Sfumature della cura

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le sfumature della curadi Irene Auletta

Mi è sempre parsa un po’ riduttiva l’idea della cura maschile associata ai nuovi papà alle prese con pappe e pannolini, tante volte raccolta dalle voci femminili. Mio marito mi aiuta tantissimo ed è proprio un papà moderno, non ha nessun problema ad occuparsi del bambino e anche lui si sveglia di notte! 

Evviva. Detto questo però mi pare importante provare ad andare oltre i primi due o tre anni di vita per esplorare quelle possibilità di cura che, accompagnando i figli nella crescita, sappiano fare un saltino dopo le cure primarie solitamente rivolte ai piccoli. Mi piacerebbe anche allargare il pensiero pensando ai tanti padri separati che si ritrovano da soli ad occuparsi di qualcosa che conoscono poco, ai padri che incontrano figli che richiedono cure primarie anche dopo i primi anni di vita e a tutti quegli uomini che, come figli, si trovano ad occuparsi di genitori anziani, bisognosi di cure non come bambini, ma come persone adulte invecchiate.

Non so bene come organizzarmi perchè finora certe cose le ha sempre fatte la mia ex moglie e ora mi ritrovo a dover imparare tanto di nuovo…

Sono tornato a vivere con mia madre che è rimasta sola e ha bisogno di essere aiutata in tante piccole faccende …. per fortuna al momento è ancora abbastanza autonoma.

Prendersi cura dell’altro tocca corde delicate e intime per tutti, uomini e donne. Forse in questo momento gli uomini coinvolti nella cura possono orientare anche le donne a dire delle loro fatiche, aiutandole a non assumere sempre e a tutti i costi quell’atteggiamento di chi ha nel dna indicazioni infallibili.

Una collega mi racconta di come si è ritrovata a fare il bagno a suo padre anziano e poco presente e, sicuramente per sdrammatizzare un momento difficile mi dice,  pensa che stranezza vederlo nudo … non ho potuto fare a meno di pensare che io sono venuta proprio da lì.

Se gli uomini devono imparare a prendersi cura, le donne possono cogliere l’occasione per provare a ridare voce e senso a gesti smarriti nella memoria collettiva e nascosti come poco nobili tra tante mura domestiche.

Più di una madre mi ha raccontato il giorno in cui la figlia disabile ha avuto il ciclo mestruale, come “il più brutto della mia vita” e tante donne condividono il bisogno di trovare significati nella cura di genitori anziani malati e persi in mondi di tramonto senile. Magari gli uomini raccontano meno ma li immagino alle prese con questioni assai simili.

Curare è difficile per tutti, uomini e donne. Riuscire ad andare oltre le prime pappe mi pare proprio una bella conquista, sia per esplorare la molteplicità dei significati legati alla cura che per permettere l’intreccio di nuovi racconti, al maschile e al femminile.

Storie di ordinaria cattiveria

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ombredi Irene Auletta

E’ successo ancora. Video che gira in rete urlando indignazione, rabbia, sconforto, paura. La ripresa si sofferma impietosamente su maltrattamenti, verbali e fisici, inflitti ad un ragazzino disabile. Non vi sembra la stessa scena che non molti mesi fa riprendeva una badante che malmenava una signora anziana oppure quella di una madre decisamente poco amorevole con il proprio bambino di qualche mese di vita?

Da anni vado nominando soggetti e categorie a rischio di violenza che, non a caso, sono riconoscibili nei bambini piccoli, nei disabili e negli anziani. Soggetti che faticano a raccontare e, soprattutto, a difendersi. Provate a immaginare la stessa scena con adolescenti senza problemi e vi accorgerete che a rischio, potrebbero essere in questo caso gli adulti. Allargando il campo e la visuale, dentro e fuori i confini del nostro paese, a rinforzare le fila dei fragili, non mancano neppure le donne, sempre alla ribalta nelle scene di cronaca come vittime di una violenza che sovente non lascia scampo.

Eppure ogni volta sembra la prima volta e lo scandalo sembra raggiungere lo stupore di quanti immagino con la bocca spalancata a dire, davvero? ma come è possibile che accadano cose del genere? Gli stessi che magari hanno commentato tramite web o negli scambi di persona, esibendo un livello di aggressività altrettanto preoccupante e comunque non originale. Immaginatevi la mia faccia quando in un intervista ad una nota psicoterapeuta l’ho sentita affermare, quasi fosse il pensiero più intelligente dell’anno, che il problema riguarda la selezione del personale delle strutture educative. Ma dai. Piantiamola con le fesserie e per favore parliamo di cose serie.

Sicuramente sono stati offerti su tematiche analoghe, commenti e riflessioni assai autorevoli. Io mi sento di guardare un po’ da vicino un antico dibattito tra viscere, testa e cuore. Le viscere, di genitore o di adulto sano, non possono che gridare vendetta, con quella voglia di avere tra le mani i violenti e, come si dice dalle mie parti, fargli passare un guaio. Il cuore batte forte e perde colpi, pensandosi la madre di quel ragazzo o di quel bambino, oppure la figlia di quell’anziano, oppure ancora quella donna maltrattata dal suo compagno presa a chiedersi dov’è l’amore.

La testa, almeno la mia, ingaggia una sfida con la professionista che sono, presa a interrogare il senso di talune vicende e la necessità di abbandonare codici buonisti per guardare con coraggio le parti dell’animo umano, tra cui la cattiveria ha sovente un posto d’onore. Ce lo confermano secoli di storia, se solo alziamo il nostro sguardo da terra e tratteniamo la nostra rabbia o la voglia di non sapere.

E allora che si fa? Me lo sono chiesta tante volte, negli anni, di fronte a racconti di violenza o di fronte a fessure che mi hanno lasciato immaginare e intravere comportamenti aggressivi di genitori e di operatori. Non ho alcuna risposta magica, nè una ricetta miracolosa che trasformi i cattivi in buoni.

So però che mi ha aiutato riconoscere la cattiveria come parte dell’umano, guardarla in faccia senza troppi timori, non abbassare gli occhi per il dolore. Mi ha aiutato chiedere alle persone di parlarne, senza erigermi a giudice, ma provando a capire come evitarne il ripetersi. Vicende analoghe sono sempre accadute, accadono oggi e accadranno ancora. Ognuno di noi, come singolo cittadino  o come professionista, può chiedersi come mettere a disposizione la sua intelligenza e il suo cuore per affrontarle, sperando di prevenirle. Ognuno di noi, parte di una testa e un cuore collettivo, dovrebbe mettersi gli occhiali del disincanto e da lì partire, per cercare vie percorribili e possibili per non attendere inerme, il prossimo scandalo.

Giù le mani

2 commenti

IMG_1803di Irene Auletta

Ricordo molto bene come, tanti anni fa, incontrando le educatrici dei servizi per la prima infanzia ho iniziato a trattare temi relativi al contatto fisico con i bambini e alla necessità di pensare e ripensare il lavoro educativo come occasione per svelare e nominare gli eccessi possibili nei gesti di cura. Da allora ho attraversato parecchi servizi e, nei vari luoghi di formazione e supervisione, questo tema è riapparso sovente tra quelli ricorrenti e sempre attuali.

Pochi giorni fa, in un centro per bambini disabili, la scena si è ripetuta e mi sono ritrovata a nominare l’attenzione necessaria nell’incontro con il corpo altrui e con la sua persona. E’ possibili che nove o dieci operatori mettano le mani addosso allo stesso bambino? Accompagnare in bagno per il cambio, assistere durante il pranzo, imboccare, pulire la saliva alla bocca oppure il naso, aiutare a vestirsi o svestirsi, sostenere nella miriade dei piccoli movimenti quotidiani.

Solo facendo l’elenco mi viene prurito lungo tutto il corpo.

Quando il gesto arriva dall’esterno non sempre riesce a rispettare il tempo, la misura e il tono necessario e immagino quanta tolleranza, pazienza e disponibilità sia necessario, da parte di chi lo riceve, per non mettersi a urlare o a scalciare.

In realtà a volte i bambini o ragazzini disabili lo fanno con il rischio che, prontamente, gli operatori o i loro stessi genitori, sfoderino le migliori interpretazioni. E’ aggressivo, ipercinetico, ha un brutto carattere, fa i capricci, non è collaborante e via di questo passo in un elenco che ognuno può arricchire grazie alla sua esperienza o fantasia.

Io soffro tantissimo e mi accade sempre. Quando all’asilo nido pensavo ai bambini piccoli e alle interferenze continue delle educatrici, quando penso alle condizioni di bambini e ragazzini disabili che non sono in grado di esprimersi liberamente, quando penso alle condizioni di alcuni anziani non più in possesso di tutte le loro facoltà di adulti. Anche loro come i piccoli e i disabili, ogni tanto vengono definiti capricciosi o monelli.

Soffro quando penso a mia figlia, al suo passato, al suo futuro e all’ignoranza che ancora è presente nella cultura e nei servizi che ruotano intorno al mondo della disabilità.

Ogni tanto sono presa da un grande sconforto e mi chiedo cosa è possibile fare, oltre a quello che provo ad attivare quotidianamente come genitore e come pedagogista. Come reazione, cerco di non perdere occasione per fare nuovi pensieri e ipotizzare nuove azioni.

L’altro giorno, sempre nel centro per bambini disabili, osservavo gli operatori coinvolti nella supervisione. Sono persone, stanno imparando anche loro e sono certa che cercano di svolgere al meglio il loro lavoro. Ho provato un sentimento di fiducia e mi auguro che avvicinando i loro bambini ricordino le parole e le emozioni dell’incontro.

Il gesto, di per sè, è solo un automatismo. Farlo diventare educativo  e amorevole richiede tempo, pensiero e riflessione.

Abbiate pazienza bambini, pian piano arriviamo anche noi.

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