso la familiarità dei gesti, dei suoni, delle posture. Mani e braccia che contengono, consolano, abbracciano e resistono agli strattoni e alla tensione che tira e spinge ovunque. Corpi che rivendicano libertà e possibilità a volte con tanta confusione e scarsa comprensione della direzione desiderata.

Stasera rientrando verso il bungalow incrocio una madre impegnata a interrompere una difficile dinamica con sua figlia. Comportamenti dall’esterno incomprensibili e, a volte, difficili da decifrare anche per chi li sta vivendo in prima persona.

Accelero il passo cercando di diventare leggera, leggera, proprio per non interferire ulteriormente con l’evidente difficoltà ma, quando la signora mi guarda, stanca, le sorrido sperando che arrivi quella comprensione profonda più di una solidale stretta di mano.

Cosa desideri in questa vacanza tutta per te? E io, cosa desidero per te? In realtà tutto può racchiudersi nella frase che una giovane donna disabile mi disse anni fa quando le chiesi cosa potevo dire nel corso del mio incontro con i genitori, che stavo per incontrare in conferenza, sul tema dell’autonomia.

Di lasciarci vivere e libere, mi rispose senza alcuna esitazione. E allora, io desidero proprio questo per te figlia mia e spero di contagiarti incontrando il tuo stesso desiderio.

Gocce di libertà che, ai nostri instancabili occhi, diventano un mare ricco di possibilità.

Vuoi dire che ci ha preso Karen Blixen quando ha scritto che la cura per ogni cosa è l’acqua salata: sudore, lacrime o il mare?

Last minute: presentazione di Frammenti

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Distanze e sorprese

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di Irene Auletta

Il saluto del mattino segue le onde del risveglio e la giornata prosegue con la comunicazione di un programma giornaliero sempre ricco dove l’acqua la fa da padrona. Ma non solo.

Dopo il cerchio del saluto parte la coda di bambini, ragazzi e operatori che nel loro attraversamento del Villaggio turistico, se fosse possibile non notare, e’ impossibile non sentire. Si percepisce anche a distanza come gli spostamenti accompagnati dai canti siano occasione per ribadire la logica del gruppo, del divertimento e anche di quella spinta a stare insieme che per molti non è né facile né scontata.

Al loro passaggio davanti ai bungalow e’ possibile osservare adulti con lo sguardo orientato in quella direzione a cogliere proprio lì il loro figlio o figlia. Io, quando ti intravedo, mi scorgo sempre con gli occhi lucidi. Negli anni di questa esperienza anche le mie emozioni seguono le onde della giornata e mi vedo, esattamente come altri genitori, a osservarti sempre con quel misto indissolubile di gioia triste o malinconica contentezza.

Anche quest’anno il feeling con l’operatrice ti è di grande aiuto e vederti a distanza ridere, giocare, nuotare, lanciarti dagli scivoli e dai gommoni in acqua, e’ una cura miracolosa per tutto.

Il bello di quest’esperienza è il saperti vicinissima ma distante in compagnia di altre persone per tutta la giornata.

Ieri sera, “giornata invertita” insieme agli operatori dalle 15 alle 23, ti guardavo danzare in quel gruppo gioioso e pieno di bella energia e mi è venuto spontaneo fare il paragone con la serata musicale e danzante offerta dal villaggio, nello stesso momento, per gli altri bambini e ragazzi.

Proposte di balli ammiccanti, sempre uguali in quelle movenze incoraggiate da animatrici e animatori brutta copia di soubrette sculettanti. A guardare, divertimento zero.

Poi un po’ a distanza un gruppo di giovani che ridono e ballano insieme mescolandosi a bambini e ragazzi. La rigidità, le stereotipie, i comportamenti “fuori schema” non turbano l’allegria.

Ogni tanto riemergi in quel gruppo dove riesco ad osservarti senza fretta solo perché non mi vedi e penso che stasera la vera proposta di qualità e’ senza dubbio la vostra!

A volte la vita, nella sua durezza, lascia spazio a sorprese leggere e stasera, con quella maglietta rossa e luccicante, tu sei la mia sorpresa preferita.

A volte i pregiudizi

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Di Igor Salomone

Rieccomi. Non so come nè per quanto, ma sono ancora qui. Con questo post, in dipendenza dalle giornate, ho deciso di riprendere in mano ciò che so fare meglio: insegnare, ragionando attorno all’educazione.

Otto ragazzini e ragazzine tra i nove e dieci anni accomodati attorno a una tavolata in pizzeria. La stessa nella quale mia moglie mia figlia e io eravamo appena entrati dopo sa dio quanto tempo, causa problemi di salute del sottoscritto.

“Questi ci tireranno scemi”, ho pensato di getto quando il cameriere ci ha fatto accomodare subito prima dei magnifici otto. Vedevo già il momento di intimità con la mia famiglia tanto agognato, messo a dura prova da urla, risate, scherzi, fughe in giro per il locale. Ho impiegato più di qualche secondo ad accorgermi che in realtà i tanto temuti casinari erano serenamente seduti a tavola in attesa della loro pizza.

Mi guardo istintivamente attorno in cerca degli adulti che li accompagnavano. Erano in una tavolata parallela al di là dello stretto corridoio, seduti anche loro chiacchierando amabilmente in una suddivisione non so quanto voluta tra uomini e donne raccolto ai due capi della tavolata.

Ho atteso composto in una postura inequivocabile che diceva “vedrai fra un po’ che succede”. Invece niente. Le pizze arrivano e ognuno consuma la sua senza alcun verso, rifiuto, lamentela o rumore di qualsivoglia genere. I ragazzini parlano tra loro tra un boccone e l’altro e gli adulti uguale. Anzi in realtà qualcuno degli adulti qua e là alzava un po’ troppo voce e tono delle risate.

Appesi al soffitto c’erano ben tre maxischermi che mandavano in onda non ho idea di che partita. I ragazzini non se li sono filati neppure di striscio tranne in un paio di occasioni che hanno distratto uno o due di loro per un tempo brevissimo dopodiché si sono voltati tornando al gruppo. Finite le pizze era evidente che stessero aspettando qualcosa d’altro, un dolce che sarebbe arrivato da lì a poco, e nel frattempo sei di loro si impegnano in un gioco con delle carte a me del tutto sconosciute, mentre gli ultimi due erano impegnati in una partita di scacchi.

Forse eravamo su scherzi a parte o intrappolati in qualche reality show con un nuovo format.

Nota rilevante, nessun ragazzino aveva in mano uno smartphone che brillavano per la loro assenza anche al tavolo degli adulti. Una tavolata più in là, al contrario, gruppo misto di ragazzi e adulti che parlano fra loro mentre i ragazzi sono incollati a un qualche schermo persi chissà dove ma certamente non presenti.

Bisognerebbe cancellare l’aggettivo “diseducativo” dai vocabolari e, sopratutto, dai dotti trattati di pedagogia. Queste due scene non sono l’una educativa e l’altra diseducativa, entrambe insegnano qualcosa, quindi si tratta di capire cosa e come. Il cosa è un lungo elenco sulla quale non mi attardo, il lettore si divertirà a individuarlo. Se non ci riesce può sempre chiedermi una consulenza. Il come invece è tanto evidente quanto solitamente dimenticato. Sono stato spettatore di due scene educative con attori differenti allestite in modo differente. Qualsiasi cosa insegni l’una o l’altra, e di sicuro entrambe insegnano qualcosa, non è fatta di parole, pipponi, spiegazioni asfissianti o minacce di punizione. Gli insegnamenti possibili erano impliciti nel modo in cui erano stati organizzati gli spazi, i corpi e i mezzi a disposizione oltreché alle regole di ingaggio reciproco. E’ del tutto chiaro che andare al ristorante adulti e bambini portando con sè dei giochi da tavolo, occupare tavoli separati in modo che i ragazzi possano parlare e interagire con i propri pari e gli adulti pure senza ingerire in ciò che accade dall’altra parte del corridoio, costruisce un’esperienza educativa differente da quella che costruirebbero altri allestimenti.

Se ad esempio i posti a tavola fossero stati assegnati secondo lo schema un adulto, un ragazzo, un adulto un ragazzo, le regole di ingaggio non possono che essere tutti parlano e ascoltano di tutto senza distinzione, oppure gli adulti interagiscono e i ragazzi devono starsene buoni, oppure ancora i ragazzi sono al centro dell’attenzione e gli adulti non riescono a scambiare nemmeno una parola. Questa è la configurazione forse più diffusa nella nostra società e dovrebbe aiutarci a capire molte cose del nostro modo di educare e dei perchè i ragazzi sviluppano comportamenti di un certo tipo, come disturbare in modo permanente oppure nascondersi dietro uno schermo. LI stiamo diseducando? No, affatto, li educhiamo esattamente così. Sarebbe solo ora di assumercene la responsabilità, che nello specifico delle cose educative non significa affatto battersi il petto, puntare il dito e finire prima o poi da uno psicologo o un avvocato divorzista. “Non ci riesco” in educazione non è una scusa accettabile, se hai la responsabilità di educare qualcuno e non lo sai fare, impari.

Se l’educazione la fanno tutti

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Di Igor Salomone

Sequel di AAA educatore cercasi

Dunque ci risiamo. C’è chiaramente un’emergenza ponti nel nostro Paese, ma non si trovano gli ingegneri, non ce n’è a sufficienza, molti tra loro hanno cambiato mestiere, altri hanno preferito restare a casa, altri ancora sono semplicemente scomparsi dai radar.
Cosa si può fare in un simile frangente? Pensa che ti ripensa, a qualcuno viene una geniata: assumere avvocati, medici, sociologi, biologi per coprire i posti vacanti: purché laureato, ognuno può dare il proprio prezioso contributo. E poi, dai, che ci vuole per costruire un ponte?

Naturalmente, una quota minima di ingegneri deve esserci per dare le dritte a tutti gli altri dottori convocati nei cantieri, ma non è chiaro se chi ha avuto la geniata, l’abbia poi tradotta in delibere vincolanti. Tipo: assumete chi cavolo volete ma, se il vostro obiettivo è costruire ponti, l’x per cento deve essere di ingegneri.

Il punto è che in un mondo nel quale tutti pensano che i ponti li può costruire chiunque, se gli ingegneri ancora interessati a farlo non sono in grado di dire ciò che solo loro possono fare e gli altri non sono in grado, alla fine tutti faranno tutto, e speriamo che qualche ponte resti in piedi dopo l’inaugurazione.

Dunque, se non si può fare altro perchè mancano i ponti, almeno proviamo a differenziare: da una parte tutti quelli che non saprebbero costruire neppure una capanna di paglia, ma certamente sono in grado di tenerla pulita, di sanificarla, di arredarla in modo carino, di proteggerla dal fuoco, di inserirla in una rete di capanne. E se non lo sanno fare possono imparare in fretta. Dall’altra quelli che la sanno costruire, rimasti però in pochi per farlo, che si concentrano sulla sua struttura, lasciando agli altri i dettagli e supervisionandone l’operato.

Non sarebbe male come idea. Ma occorrono alcune condizioni:

A) la prima è che gli ingegneri abbiano chiaro quale sia il proprio compito specifico e il bagaglio tecnico che possiedono per assolverlo. Senza questa chiarezza che dipende dalle capacità effettive e non dal titolo di laurea, non si capisce perchè tutti i non-ingegneri non possano fare esattamente ciò che fanno gli ingegneri
B) la seconda è che l’impresa costruttrice si assuma la responsabilità di indicare una gerarchia tecnica all’interno del cantiere che stabilisca la priorità del parere ingegneristico su tutte le questioni ingegneristiche
C) la terza è che il mondo-cliente fondi la sua fiducia nei ponti sulle competenze di chi li costruisce e non sulle chiacchiere da bar o da Facebook per le quali uno vale uno e chiunque può sparare cazzate su qualsivoglia argomento allo stesso titolo di chiunque altro

Educatori, organizzazioni e soggetti decisori, saprebbero rispettare queste condizioni? Mi auguro di sì, ma temo di no.

A) l’educazione, a differenza dei ponti, la fa veramente chiunque e chiunque la faccia intesse relazioni educative, presidia regole, trasmette valori, immagina futuri, fa i conti con i passati. Quindi perchè no sociologi, psicologi e quant’altro si presentino al tavolo delle assunzioni? In fondo è semplice, si tratta di farsi pagare (male) per qualcosa che il mondo fa da sempre gratis. Se poi non mi riconosco in questa professione, ma si tratta di parcheggiarmi per qualche anno prima di dedicarmi a tutt’altro, ci può anche stare. E rispondere con il solito ma io c’ho la laurea è veramente triste oltreché inutile. Occorre dire: io so fare questo e questo e tu non puoi e non sai farlo. Ovviamente per poter sostenere questa affermazione occorre sapere cosa si sa fare di diverso che nessun altro può fare. E qui le note si fanno dolenti.

B) le organizzazioni che erogano servizi educativi, scuola a parte in larghissima percentuale costituita da cooperative sociali, vengono da una storia che non ammette gerarchie interne tra operatori. Ogni educatore davvero vale uno e tutti sono chiamati a fare tutto sin dal primo giorno della loro carriera. Come cogliere quindi l’occasione per identificare degli “educatori esperti” specializzati nel far funzionare parti della struttura educativa se siamo ancora alle prese con le uniche differenze interne ammesse: le attitudini laboratoriali da una parte e la referenza per i singoli utenti dall’altra?

c) non potendo cambiare il mondo, l’unica via è cambiare le narrazioni con le quali ci si presenta al mondo, imparando a dire che tipo di educazione si offre in quel particolare luogo educativo non sovrapponibile all’educazione offerta altrove, superando le trite litanie sul benessere e l’autonomia dei singoli utenti, ripetute da tutti e dunque legittimamente recitabili da tutti. Se racconto la stessa cosa sempre e ovunque, non mi posso lamentare che altri raccontino le stesse cose che racconto io, svilendone il valore.

Ma la vedo dura. Temo il prevalere delle spinte rivendicazioniste da parte degli operatori, dei bisogni di sopravvivenza delle organizzazioni e del clima generale di sfiducia e di sospetto nei confronti di tutto ciò che si presenta come competenza.

Nel frattempo sto elaborando da anni, sia in formazione che scrivendo, il quadro delle competenze educative professionali non riducibili all’educazione diffusa che più o meno son capaci tutti a fare. Troppa materia per questo post, però se qualcuno è interessato ad approfondire o anche ad approcciare cosa penso debba saper fare un educatore, sono a vostra disposizione. Scrivetemi, mandatemi messaggi, fatemi interviste, quello che volete. Purché proviamo ad andare a fondo della questione, quell’andare a fondo che permetterebbe di dire con chiarezza non perchè un sociologo o uno psicologo non dovrebbero esssere assunti per fare gli educatori, ma cosa si può chiedere loro e cosa invece deve rimanere in capo all’educatore professionale.

AAA Educatore cercasi

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Di Igor Salomone

Va bene, ora faccio sintesi dei miei quarant’anni di professione pedagogica e dico la mia sulla formazione degli educatori. E’ un bel po’ che manco da questo blog, in realtà è un bel po’ che manco e basta. E può essere pure che questo sia un episodio unico, di quelli che chiudono una serie televisiva strappandola dal pantano narrativo nel quale spesso le saghe, a lungo andare, affondano.
Dunque, pare che la bolla sia esplosa. Gli educatori sono spariti dalla circolazione, i servizi educativi chiudono, o non partono, per mancanza di personale, tutti al capezzale del malato ad analizzare cause ed eziologia del malanno. Semprechè non si tratti in realtà del letto di morte e le litanie in corso non siano orazioni funebri,

Non entrerò nel merito delle polemiche, nè delle dotte analisi, l’ho fatto per decenni e francamente sono stufo. MI limito a cogliere l’occasione per provare a declinare il curricolo che non c’è, dove non abita per altro nessun Peter Pan, e lo farò per brevi e ampie pennellate. Tanto non ascolterà nessuno, ma sono giunto a un’età che non importa chi ascolta quello che hai da dire, importa solo non ti resti nel gargarozzo.

Mi concentrerò invece sul problema della formazione degli educatori, giusto per ricordare a me stesso, e di rimbalzo a tutti quanti, che l’attuale crisi della professione e dei servizi educativi non è solo un problema sindacale o politico o generazionale o vocazionale o quant’altro in questo momento viene chiamato in causa.

L’orgia di professionalizzazione consumatasi negli ultimi decenni, ha fatto credere che un percorso di studi adeguato, ovviamente universitario, avrebbe fornito al lavoro educativo il riconoscimento sociale ed economico che meritava. Mi pare del tutto evidente che questo piano sia miseramente fallito. Il fatto che in Lombardia ben cinque corsi di laurea per educatori professionali (Bicocca, Cattolica, Don Gnocchi, Bergamo e Insubria) non riescano a formare un numero sufficiente di educatori lasciando il mercato scoperto, sarebbe già una prova sufficiente. Aggiungiamoci anche che gli educatori non solo non si trovano ma scappano, o non arrivano proprio in luoghi di lavoro estremamente impegnativi dove vengono pagati meno di una badante, senza alcuna prospettiva di carriera e certamente senza alcuna possibilità di veder migliorare la propria remunerazione. Sin qui i discorsi sulla bocca di tutti.

Ma c’è da considerare anche un altro fattore di crisi, più difficile da nominare: la capacità professionale degli educatori in tutti questi anni non è cresciuta affatto e, per molti versi, è anche peggiorata. Difficile ammetterlo nei convegni, di solito organizzati da quell’Università che avrebbe dovuto far sbocciare queste professionalità. Però non c’è operatore anziano, coordinatore, responsabile delle risorse umane che non borbotti amaramente questa verità sotto gli occhi di tutti. Dunque lo farò io, visto che incontro educatori da quarant’anni, sia nei servizi sia in Università, e un qualche valore di testimonianza posso permettermi di averlo.

Dunque, cosa dovrebbe studiare un educatore per diventare educatore? Secondo me (non faccio altro ormai che scrivere a partire da questo incipit, almeno non tocca di giustificare tesi ovvie appoggiandole a quintali di citazioni altretttanto ovvie o, peggio, di dover dimostrare tesi eventualmente importanti appoggiandole a una letteratura che non le ha nemmeno intraviste) secondo me, dicevo, nel curricolo formativo di un educatore dovrebbero campeggiare:

A) Uno o più percorsi di esperienza ad alta densità corporea. Non importa quali, purchè sin dalla formazione di base si insegni che l’educazione è una questione di postura e che la postura ha sempre a che fare con il corpo

B) Esperienze di teatro. Anche qui di qualsiasi natura, con lo scopo specifico di sviluppare la capacità di muoversi in situazione interagendo con il contesto spazio temporale e con gli altri attori in scena

C) Un intenso training di problem solving, a scolpire indelebilmente l’idea che educare significa affrontare, capire e governare problemi, per trasformarli in occasioni educative

D) Un altrettanto intenso percorso di analisi pedagogica per iniziare a ricostruire le traiettorie educative personali lungo le quali si è definito il processo formativo di ognuno

E) Studi di pedagogia, storia del pensiero pedagogico, antropologia dell’educazione, sociologia dell’educazione, storia dell’educazione, diritto dell’educazione, politiche educative, filosofia ed epistemologia dell’educazione, psicologia dell’apprendimento. Studi da effettuare in un’ottica interdisciplinare finalizzata alla comprensione del fenomeno educativo nella sua genesi

Per intenderci sul piano ponderale: i punti A B e C devono costituire l’ossatura portante della formazione di base, non essere conditi via con qualche laboratorio. Il punto D non va sbolognato rinviando ogni studente a qualche forma di psicoterapia, ma va costruito organicamente nel percorso universitario. Il punto E comprende tutti i saperi scientifici a mio parere necessari per fare l’educatore con una ampia prospettiva culturale dei quali del resto sono già saturi i curricola universitari, ma non dovrebbero superare il terzo del tempo a disposizione e, sopratutto, ognuna di queste discipline va modulata sulla prospettiva particolare che può offrire sull’oggetto educazione che può offrire. Altrimenti restano dei bigini di materie importanti, semplificate per una laurea di serie B.

Il tirocinio, in una prospettiva di questo tipo, potrebbe essere superato, visto che una formazione così delineata non potrebbe che essere caratterizzata da un’altissimo tasso di esperienza pratica. Il superamento del tirocinio, inteso come momenti trascorsi sul lavoro durante il periodo universitario, può aprire la strada a forme di apprendistato, inteso come periodo di entrata al lavoro concentrato sula traduzione nei compiti operativi del sapere acquisito in Università. Inoltre l’istituzione stessa dell’ apprendistato sancirebbe che non basta fare qualche esame per diventare educatori, che occorre invece un congruo periodo di tempo per apprendere le pratiche lavorative concrete dopo gli studi di base. Infine, iniziare una carriera professionale come apprendista educatore, implica creare un percorso di carriera professionale per gli educatori, attualmente inesistente e appiattita sui compiti quotidiani rispetto ai quali tutti hanno la medesima responsabilità e le medesime funzioni, dall’ultimo arrivato sino al senior in servizio magari da decenni.

Per poter realizzare tutto ciò serve una cosa sola: fare spazio. Perchè i curricola universitari sono già sin troppo pieni e non è pensabile pigiarne a forza altri contenuti. In particolare:

A) Tutta una serie di saperi connessi a condizioni specifiche di lavoro, che quindi orientano a questa o quella fascia d’utenza o problematica sociale o modello di intervento, vanno opportunamente posticipate al periodo di entrata in servizio. Studiare un po’ di adolescenza, un po’ di disabillità, un po’ di infanzia, un po’ di alzheimer, un po’ di servizio sociale, non serve a nulla, o per lo meno, serve a molto poco rispetto ai cinque ordini di saperi che ho descritto all’inizio. In compenso porta via un sacco di tempo e a quei cinque ordini vengono dedicate quando va bene scarne ore di laboratorio

B) Vanno invece semplicemente eliminate tutte quelle discipline impartite a mo’ di bigino solo perchè hai visto mai che potrebbero servire tipo, pediatria, neuropsichiatria, genetica, igiene, linguistica, diritto amministrativo, che poi servono senz’altro: servono a creare cattedre per permettere l’inizio di carriere universitarie.

Come promesso, un curricolo formativo molto stringato, andrebbe poi declinato punto per punto. Io sono qui, se qualcuno è interessato ho parecchie idee in proposito. Perdonatemi invece qualche temperie polemica, non ce l’ho fatta a evitarle proprio tutte tutte. Ma vi prego di capirmi, sono un vecchio guerriero stanco di combattere battaglie inutilmente vinte.

Il valore dei resti

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di Irene Auletta

Mi hanno detto che i miei ultimi post sono molto amari e può essere che la vita, sfuggendo un po’ al mio controllo, si sia intrufolata tra le righe anche laddove non invitata. Succede. E’ un equilibrio che si impara in anni di ricerche, tentativi e nuove sperimentazioni.

Tante volte mi sono ritrovata a chiedermi cosa possiamo imparare da quello che ci e’ accaduto, individualmente e collettivamente, nell’ultimo anno e mezzo e solo ora mi rendo conto di aver passato gli ultimi mesi di fronte alla bilancia dell’esistenza nel tentativo di inventare nuove alchimie.

I segni, le vicende e le narrazioni con segno negativo non hanno bisogno di essere condivise perché hanno invaso sovente tutte le nostre scene familiari e professionali ma, attraversando luoghi educativi, l’idea di tenermi stretta l’educazione e’ rimasta sempre la mia ancora di salvataggio.

Oggi ascoltavo il video di un collega e amico che parlando della storia attraversata dalla sua organizzazione, anche nella direzione di prospettive future, parla di nuove esigenze e ricerche. “L’arte di rendere fecondi i resti”, così nomina il nuovo orizzonte educativo. Grazie Maurizio, sicuramente porterò questa tua sintesi intensa, ricca e preziosa, nel mio pellegrinaggio professionale. 

E allora ancora una volta, vita è professione si intrecciano, in modo indissolubile?

Ma quanto e’ felice appena sente che stai arrivando? In questo periodo il vostro legame sembra arricchito di una nuova gioia e di un’intesa sempre maggiore. Così mi dice la tua maestra Feldenkrais in uno dei nostri ultimi incontri. Il tuo giovane corpo ti ha messo di fronte ad una nuova prova, quasi sintonizzandosi con le difficoltà  del resto mondo, richiedendoci di inventare e nutrire nuove alleanze.

E siamo ancora qui a chiederci cosa possiamo imparare dall’ennesima caduta!

Le affermazioni di Angela mi spingono a riflettere sull’intensità di alcune nostre nuove complicità, sul bisogno di rinascere ogni giorno raccogliendo nel nostro personale bilancio quelle possibilità che strappano un sorriso insieme ad un respiro ampio. La gioia, lo sappiamo bene, va coltivata come il più delicato dei fiori, anche nelle tempeste.

Con te ho imparato sofisticate strategie per rialzarsi e tu, figlia mia, non hai neppure idea di quanto siano preziose come bagaglio da condividere. Le persone come te vengono sovente viste per i loro aspetti di fragilità ma chi ha potuto, come noi, avvicinarsi alla tua immensa forza, porta con sé la certezza di quella magica  e lunare marcia in più. Questo, fa e farà davvero la differenza. 

Ripartiamo dai resti.

Madri insopportabili

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Mi capita spesso di raccogliere dagli educatori che lavorano in servizi rivolti a persone con disabilità, bambini, ragazzi o adulti, commenti un po’ aspri rivolti ai genitori. Ma soprattutto alle madri.

Ma secondo te perché sempre le madri? ho chiesto a tuo padre qualche giorno fa. Forse perché loro ci sono sempre, mi ha risposto.

Già, forse.

Le madri vengono descritte sovente come troppo esigenti o deleganti, troppo severe o incapaci di un minimo contenimento, lamentose o tigri, insomma, sempre eccessive.

Dovessero fare una classifica delle insopportabili temo mi piazzerei abbastanza bene ma, anche se negli anni ho imparato a sdrammatizzare, mi rimane nel cuore un profondo dispiacere e una solitudine incurabile che mi accompagna ormai da molto tempo, continuando a orientarmi, sempre con più forza, come professionista.

Ascoltando i racconti che sto incontrando proprio in questo fine anno scolastico, prima della pausa estiva, trovo nelle parole ricorrenti degli operatori le origini di alcune distanze siderali.  Le ho nominate spesso nei miei scritti ma oggi ho la consapevolezza, amara e asciutta, che deve cambiare qualcosa di radicale perché operatori e genitori possano parlarsi e, soprattutto, intendersi. 

Un genitore non può ritrovare il figlio solo in un elenco di comportamenti, quasi sempre problematici, e di certo fatica a far dialogare alcune immagini esterne con quelle che vive nel suo ruolo affettivo. Nei racconti degli educatori a volte non intravedo quelle connessioni di cura che parlano proprio del “prendersi a cuore” di Don Milani e che invece, quando si incrociano, raccontano anche di relazioni positive e ricche con i genitori. Ma questo non vale per tutti i genitori?

Io tante volte non ti ritrovo in alcuni racconti e quasi mai quelle narrazioni sono occasioni di confronto e sostegno. La persona che sei per me non nega alcune dimensioni legate alla tua condizione ma, ogni giorno, prova ad andare oltre l’apparenza stupendosi di quello che è possibile far emergere da uno sguardo curioso.

Penso che l’automatismo sia uno dei mali più critici dell’educazione ma forse il fermarsi all’apparenza e stare sulla superficie non è da meno. Così scompaiono le essenze e con loro le persone, soprattutto quando hanno corpi, comportamenti e gesti che ricordano in ogni istante le loro differenze.

Vedere la persona straordinaria che sei diventata, e che mi ha aperto e apre ogni giorno porte per nuove conoscenze, mi sostiene per noi e mi sconforta per la cecità altrui. E allora sarò sempre insopportabile a causa di questo scarto abissale? 

Probabilmente sì.

https://danzareiltempo.blogspot.com/2021/05/a-occhi-chiusi.html

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A occhi chiusi

Un post che può essere un passo di danza tra due BLOG

Donne coraggiose

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di Irene Auletta

Ci sono due donne fondamentali nella mia vita e a loro devo la possibilità di non perdere mai di vista l’orizzonte, anche nei momenti di smarrimento.

Mia madre, oggi ottantaseienne, dall’età di trentasette anni ha iniziato il suo personale calvario che l’ha vista tante volte cadere e altrettante rialzarsi con la forza del sorriso. Come dice lei, la vita è già pesante, tanto vale essere sempre di buon umore! In ginocchio mia madre ha affrontato, insieme a diverse gravi malattie, la morte di un figlio e oggi, per fortuna, l’oblio del tramonto sembra renderle tutto più ovattato. 

Che ci sto a fare ancora qui se non posso più darti una mano? mi ha detto pochi giorni fa. Eccola quell’essenza di cura che appena può riemerge, anche se tinta di malinconia. E chi ti dice che non dai più una mano? Forse lo fai e neppure te ne accorgi? E così dalle ombre si apre un piccolo squarcio pronto ad accogliere la tua risata cristallina. Ecco mamma, anche per oggi, missione compiuta! 

E poi c’è la mia piccola donna, ancora e faro, con il suo zainetto di vita ben pesante sin dalla nascita. Lei mi insegna ogni giorno il valore dell’allegria che io stessa non smetto mai di nutrire. In questi giorni abbiamo ripreso i nostri rituali di scherzi e di risate per affrontare insieme alcune nuvole un po’ dense. Quando ridiamo la vita rimane un attimo sospesa e subito dopo tutto sembra più sostenibile. Mi inchino a te maestra Luna, che ogni giorno ti misuri con le tue piccole/grandi fatiche per affrontare la vita e nel farlo mi restituisci significati preziosi da trattenere.

Ma tu non sei mai stanca? Sembra che le fatiche che travolgono tutti noi neppure ti sfiorino. Non di rado mi sento rivolgere domande di questo tipo, soprattutto di questi tempi in cui ciascuno sembra fare a gara per rivendicare la sua personale fatica. 

Ogni tanto, mi piacerebbe anche lamentarmi ma poi vi penso, esempio di vita e di forza e, con la vostra immagine nel cuore, mi ritrovo ancorata ogni volta ai significati per me più forti e importanti. 

Mi volto, guardo chi mi ha rivolto la domanda e senza commentare, sorrido.

I bambini mostrano le cicatrici come medaglie. Gli amanti le usano come segreti da svelare. Una cicatrice è ciò che avviene quando la parola si fa carne. (Leonard Cohen)

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